RICORSO N. 46 DEL 2 APRILE 2015 (DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI)

Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 2 aprile 2015.

(GU n. 19 del 13.5.2015)

 

Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato (codice fiscale 80224030587), presso i cui uffici domicilia in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, per il ricevimento degli atti, fax 06.96514000 e PEC ags_rm@mailcert.avvocaturastato.it;   Nei confronti della regione Umbria, in persona del presidente della giunta regionale pro tempore, con sede in Perugia al corso Vannucci n. 96;   Per la dichiarazione della illegittimita' costituzionale della legge della regione Umbria del 21 gennaio 2015, n. 1, recante: «Testo unico governo del territorio e materie correlate», pubblicata nel B.U.R. Umbria 28 gennaio 2015, n. 6, supplemento ordinario n. 1, limitatamente agli articoli 1, commi 2 e 3; art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m), n); art. 8; art. 9, comma 4; art. 10, comma 1; art. 11, comma 1, lettera d); art. 13; art. 15, commi 1 e 5; art. 16, commi 4 e 5; art. 17; art. 19; art. 21; art. 18, commi 4, 5, 6, 7, 8 e 9; art. 28, comma 10; art. 56, comma 3; art. 32, comma 4; art. 49, comma 2, lettera a); art. 51, comma 6; art. 79, comma 3; art. 56, comma 14; art. 54; art. 59, comma 3; art. 64, comma 1; art. 95, comma 4; art. 118, comma 1, lettere e) ed i), e comma 3; art. 118, comma 2, lettera e); art. 118, comma 3, lettera e); art. 140, comma 12; art. 124; art. 124, comma 1, lettera g); art. 140, comma 11; art. 141, comma 2; art. 142, comma 1; art. 147; art. 155; art. 118, comma 2, lettera h); art. 151, comma 2 e comma 4; art. 154, comma 1 e comma 3; art. 206, comma 1; art. 215, comma 5 e comma 12; art. 243, comma 1; art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, 202 e 208; art. 258; art. 264, commi 13, 14 e 16.

La legge della regione Umbria n. 1/2015, con riferimento alle disposizioni sopra indicate, presenta profili di illegittimita' costituzionale e viene quindi impugnata per i seguenti,

 

Motivi

 

1) L'art. 1, commi 2 e 3, in correlazione con l'art. 2, commi 5 e 6, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 1, al comma 2, della legge regionale umbra n. 1 del 2015 definisce il «governo del territorio» come «complesso coordinato, organico e sinergico, delle attivita' conoscitive, regolative, valutative, attuative, di vigilanza e controllo, nonche' di programmazione, anche della spesa, riguardanti gli interventi di tutela, valorizzazione ed uso del territorio ai fini dello sviluppo sostenibile nelle materie attinenti l'urbanistica e l'edilizia, compresa la disciplina antisismica». Il comma 3 precisa che «ai fini del presente testo unico sono materie correlate, limitatamente agli strumenti urbanistici e ai titoli abilitativi edilizi, le norme in materia di Valutazione ambientale strategica (VAS) e di tutela dell'ambiente e della salute pubblica dall'inquinamento acustico prodotto dalle attivita' antropiche».

Tali previsioni, nell'introduzione di una nuova definizione di «governo del territorio», non prevista dalla legge statale, travalicano i limiti della competenza concorrente attribuita alle regioni dall'art. 117, comma 3, della Costituzione, in riferimento alla materia del «governo del territorio». E' riservata allo Stato, infatti, l'enunciazione dei principi fondamentali (tra i quali rientra evidentemente la definizione stessa della materia in questione) atti a garantire una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale. In altri termini, deve escludersi che nelle materie di legislazione concorrente le regioni possano rivendicare il potere di definire autonomamente la materia stessa, invadendo con cio' l'ambito dei principi fondamentali che l'art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla competenza legislativa dello Stato (sent. n. 343 del 2005). Del resto, rientrano nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (sent. 309 del 2011), cui si riferisce appunto il comma 3 dell'art. 1 della legge regionale denunciata.

Dalla definizione della materia «governo del territorio» contenuta nella legge regionale sospettata discendono, infatti, conseguenze lesive delle prerogative attribuite alla normativa statale.

Ad esempio, l'art. 2, comma 5, della legge regionale in parola prevede che la regione e gli enti locali «negli atti normativi e nei procedimenti amministrativi in materia di governo del territorio e materie correlate di cui al presente testo unico, non possono introdurre ulteriori adempimenti regolatori, informativi o amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri con riferimento al medesimo arco temporale e comunque senza costi aggiuntivi». E' evidente che la regione e gli enti locali non potrebbero sopprimere adempimenti regolatori, informativi o amministrativi previsti dalla legge statale in ambiti di competenza legislativa esclusiva (come la tutela dell'ambiente o della salute, o i livelli essenziali della prestazioni), o nella determinazione dei principi fondamentali di materie di legislazione concorrente (quale il governo del territorio). La formulazione dell'art. 1, letto congiuntamente all'art. 2, invece, si presta alla suddetta interpretazione e appare, pertanto, in contrasto con l'art. 117, comma 3, della Cost.

Analogamente, al comma 6 dell'art. 2 il legislatore regionale ha previsto che «Le pubbliche amministrazioni nell'esercizio dei poteri amministrativi concernenti la materia di governo del territorio e materie correlate, di cui al presente testo unico, adottano gli atti e provvedimenti amministrativi di propria competenza scegliendo la soluzione meno afflittiva per le imprese ed i cittadini». Anche in questo caso, dal combinato disposto delle due norme sembra che la discrezionalita' delle pubbliche amministrazioni «nell'esercizio dei poteri amministrativi concernenti la materia di governo del territorio e materie correlate» possa essere sempre indirizzata alla scelta della soluzione meno «affittiva» per le imprese ed i cittadini, mentre, specialmente in alcuni settori (come la tutela dell'ambiente, della salute, della pubblica incolumita'), che la definizione di cui all'art. 1 riconduce al «governo del territorio e materie correlate», sono altri gli interessi pubblici che devono prevalere.

In altri termini, l'impropria estensione del significato e della portata della materia «governo del territorio» attraverso il richiamo alle «materie correlate» si traduce in una palese violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione perche' consente alla legge regionale, di introdurre inammissibili deroghe ai principi fondamentali dettati in materie di legislazione concorrente se non addirittura una compressione della competenza esclusiva statale in materia di ambiente.

Alla luce delle considerazioni formulate, la definizione di «governo del territorio» contenuta all'art. 1, commi 2 e 3, contrasta con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

2) L'art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m), n), per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m) ed n), della legge regionale censurata presenta profili di illegittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 117, comma 3, della Costituzione (con riferimento alla materia del «governo del territorio»).

Le disposizioni censurate dettano alcune definizioni in materia edilizia che, in parte, contrastano con quelle espressamente individuate dalla normativa statale [ad esempio, nel caso della «manutenzione straordinaria» e della «ristrutturazione edilizia», rispettivamente indicate alle di cui lettere b) e d) dell'art. 7] e in parte non sono contenute nella normativa statale, che deliberatamente - in un'ottica di semplificazione - ha scelto di accorpare le categorie gli interventi edilizi, riducendole a quelle individuate nell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 [come nel caso delle «opere interne» indicate di cui alla lettera g) dell'art. 7], oppure deliberatamente ha scelto di non definire determinate categorie concettuali, rimettendole, quindi, all'elaborazione giurisprudenziale e all'interpretazione [e' il caso della nozione di «edificio» e di «isolato edilizio», rispettivamente indicate alle di cui alle lettere m) e n) dell'art. 7].

In particolare, l'art. 3 del testo unico dell'edilizia adottato con il decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, definisce la «manutenzione straordinaria» e la «ristrutturazione edilizia» in modo diverso dall'art. 7 della legge regionale dell'Umbria n. 1 del 2015, mentre non disciplina affatto le nozioni di «edificio» e di «isolato edilizio» (pur riferendosi ripetutamente a queste categorie concettuali nella Parte II - Normativa tecnica per l'edilizia). La formulazione letterale di tali disposizioni regionali, specialmente delle ultime due [lettere m) e n) dell'art. 7, comma 1] consente astrattamente di darne un'applicazione generale, e quindi e' suscettibile di avere effetti sulle modalita' di applicazione delle norme poste dal legislatore statale a tutela di interessi unitari.

Al riguardo, codesta Ecc.ma Corte costituzionale, con la sentenza n. 309/2011, ha chiarito che le definizioni degli interventi edilizi contenute all'art. 3 del testo unico costituiscono un principio fondamentale della legislazione statale nella materia del «governo del territorio». E, in particolare, ha osservato che «sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perche' e' in conformita' a queste ultime che e' disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonche' agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali» e che quindi «rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi».

Inoltre, codesta Ecc.ma Corte - da ultimo con la sentenza n. 49/2014 - ha precisato che qualora una materia sia di competenza esclusiva dello Stato (e cio' deve ritenersi, quindi, nel caso della definizione di un principio fondamentale in una materia di competenza concorrente), sono «inibiti alle regioni interventi normativi diretti ad incidere sulla disciplina dettata dallo Stato, finanche in modo meramente riproduttivo della stessa (sentenza n. 245 del 2013, che richiama le sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006)». Di qui il contrasto delle disposizioni censurate con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

Anche se deve ritenersi che il presente motivo abbia carattere assorbente, si rileva che le disposizioni censurate sono affette anche da ulteriori profili di incostituzionalita' e, come si vedra' di seguito, contrastano anche con l'art. 117, comma 2, lettera s) e, limitatamente alla lettera d), con l'art. 9 nonche', per ulteriori profili, con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

2.1) L'art. 7, comma 1, lettera b) in correlazione con l'art. 118, commi 2, 3 e 5, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

L'art. 7, comma 1, lettera b), definisce gli interventi di manutenzione straordinaria come «le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici e delle loro pertinenze, sempre che non alterino i volumi e la superficie utile coperta complessiva delle unita' immobiliari e non comportino modifica della destinazione d'uso, e inoltre le opere e le modifiche necessarie a sostituire o eliminare materiali inquinanti. Sono altresi' classificabili come manutenzione straordinaria gli interventi consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unita' immobiliari, anche con esecuzione di opere, senza modifica della destinazione d'uso».

Tale previsione contrasta con l'art. 3, comma 1, lettera b), del testo unico dell'edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, come modificato dall'art. 17, comma 1, lettera a), n. 1 e 2 del decreto-legge n. 133/2014 convertito in legge n. 164/2014, nella parte in cui non prevede che gli interventi di frazionamento e accorpamento delle unita' immobiliari possono comportare «la variazione delle superfici delle singole unita' immobiliari nonche' del carico urbanistico purche' non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso».

Di conseguenza, la disposizione regionale ascrive nel novero della ristrutturazione edilizia interventi che invece andrebbero ricondotti alla manutenzione straordinaria, incidendo cosi' sull'individuazione del titolo abilitativo necessario per realizzare tali interventi.

L'art. 7, comma 1, lettera b), inoltre, include tra gli interventi di manutenzione straordinaria: «... le opere e le modifiche necessarie a sostituire o eliminare materiali inquinanti». L'art. 118, comma 2, lettera a), della legge regionale in commento prevede poi che questi interventi siano di «attivita' edilizia libera», realizzabili previa comunicazione al comune.

Pertanto, la previsione contenuta all'art. 7, comma 1, lettera b), oltre a contrastare con l'art. 3, comma 1, lettera b) del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, che non annovera queste opere nell'ambito della manutenzione straordinaria, riconduce alla materia «edilizia» l'esercizio di un'attivita' consistente nella gestione di rifiuti o addirittura nella realizzazione di interventi di bonifica (cui la sostituzione o l'eliminazione di detti materiali puo' sostanzialmente ricondursi) e invade, cosi', la potesta' legislativa statale nella materia di tutela dell'ambiente, cui va ricondotta la disciplina dei rifiuti e della bonifica.

Per effetto del combinato disposto delle due norme regionali sopra richiamate, non e' assicurato il rispetto di quanto previsto dal decreto legislativo n. 152/2006 in materia di rifiuti (in particolare agli articoli 177, comma 4; 179, commi 1 e 2; 181, commi 1 e 4).

L'art. 118, comma 3, infatti, nell'individuare il contenuto della comunicazione prevista al comma 2 del medesimo articolo, infatti, fa genericamente riferimento a «le autorizzazioni previste come obbligatorie dalla normativa di settore, fatti salvi i casi in cui queste possono essere sostituite da autocertificazione». Altrettanto generica e' la clausola di salvaguardia contenuta al comma 5 dello stesso art. 118, che non contiene alcun espresso riferimento alle norme in materia ambientale contenute nel codice dell'ambiente, mentre richiama il necessario rispetto «in particolare, delle norme antisismiche, come previsto all'art. 114, comma 11, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative alla efficienza energetica, nonche' delle disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 42/2004 e nell'atto di indirizzo di cui all'art. 248, comma 1, lettere b) e g), nonche' gli eventuali adempimenti fiscali e tributari, compresi gli atti di aggiornamento catastale nei termini di legge».

Alla luce delle suesposte considerazioni, le norme censurate sono idonee a far sorgere nell'interessato il ragionevole convincimento che non ci siano normative specifiche da seguire sulla eliminazione e sostituzione dei materiali inquinanti, non garantendo, dunque, il rispetto della normativa ambientale in materia di gestione di rifiuti.

Posto che la normativa dei rifiuti e della bonifica rientra nell'ambito della potesta' legislativa esclusiva statale in materia di ambiente, le disposizioni censurate contrastano, oltre che con un principio fondamentale in materia di governo del territorio, anche con l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

2.2) L'art. 7, comma 1, lettera d) per violazione dell'art. 9 e dell'art. 117, comma 2, lettera s) e comma 3, della Costituzione.

L'art. 7, comma 1, lettera d) definisce gli «interventi di ristrutturazione edilizia» includendovi «l'aumento delle superfici utili interne».

Tale previsione contrasta con l'art. 3, comma 1, lettera b) del testo unico dell'edilizia n. 380/2001, come modificato dall'art. 17, comma 1, lettera a), n. 1 e 2 del decreto-legge n. 133/2014, che riconduce alla manutenzione straordinaria gli interventi di frazionamento e accorpamento delle unita' immobiliari che comportano «la variazione delle superfici delle singole unita' immobiliari nonche' del carico urbanistico purche' non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso».

Inoltre, lo stesso art. 7, comma 1, lettera d) include nell'ambito della ristrutturazione edilizia gli interventi «consistenti nella demolizione e ricostruzione anche con modifiche della superficie utile coperta, di sagoma ed area di sedime preesistenti, nell'inserimento di strutture in aggetto e balconi, senza comunque incremento del volume complessivo dell'edificio originario, fatte salve le innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per gli interventi di prevenzione sismica e per l'installazione di impianti tecnologici».

Tale previsione contrasta con l'art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, come modificato dall'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, in quanto, a differenza di quella statale, la norma regionale non prevede che «Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».

Orbene, l'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, mantenendo per gli immobili vincolati il principio del rispetto della sagoma ai fini della classificazione dell'intervento come «ristrutturazione edilizia», costituisce, non solo norma di principio in materia di governo del territorio, ma altresi' disposizione in materia di tutela del patrimonio culturale (sentenza n. 309/2011). Ne consegue, allora, che l'art. 7, comma 1, lettera d) viola anche l'art. 9 e l'art. 117, comma 2, lettera s) e comma 3, della Costituzione.

2.3) L'art. 7, comma 1, lettera g) e 118, comma 1, lettera e), per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 7, comma 1, lettera g) della legge regionale impugnata definisce le «opere interne» come «quelle da realizzare all'interno delle unita' immobiliari concernenti l'eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscano elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unita' immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici, nonche' concernenti la realizzazione ed integrazione dei servizi igienicosanitari e tecnologici, da realizzare nel rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico sanitarie, sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti».

Si tratta di una definizione non contemplata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, ma che in buona parte coincide con quella di «manutenzione straordinaria» (art. 3, comma 1, lettera b), che include «le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonche' per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso».

Invero, quella delle «opere interne» era una definizione prevista dall'art. 28 della legge n. 47/1985 che, in un'ottica di semplificazione dell'individuazione delle tipologie di interventi edilizi e dei rispettivi titoli abilitativi, il legislatore del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 ha ritenuto di non riprodurre. La definizione regionale, pertanto, presentando margini di sovrapposizione con altre categorie individuate dalla legge statale, e' foriera di incertezze applicative e ha riflessi sul regime dei titoli abilitativi all'esercizio dell'attivita' edilizia. Il legislatore nazionale, infatti, ha assoggettato queste opere (inizialmente soggette a DIA) a comunicazione di inizio lavori asseverata [art. 6, comma 2, lettera a) e comma 4], perche' la loro rilevanza richiede quantomeno il coinvolgimento di un tecnico abilitato. Il legislatore regionale, invece, all'art. 118, comma 1, lettera e), annovera questi interventi edilizi tra quelli totalmente liberi.

Le due disposizioni regionali citate, dunque, contrastano con i principi fondamentali in materia di governo del territorio contenuti nella legislazione statale e quindi violano, per i cennati profili, l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

2.4) L'art. 7, comma 1, lettere m) ed n), per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 7, comma 1, lettere m) ed n) della legge regionale in commento, introduce, rispettivamente, la definizione di «edificio» («insieme di strutture portanti ed elementi costruttivi e architettonici reciprocamente connessi in modo da formare con continuita' da cielo a terra una entita' strutturale autonoma, sia isolata o collegata ad altri edifici adiacenti, composta da una o piu' unita' immobiliari, indipendentemente dal regime della proprieta'») e di «isolato edilizio» («costruzione delimitata da spazi aperti su ogni lato e la costruzione stessa si considera divisa in piu' isolati edilizi per le parti rese strutturalmente indipendenti da giunti sismici di adeguata ampiezza»). Tali nozioni, non previste nella normativa statale contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, interferiscono specialmente sull'ambito di applicazione della normativa tecnica per l'edilizia contenuta nella parte II del testo unico.

Le definizioni «edificio» e di «isolato edilizio», la cui formulazione letterale, tra altro, consente astrattamente di darne un'applicazione generale, costituiscono il presupposto per l'applicazione di norme poste dal legislatore statale a tutela di interessi unitari. Tra queste rientrano, in particolare, le norme relative alle costruzioni in zone sismiche, contenute agli articoli 83 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 e nelle specifiche norme tecniche emanate con decreti del Ministro per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata Stato-regioni-enti locali.

Codesta Ecc. Corte ha chiarito che la competenza statale in materia di vigilanza sulle costruzioni riguardo al rischio sismico si giustifica «attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell'incolumita' pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui, ugualmente, compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali» (sent. n. 182 del 2006; si veda anche sent. n. 64 del 2013 e sent. 300 del 2013).

L'uniforme applicazione delle norme per le costruzioni in zone sismiche presuppone, evidentemente, una definizione altrettanto uniforme di «edificio» e alla luce di questa considerazione risulta esorbitante, rispetto alla sfera di competenza regionale, la previsione censurata che intende dare una propria definizione generale, a maggior ragione se essa comporta poi l'applicazione di norme con fini di protezione civile e di riduzione del rischio rilevante in relazione alle azioni sismiche. Gli articoli 83 e seguenti del testo unico dell'edilizia, infatti, si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumita', da realizzarsi nelle zone dichiarate sismiche, senza alcuna distinzione tra nuove costruzioni e opere realizzate previa demolizione di manufatti preesistenti (Cons. St., sez. IV, sent. n. 3703 del 2009) e senza che sia rilevante il carattere stabile o precario della costruzione (Cass. pen., sez. III, sent. n. 17623 del 2006).

Tale definizione appare piu' ampia di quella data dall'art. 7 della legge regionale in esame che, nel riferirsi all'«insieme di strutture portanti ed elementi costruttivi e architettonici reciprocamente connessi in modo da formare con continuita' da cielo a terra una entita' strutturale autonoma, sia isolata o collegata ad altri edifici adiacenti, composta da una o piu' unita' immobiliari, indipendentemente dal regime della proprieta'» presuppone un grado di completezza dell'edificio (che deve essere dotato di una copertura e soprattutto «strutturalmente autonomo») non richiesta dalla normativa statale.

La norma regionale, dunque, viola l'art. 117, comma 3, Cost. (con riferimento alle materie del «governo del territorio» e della «protezione civile»), per contrasto con i principi fondamentali dettati dalle norme sopra indicate del testo unico dell'edilizia. Infatti, se alla nozione di «edificio» la legge regionale da' portata generale, seppure «ai fini del presente testo unico», posto che in quest'ultimo sono contenute anche le norme tecniche in materia di costruzioni in zone sismiche, e' evidente che si viene a determinare una restrizione dell'ambito di applicazione di una disciplina statale, dettata alla luce di esigenze unitarie di tutela dell'incolumita' pubblica, con conseguente violazione dell'art. 117, comma 3, Cost.

3) Gli articoli 8, 9, comma 4, e 10, comma 1, e 13, comma 1, per violazione dell'art. 9, dell'art. 117, comma 2, lettera s) e dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

Gli articoli 8, 9, comma 4, e 10, comma 1, della legge regionale umbra n. 1 del 2015 nel disciplinare i rapporti tra Programma strategico territoriale - PST e il Piano paesaggistico regionale - PPR, invadono la potesta' legislativa esclusiva statale in materia di tutela del paesaggio e quindi violano l'art. 9 e l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione; inoltre, le disposizioni impugnate violano anche l'art. 117, comma 3, con riferimento alle materie del «governo del territorio» e della «valorizzazione dei beni culturali».

Le norme censurate, nel disciplinare il Programma strategico territoriale - PST, che l'art. 4 della legge regionale stessa definisce «strumento di livello e scala regionale, di dimensione strategica e programmatica», duplicano in alcuni casi e si sovrappongono in altri casi alle previsioni e prescrizioni proprie del piano paesaggistico, alterando la corretta gerarchia tra i diversi strumenti di pianificazione. Ancorche' l'art. 14 della legge regionale stabilisca comunque la prevalenza del PPR (Piano paesistico regionale), ai sensi dell'art. 145, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio), le duplicazioni e sovrapposizioni, che si vanno a illustrare nel dettaglio, costituiscono in ogni caso una violazione della sfera di attribuzioni normative statali e una causa di incertezza interpretativa e applicativa foriera di un indebolimento della tutela.

L'art. 8 (Finalita' e contenuti del Programma strategico territoriale (PST)),   comma 1, lettera b) della legge regionale in commento, nell'affermare che il PST «b) e' [...] strumento per la costruzione e la condivisione delle scelte di sviluppo sostenibile del territorio comprensive della valorizzazione del paesaggio», viola l'art. 117, comma 2, lettera s), Cost.

Tale disposizione sottrae contenuti al piano paesaggistico - come configurato dal decreto legislativo n. 42/2004 (articoli 135 e 143) - per trasferirli al Programma strategico territoriale, che e' un piano non di salvaguardia, ma di sviluppo territoriale. Infatti, l'art. 143, comma 1, lettera g), decreto legislativo n. 42/2004 prevede che la valorizzazione dei beni paesaggistici sia contenuta nel piano paesaggistico.

Analoga censura deve essere rivolta avverso il comma 3 dell'art. 8, a tenore del quale il PST «indica le azioni necessarie alla mitigazione del rischio territoriale ed ambientale, al risanamento delle singole componenti dell'ecosistema ed alla valorizzazione delle specificita' paesaggistiche, architettoniche e storico-tipologiche dell'Umbria». L'art. 143, comma 1, lettera f), decreto legislativo n. 42/2004, infatti, annovera tra i contenuti del piano paesaggistico l'«analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini dell'individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilita' del paesaggio, nonche' comparazione con gli altri atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo».

Appare cosi' integrata la violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s), e dell'art. 9 Cost.

Alla stessa stregua la previsione dell'art. 9, comma 4, per cui «L'attivita' di pianificazione degli enti locali e' svolta in coerenza con il PST», non riferendosi al piano paesaggistico, viola l'art. 117, comma 2, lettera s), Cost.

La norma regionale, infatti, contrasta con il principio generale dettato dall'art. 145 (Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione), commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004 in base al quale «3. Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle citta' metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresi' vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette. 4. I comuni, le citta' metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione. I limiti alla proprieta' derivanti da tali previsioni non sono oggetto di indennizzo».

L'art. 9, imponendo ai comuni la conformazione al PST, li obbliga indirettamente a disattendere il piano paesaggistico quando contrastante, il che e' una conferma dell'indebita sovraordinazione del PST al PPR, evincibile peraltro anche dalle ulteriori norme regionali che si esaminano qui di seguito.

L'art. 10, comma 1, secondo cui il Piano paesaggistico regionale (PPR) deve essere «in correlazione a quanto previsto dal PST», vale a dire deve essere coerente con il Programma strategico territoriale (PST), il quale e' un piano territoriale di sviluppo economico, vale a dire un piano urbanistico, contraddice il «principio della «gerarchia» degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali» (Corte cost., 30 maggio 2008, n. 180), che deve considerarsi un principio fondamentale rilevante ex art. 117, terzo comma, Cost. ed espresso dal sopra riportato art. 145, comma 3, decreto legislativo n. 42/2004.

Codesta Ecc.ma Corte, infatti, ha chiarito che: «L'art. 145, comma 3, contempla il principio di «prevalenza dei piani paesaggistici» sugli altri strumenti urbanistici, precisando, segnatamente, che: «Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette» (sent. n. 180 del 2008 v. anche sentenze n. 193/2010, n. 272/2009 e n. 182/2006).

E' dunque evidente che la prevalenza gerarchica voluta dal codice dei beni culturali e del paesaggio [e dunque dall'art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost.], e' inconciliabile con la predetta «correlazione» prevista dall'art. 10, comma 1, della legge regionale dell'Umbria n. 1 del 2015. La «correlazione» sta piuttosto a significare una relazione gerarchica inversa, cioe' (potenzialmente anche) una relazione di subordinazione del PPR al PST, visto che l'ordine di queste disposizioni normative regionali antepone il PST al PPR [sotto il comune capo I - Programmazione territoriale - il PST (art. 8) precede il PPR (art. 10)]. D'altra parte se tale correlazione fosse anche di equiordinazione tra i due strumenti, il ricordato principio gerarchico dell'art. 145 sarebbe egualmente sovvertito, perche' l'equiordinazione e' il contrario della gerarchia. Tale ambigua correlazione rischia di subordinare la salvaguardia del paesaggio, dal punto di vista pianificatorio, allo «sviluppo» del territorio (che e' l'obiettivo fondamentale del PST), con evidente indebolimento della funzione conservativa propria del piano paesaggistico.

La complessiva dequotazione del PPR rispetto al PST, con l'annessa accentuazione del solo profilo dello sviluppo territoriale e la conseguente minusvalenza dei profili conservativi e di tutela, risulta peraltro accentuata dalla scelta regionale, consacrata nell'art. 13, comma 1, di limitare la copianificazione paesaggistica con il Ministero «ai beni paesaggistici di cui all'art. 143, comma 1, lettere b), e) e d) del decreto legislativo n. 42/2004».

Tale scelta, ancorche' formalmente legittima (atteso che l'art. 135 del codice impone la copianificazione solo per i beni vincolati e lascia alla scelta discre-zionale regionale la possibilita' alternativa), si pone in contrasto con le migliori pratiche amministrative finora seguite da alcune regioni (vedi Sardegna, Puglia, Toscana), che hanno preferito, con l'accordo del Ministero, la copianificazione estesa all'intero territorio regionale, essendo tale scelta piu' coerente con i dettami della Convenzione europea fatta a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata con legge n. 14 del 9 gennaio 2006. L'attenzione per la dimensione paesaggistica con riferimento all'intero territorio, rappresenta uno dei principi fondamentali della Convenzione che, all'art. 2, dispone che essa «si applica a tutto il territorio delle parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati».

E' evidente che la copianificazione limitata alla trattazione delle sole aree territoriali coperte da vincolo indebolisce la visione strategica del PPR e rende tale strumento oggettivamente dipendente dalle scelte strategiche orientate prevalentemente allo sviluppo contenute nel PST, che invece riguarda l'intero territorio regionale. In questa ottica il PST rischia di diventare la cornice generale delle linee ispiratrici dello sviluppo dell'intero territorio regionale, all'interno del quale il PPR assume una dimensione solo consequenziale e inevitabilmente subordinata. La disposizione in commento, quindi, si rivela frutto di una scelta del legislatore umbro che viola l'art. 117, comma 2, lettera s) Cost. e contrasta con il principio prevalenza gerarchica degli strumenti di pianificazione, rilevante ex art. 117, comma 3, Cost.

In conclusione, le norme regionali sospettate, per i profili sopra descritti, si rivelano invasive della sfera competenziale affidata alla legislazione statale esclusiva e lesive dei principi fondamentali riservati alla Stato in punto di legislazione concorrente nonche' dei valori paesaggistici costituzionalmente protetti.

4) L'art. 11, comma 1, lettera d) per violazione dell'art. 9 e dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

L'art. 11, comma 1, lettera d), nel prevedere tra i contenuti del PPR «la individuazione dei beni paesaggistici di cui agli articoli 134 e 142 del decreto legislativo n. 42/2004, con la definizione delle discipline di tutela e valorizzazione», contrasta con l'art. 143, comma 1, decreto legislativo n. 42/2004, che stabilisce che l'elaborazione del piano paesaggistico comprende «la ricognizione» e non «l'individuazione» di tali aree e immobili. Il codice dei beni culturali e del paesaggio, infatti, usa distintamente, all'art. 143, i termini «individuazione» e «ricognizione», attribuendo ad essi un significato diverso.

In particolare, il codice dei beni culturali e del paesaggio adopera il termine «ricognizione» in quanto la pianificazione paesaggistica si limita ad accertare l'esistenza dei beni paesaggistici, gia' individuati con vincolo provvedimentale o ex lege. L'uso del termine «individuazione», invece, e' utilizzato dallo stesso articolo del codice in relazione a ulteriori beni sottoposti ex novo dai piani paesaggistici a tutela o comunque a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione.

Orbene, l'uso indistinto del termine «individuazione» da parte del legislatore regionale puo' significare l'attribuzione alla pianificazione paesaggistica di una funzione non solo ricognitiva, ma anche tacitamente abrogativa dei vincoli esistenti, in palese contrasto con l'art. 143 del codice, che non attribuisce tale funzione alla pianificazione paesaggistica. E' dunque evidente il contrasto della disposizione regionale censurata con l'art. 9 e l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

5) L'art. 13, commi 4 e 5, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s) e dell'art. 9, comma 2, della Costituzione.

L'art. 13 della legge regionale censurata, nel disciplinare il procedimento di approvazione regionale del PPR, ai commi 4 e 5, non assicura la necessaria compartecipazione paritetica del Ministero dei beni e delle attivita' culturali e del turismo nella «approvazione» sostanziale dei contenuti del nuovo piano paesaggistico.

Va ricordato, a riguardo, che l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica e' assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale (sent. 197 del 2014).

In tale prospettiva, l'art. 143, comma 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio, pur rinviando alle leggi regionali la disciplina delle modalita' di approvazione del piano, postula che l'approvazione regionale debba rispecchiare e recepire l'accordo definito con il predetto Ministero avente ad oggetto il nuovo piano redatto congiuntamente. Per quanto le disposizioni codicistiche non individuino il momento in cui l'accordo conclusivo avente ad oggetto il nuovo piano redatto congiuntamente debba esattamente intervenire, e' logico ed evidente che si porrebbe in contrasto con la norma statale di tutela la disciplina regionale che collochi l'accordo con il Ministero in una fase anteriore agli ulteriori sviluppi dell'iter approvativo regionale - scaglionato in successivi passaggi deliberativi dell'organo di governo o di quello consiliare - senza farsi carico di stabilire garanzie chiare e certe di conformita' del testo finale del piano, per come esitato dai vari passaggi consiliari, a quello sancito nell'accordo con il Ministero.

La sequenza procedimentale individuata all'art. 13 non assicura dunque che l'elaborazione del PPR sia realmente congiunta tra Stato e regione. Nonostante il richiamo all'elaborazione congiunta contenuto nel comma 1, infatti, l'elaborato appare modificabile unilateralmente dalla regione, a seguito delle osservazioni e audizioni varie descritte nell'art. 13. Non si rinvengono disposizioni idonee ad assicurare che quanto emerge da dette osservazioni e audizioni sia da sottoporre all'esame del Ministero al fine di verificare la fedelta' e la corrispondenza del nuovo testo a quello oggetto di accordo (o al fine di rinegoziare con il Ministero l'accordo sui punti che fossero risultati modificati per effetto del successivo iter approvativo regionale).

Dalla sequenza procedurale proposta dall'art. 13, comma 4, sembra che l'accordo con il Ministero debba avere ad oggetto il piano paesaggistico adottato dalla giunta regionale (previa espressione del parere del consiglio delle autonomie locali e previa acquisizione delle proposte e delle osservazioni dei soggetti interessati e delle associazioni portatrici di interessi diffusi, e una volta acquisito il «parere preliminare alla sottoscrizione degli accordi previsti dall'art. 143, comma 2 del decreto legislativo n. 42/2004» espresso dall'assemblea legislativa «esaminate le proposte ed osservazioni pervenute e formulate le valutazioni sulle stesse», «unitamente al parere del CAL). Sennonche', in base al comma 5 dell'art. 13, il consiglio regionale «decide in merito alle proposte ed osservazioni e approva il PPR nel rispetto di quanto previsto dagli articoli 135 e 143 del decreto legislativo n. 42/2004», senza che sia previsto alcun momento di confronto successivo con il Ministero atto a verificare che il piano approvato dal consiglio regionale corrisponda o si discosti rispetto a quello adottato dalla giunta e portato in sede di accordo con il Ministero sulla base del solo parere preliminare del consiglio.

Sotto il medesimo profilo, appare criticabile anche la scelta di non coinvolgere gli organi tecnici ministeriali nell'esame delle osservazioni prima della finale decisione del consiglio. Una logica negoziale autentica imporrebbe che prima di passare alla valutazione politica del consiglio regionale (vale a dire, all'ultima parola della regione), sulle osservazioni in questione, essenzialmente tecniche, si esprimessero simmetricamente i tecnici del Ministero.

Con la disposizione di legge regionale in esame, quindi, si rende asimmetrico lo sviluppo procedimentale e si vanifica il principio dell'elaborazione congiunta. In altri termini, la pur affermata elaborazione «congiunta» rischia di restare circoscritta da questa asimmetria a un mero momento istruttorio e preliminare e non rappresenta piu' quel momento autenticamente e consapevolmente codecisorio del procedimento cui il disegno del codice la preordina perche' possa avere quegli effetti di semplificazione (parere del soprintendente non piu' vincolante, ma solo obbligatorio) che tanto incidono sulle prerogative statali di tutela. Consegue da quanto sopra la lesione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stante il contrasto delle disposizioni regionali denunciate con il dettato dell'art. 143, comma 2, del codice.

Da tale contrasto scaturisce la consequenziale violazione dell'art. 9, secondo comma, Cost. poiche' la descritta sequenza procedimentale, nel consentire unilaterali modifiche del piano in sede di consiglio regionale, senza prevedere successive verifiche, comporta la possibilita' di trasformare nei fatti quella che dovrebbe essere una manifestazione di discrezionalita' tecnica in una manifestazione di (unilaterale) volonta' politica consiliare, con cio' tradendo il significato di tutela di cui all'art. 9 Cost., significato che e' di discrezionalita' tecnica e - proprio perche' inserito in una Costituzione - di limite alla scelta politica.

6) L'art. 15, commi 1 e 5, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

L'art. 15, commi 1 e 5, della legge regionale censurata, nel disciplinare l'adeguamento degli strumenti di pianificazione al PPR, prevede che «Le province e i soggetti gestori delle aree naturali protette conformano i rispettivi piani e programmi al PPR nei termini ivi stabiliti che non devono essere superiori ad un anno dall'approvazione del medesimo PPR» (comma 1) e che «Le procedure di adeguamento e conformazione degli strumenti urbanistici comunali al PPR sono quelle previste all'art. 32, comma 4, lettera j) e comma 10» (comma 5).

Tali disposizioni non prevedono la partecipazione del Ministero dei beni e delle attivita' culturali e del turismo al procedimento per l'adeguamento degli strumenti urbanistici al PPR, in contrasto con quanto dispone l'art. 145, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo cui «La regione disciplina il procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo».

Il decreto legislativo n. 42/2004 richiede che la verifica dell'intervenuto adeguamento (o conformazione) degli strumenti urbanistici si concreti in una espressa e specifica pronuncia propria del Ministero sul punto. Cio' si evince dal combinato disposto dell'art. 145, comma 5, con l'art. 146, comma 5, secondo periodo, che, al fine di definire il momento temporale e giuridico a partire dal quale opera la dequotazione del parere statale da vincolante a solo obbligatorio, opera un preciso riferimento alla «positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici». Sul punto, codesta Ecc.ma Corte, con la sentenza n. 211 del 2013, ha stabilito che l'esclusione di qualsiasi partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di verifica di compatibilita' degli strumenti di pianificazione delle amministrazioni locali al piano regionale paesistico si pone «in evidente contrasto con la normativa statale interposta e, in particolare, con il citato art. 145, comma 5, del decreto legislativo n. 42 del 2004, il quale - in linea con le prerogative riservate allo Stato dalla disposizione costituzionale evocata a parametro, come anche riconosciute da costante giurisprudenza di questa Corte (tra le molte, sentenza n. 235 del 2011) - specificamente impone che la regione adotti la propria disciplina "assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo"». Analogamente, con la sentenza n. 197 del 2014, ha poi dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 34 della legge della regione Piemonte 25 marzo 2013, n. 3, nella parte in cui non prevedeva la partecipazione degli organi del Ministero per i beni e le attivita' culturali al procedimento di conformazione agli strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica delle varianti al piano regolatore generale comunale e intercomunale.

In particolare, codesta Ecc.ma Corte, dopo aver ribadito i principi enunciati, con la sentenza n. 211 del 2013, ha osservato che «Costituisce, infatti, affermazione costante - su cui si fonda il principio della gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, dettato dall'evocato art. 145, comma 5, del decreto legislativo n. 42 del 2004 (sentenze n. 193 del 2010 e n. 272 del 2009) - quella secondo cui l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «e' assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale» (sentenza n. 182 del 2006). Al contrario, nella specie, la generale esclusione della partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle varianti, nella sostanza, veniva a degradare la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica (sentenza n. 437 del 2008)». Consegue da quanto sopra l'illegittima compressione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., mediante violazione dell'art. 145, comma 5, decreto legislativo n. 42/2004.

7) Gli articoli 16, commi 4 e 5, 17, 19 e 21, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera p) e comma 3, della Costituzione.

Gli articoli 16, commi 4 e 5; 17 e 19 e 21 che disciplinano il contenuto del Piano territoriale di coordinamento provinciale - PTCP e i rapporti di questo strumento urbanistico con il piano regolatore generale, si pongono in contrasto con l'art. 20, comma 2, decreto legislativo n. 267/2000 e all'art. 1, comma 85, legge n. 56/2014, e pertanto violano l'art. 117, comma 2, lettera p) e comma 3, della Costituzione, con riferimento ai principi fondamentali in materia di governo del territorio.

In particolare, si osserva che l'art. 1, comma 85, della legge n. 56 del 2014 annovera la pianificazione territoriale di coordinamento tra le funzioni fondamentali delle province, quali enti con funzioni di area vasta. Il comma 87 della legge statale da ultimo citata specifica che dette funzioni «sono esercitate nei limiti e secondo le modalita' stabilite dalla legislazione statale e regionale di settore, secondo la rispettiva competenza per materia», come individuata all'art. 117 della Costituzione.

Al riguardo, si osserva che il contenuto del piano territoriale di coordinamento e' previsto all'art. 20, comma 2, del testo unico sugli enti locali (decreto legislativo n. 267/2000). Secondo tale norma il piano territoriale di coordinamento «determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica:   a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;   b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;   c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;   d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali». Il comma 5 dell'art. 20, inoltre, prevede che «Ai fini del coordinamento e dell'approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale predisposti dai comuni, la provincia esercita le funzioni ad essa attribuite dalla regione ed ha, in ogni caso, il compito di accertare la compatibilita' di detti strumenti con le previsioni del piano territoriale di coordinamento». In generale, infine, il comma 6 dispone che «6. Gli enti e le amministrazioni pubbliche, nell'esercizio delle rispettive competenze, si conformano ai piani territoriali di coordinamento delle province e tengono conto dei loro programmi pluriennali».

Appare chiaro, quindi, che la normativa statale concepisce il PTCP come strumento di pianificazione di area vasta, sovraordinato rispetto al piano urbanistico comunale.

Cio' posto, le disposizioni regionali censurate, nel ridurre drasticamente il contenuto del PTCP e nel modificare i rapporti di questo strumento urbanistico con i piani regolatori generali, contraddicono l'essenza della pianificazione di area vasta e dunque, oltre a contrastare con i principi fondamentali in materia di governo del territorio sopra richiamati, incidono sulla disciplina di una funzione fondamentale attribuita dallo Stato alla competenza delle province. La pianificazione territoriale provinciale di coordinamento rappresenta, infatti, una delle funzioni fondamentali [art. 1, comma 85, lettera a) della legge n. 56 del 2014] che consentira' alla provincia di continuare ad esistere quale ente territoriale «con funzioni di area vasta» nel nuovo assetto voluto dal legislatore statale, la cui legittimita' costituzionale e' stata recentemente affermata dal codesta Ecc.ma Corte (sent. 50 del 2015).

Orbene, l'art. 16 della legge regionale umbra n. 1 del 2015, al comma 4, prevede che «le province con il PTCP (...): a) raccordano e coordinano i diversi piani sovracomunali nei limiti dagli stessi previsti; b) forniscono ai comuni le basi conoscitive utili per le azioni pianificatorie; c) promuovono azioni di raccordo tra le pianificazioni dei comuni con particolare riferimento a quelli i cui territori presentano un'elevata continuita' morfologica o funzionale, in cui le scelte di pianificazione comportano significativi effetti di livello sovracomunale; d) esercitano le funzioni per attuare la perequazione territoriale e la compartecipazione tra i comuni interessati ai proventi e costi conseguenti a trasformazioni o interventi di rilevanza intercomunale». Il comma 5, invece, dispone che «le province, attraverso il PTCP, promuovono il coordinamento con le province ed i comuni contermini ai fini dell'integrazione delle rispettive politiche territoriali».

Gia' da queste disposizioni risulta evidente che i PTCP non hanno la funzione essenziale, prevista dalla testo unico degli enti locali, di «determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio». I PTCP si limitano a un mero «raccordo e coordinamento» degli altri piani sovracomunali, peraltro «nei limiti dagli stessi previsti», a «fornire ai comuni ... basi conoscitive», a «promuovere azioni di raccordo della pianificazione comunale», ad «attuare la perequazione territoriale e la compartecipazione tra i comuni interessati ai proventi e costi conseguenti a trasformazioni o interventi di rilevanza intercomunale».

Per quanto riguarda i contenuti dei PTCP, l'art. 17, comma 1, prevede alla lettera b), «... 2) la rete delle infrastrutture della mobilita', esistenti e di progetto, che rientra nelle competenze provinciali, nel rispetto degli strumenti sovraordinati, (...) 3) la localizzazione delle attrezzature, degli impianti, delle infrastrutture e dei servizi di interesse provinciale esistenti e di progetto; 4) la definizione degli adempimenti previsti al titolo IV» e, alla lettera c) «2) le linee di intervento in materia di difesa del suolo, di tutela delle acque, sulla base delle caratteristiche ambientali, geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio, per quanto non regolato dai piani di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) o da specifiche disposizioni regionali; 3) i criteri per gli insediamenti produttivi a rischio di incidente rilevante di cui alle normative statali di settore; 4) la disciplina di specifica competenza del PTCP prevista al titolo IV». Infine, il comma 2 prevede che «il PTCP detta la metodologia e coordina la individuazione delle aree per le attrezzature e per gli insediamenti di interesse intercomunale, stabilendo anche concreti riferimenti territoriali, nonche' definisce, previa intesa istituzionale con i comuni interessati, le aree destinate ad attrezzature e servizi di rilievo provinciale».

Risulta evidente che la normativa regionale censurata omette di attribuire al PTCP: il compito di «indicare le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione di ogni sua parte» (art. 20, comma 2, lettera a), decreto legislativo n. 267/2000); il compito di «localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali comunicazioni» (la norma regionale, infatti, parla solo di infrastrutture e di servizi di interesse provinciale esistenti e di progetto), ne' vi e' riferimento alcuno alle linee di intervento in materia di consolidamento del suolo e tutela delle acque o alla individuazione delle aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali. Anche per quanto riguarda la definizione delle aree destinate ad attrezzature e servizi di interesse provinciale, la funzione del PTCP e' subordinata alla «previa intesa istituzionale con i comuni interessati» (art. 17, comma 2).

La disposizione regionale in commento integra, dunque, la violazione dell'art. 117, comma 2, lettera p) e comma 3, Cost., con riferimento ai principi fondamentali in materia di governo del territorio.

Identica violazione si ravvisa nel disposto dell'art. 19 della legge umbra. La norma infatti prevede che «i comuni adeguano i propri strumenti urbanistici al PTCP» (comma 1), e che «dalla data di efficacia del PTCP approvato, il comune non puo' rilasciare titoli abilitativi o approvare piani attuativi che siano in contrasto con le norme immediatamente prevalenti del PTCP medesimo di cui all'art. 17, comma 1, lettera c), punto 1)» (comma 2).

Da un lato, dunque, non viene attribuito alla provincia il compito di accertare la compatibilita' degli strumenti urbanistici comunali con il PTCP (come previsto, invece, all'art. 20, comma 5, del testo unico degli enti locali), dall'altro, la prevalenza del PTCP viene di fatto limitata ai soli contenuti individuati all'art. 17, comma 1, lettera c), punto 1) della legge regionale in commento, con la conseguenza che non ci sono rimedi in caso di mancato adeguamento dei piani comuni al PTCP.

Va rilevato, infine, che quelli che la legge statale individua come contenuti fondamentali del PTCP sono attribuiti, di fatto, ai piani regolatori comunali, che pero' sono inidonei a svolgere una funzione di pianificazione di area vasta.

L'art. 21, comma 1, della legge regionale n. 1 del 2015 infatti, attribuisce al PRG - parte strutturale, il compito di individuare le diverse destinazioni del territorio (in particolare: gli elementi che costituiscono il sistema delle componenti naturali - lettera a) -; le aree instabili o a rischio - lettera b) -; le aree agricole - lettera c) -; gli elementi del territorio di valore storico culturale - lettera e) -), nonche' di individuare «le infrastrutture lineari e nodali per la mobilita' ed in particolare la rete ferroviaria e viaria di interesse regionale, provinciale e comunale, nonche' gli elettrodotti di alta tensione» (lettera f) e «le principali infrastrutture lineari e nodali per la mobilita', nonche' la rete escursionistica di interesse interregionale e regionale» (comma 2, lettera e).

Si tratta di attribuzioni che dovrebbero essere di competenza del PTCP, per la rilevanza di interesse regionale e, addirittura, interregionale. La sovrapposizione tra i due piani emerge anche per il fatto che l'art. 21, comma 2, lettera l), prevede che il PRG «definisce gli adempimenti previsti al titolo IV», ma la stessa funzione e' attribuita anche al PTCP dall'art. 17, comma 1, lettera b), n. 4. Di conseguenza, si estendono alle citate disposizioni dell'art. 21 i medesimi profili di illegittimita' costituzionale sopra evidenziati con riferimento agli articoli 16, commi 4 e 5; 17 e 19 della legge regionale sospettata.

8) L'art. 18, commi 4, 5, 6 e 7, 8 e 9, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione.

L'art. 18, commi 4, 5, 6 e 7, 8 e 9, nel disciplinare il procedimento di valutazione della conformita' e adeguamento delle previsioni del PTCP, nonche' delle relative varianti, al PPR, prevede la convocazione da parte della regione di una conferenza istituzionale di copianificazione alla quale partecipano le province, ma non contempla la partecipazione al procedimento di conformazione e adeguamento al PPR degli organi ministeriali.

L'esclusione della partecipazione di qualsivoglia organismo ministeriale dai procedimenti di verifica di compatibilita' degli strumenti di pianificazione delle amministrazioni locali al piano regionale paesistico si pone in evidente contrasto con la normativa statale (art. 145, comma 5, del decreto legislativo n. 42 del 2004) che impone la partecipazione dello Stato, in linea con le prerogative ad esso riservate dall'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., riconosciute dalla costante giurisprudenza costituzionale (sent. n. 211 del 2013 n. 235 del 2011 e n. 197 del 2014).

Pertanto, si estendono alle disposizioni censurate i profili di incostituzionalita' gia' rilevati in relazione all'art. 15 e, conseguentemente, si rileva, anche in questo caso, la violazione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., mediante violazione dell'art. 145, comma 5, decreto legislativo n. 42/2004.

9) L'art. 28, comma 10, e l'art. 56, comma 3, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 28, comma 10 della legge regionale n. 1 del 2015, attribuisce al comune, in sede di adozione del PRG, il compito di esprimere il parere di cui all'art. 89 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, previa determinazione della commissione comunale per la qualita' architettonica ed il paesaggio di cui all'art. 2, comma 4, della stessa legge regionale. L'art. 56, comma 3, inoltre, stabilisce che il SUAPE (sportello unico delle attivita' produttive ed edilizie) «acquisisce direttamente ... i pareri che debbono essere resi dagli uffici comunali necessari ai fini dell'approvazione del piano attuativo compreso il parere in materia sismica, idraulica ed idrogeologica, da esprimere con le modalita' di cui all'art. 112, comma 4, lettera d)».

Tali norme contrastano con l'art. 89 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, secondo cui il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare va richiesto «al competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonche' sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti affini della verifica della compatibilita' delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio» (comma 1). I commi 2 e 3 del medesimo art. 89 prevedono che il competente ufficio tecnico regionale si pronunci entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale e che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo.

Per consolidata giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte (tra le tante, sentenze n. 167 del 2014, n. 300 e n. 101 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010, n. 248 del 2009, n. 182 del 2006), la disciplina degli interventi edilizi in zone sismiche e' riconducibile all'ambito materiale del «governo del territorio», nonche' a quello relativo alla «protezione civile», per i profili concernenti «la tutela dell'incolumita' pubblica» (sentenza n. 254 del 2010).

In entrambe le materie, di potesta' legislativa concorrente, spetta allo Stato fissare i principi fondamentali ai sensi dell'art. 117, comma 3, della Costituzione. Come chiarito, da ultimo, nella sentenza n. 167/2014, l'art. 89 del testo unico dell'edilizia costituisce principio fondamentale in materia di «protezione civile», in quanto «appare funzionale ad assicurare l'"intento unificatore della legislazione statale", palesemente orientato a soddisfare quelle imprescindibili garanzie valevoli per tutti gli strumenti urbanistici generali e particolareggiati con riguardo al rischio di calamita' naturali» (ex plurimis, sentenze n. 254 del 2010 e n. 182 del 2006). L'art. 89 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 ha come suo oggetto gli strumenti urbanistici e le costruzioni nelle zone ad alto rischio sismico e come sua ratio la tutela dell'interesse generale alla sicurezza delle persone.

Cio' posto, deve ritenersi che l'attribuzione agli uffici regionali delle funzioni relative al rilascio di detto parere (e la previsione del silenzio rifiuto in caso di mancata risposta entro il termine), sia funzionale alle suddette esigenze di tutela dell'incolumita' pubblica. Il comune, infatti, avendo redatto il piano urbanistico, non e' soggetto terzo e quindi non offre sufficienti garanzie di imparzialita' nel rilascio di questo parere. Inoltre, il comune potrebbe essere esposto a interessi configgenti, che rendono piu' opportuno attribuire il compito del rilascio del parere da un organo diverso. Ne' offre sufficienti garanzie la previsione del previo parere (obbligatorio e non vincolante), della commissione comunale per la qualita' architettonica e il paesaggio contemplata dall'art. 112 della legge regionale in commento.

Per questi motivi, l'art. 28, comma 10, e, di conseguenza, l'art. 56, comma 3, della legge regionale impugnata contrastano con l'art. 89 del testo unico dell'edilizia e quindi violano l'art. 117, comma 3, della Costituzione con riferimento alla materia «protezione civile», oltre che alla materia «governo del territorio».

10) L'art. 32, comma 4; l'art. 49, comma 2, lettera a); l'art. 51, comma 6; l'art. 79, comma 3, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera l) e comma 3, della Costituzione.

Gli articoli 32, comma 4, lettera c); 49, comma 2, lettera a); 51, comma 6; 79, comma 3, della legge regionale censurata, nel consentire varianti e deroghe alle altezze massime previste dagli strumenti urbanistici senza prevedere il necessario rispetto degli standard previsti dall'art. 8 del decreto ministeriale n. 1444/1968, violano l'art. 117, comma 3 (con riferimento ai principi fondamentali in materia di «governo del territorio»), nonche' comma 2, lettera l) (con riferimento alla materia «ordinamento civile») della Costituzione.

Le predette norme regionali consentono espressamente ai comuni di derogare alle altezze massime fissate nel decreto ministeriale n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dal medesimo decreto ministeriale. Le deroghe introdotte dal legislatore regionale agli standard imposti dal legislatore statale non garantiscono il perseguimento dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio e appaiono irrispettose delle prerogative riconosciute allo Stato.

Il mancato rispetto di dette condizioni, da parte delle norme regionali denunciate, comporta pertanto la violazione della competenza legislativa statale in materia «ordinamento civile» stabilita dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (sent. n. 114 del 2012 e sent. n. 6 del 2013) oltre che l'inosservanza dei principi fondamentali in materia di «governo del territorio» ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost.

11) L'art. 56, comma 14, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione.

L'art. 56, comma 14, della legge regionale censurata, nel disciplinare l'adozione e l'approvazione del piano attuativo, prevede che «il piano attuativo relativo ad interventi nelle zone sottoposte al vincolo di cui al decreto legislativo n. 42/2004 e nelle aree o immobili di cui all'art. 112, comma 1, e' adottato previo parere della commissione comunale per la qualita' architettonica ed il paesaggio. Il comune trasmette alla Soprintendenza il parere della commissione unitamente agli elaborati del piano attuativo adottato, corredati del progetto delle opere di urbanizzazione e infrastrutturali previste, nonche' della documentazione di cui al comma 3, dell'art. 146, del decreto legislativo n. 42/2004 relativa a tali opere. La Soprintendenza esprime il parere di cui all'art. 146 del decreto legislativo n. 42/2004 esclusivamente sulle opere di urbanizzazione e infrastrutturali, ai fini di quanto previsto all'art. 57, comma 6, fermo restando il parere di cui allo stesso art. 146 del decreto legislativo n. 42/2004 da esprimere successivamente sul progetto definitivo dei singoli interventi edilizi. Nel caso di attuazione del procedimento di cui al presente comma i termini relativi al procedimento di adozione e approvazione del piano attuativo sono sospesi.

Il parere della Soprintendenza sul piano attuativo e' richiesto «esclusivamente» per le opere di urbanizzazione e infrastrutturali, ai fini dell'autorizzazione paesaggistica, poiche' ai sensi del comma 6 del citato art. 57 «La deliberazione comunale di approvazione del piano attuativo costituisce titolo abilitativo e autorizzazione paesaggistica per la realizzazione degli allacci e delle opere di urbanizzazione previste».

La disposizione in esame esibisce due distinti profili di incostituzionalita'.

Da un lato, come osservato per gli articoli 15 e 18, la norma regionale non prevede il procedimento di conformazione/adeguamento dello strumento urbanistico (piano attuativo) al PPR e, quindi, la partecipazione a tale procedimento degli organi ministeriali, e valgono al riguardo le argomentazioni esposte a sostegno delle censure mosse verso le norme regionali da ultimo citate.

Dall'altro lato, l'art. 56, comma 14, della legge regionale in commento, viola il disposto degli articoli 16 e 28 della legge n. 1150 del 1942 (legge urbanistica), perche' di fatto abolisce il parere preventivo del soprintendente ivi previsto sugli strumenti attuativi, confondendo tale istituto (autonomo e distinto nella legge statale) con l'istituto dell'autorizzazione paesaggistica, di cui all'art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che riguarda il diverso momento provvedimentale, relativo al singolo intervento, e che si pone «a valle» della pianificazione attuativa.

Il parere reso dal soprintendente ex articoli 16 e 28 cit. della legge urbanistica n. 1150 del 1942 e' cosa diversa e autonoma rispetto al parere vincolante espresso dallo stesso soprintendente sul singolo progetto, a livello provvedimentale (e non pianificatorio) ex art. 146 del predetto codice (sulla perdurante vigenza di tali articoli 16 e 28 della legge urbanistica, pur dopo il codice, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 173; Id., 1° ottobre 2008, n. 4726; 5 febbraio 2010, n. 538, nonche' 15 marzo 2010, n. 1491).

Anche in questo caso, dunque, si evidenzia la violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, poiche' le norme interposte richiamate (articoli 16 e 28 della legge n. 1150 del 1942), pur se contenute nella legge urbanistica, costituiscono norme di tutela del paesaggio.

12) L'art. 54, comma 4, e l'art. 215, comma 5, per violazione dell'art. 42 e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.

L'art. 54 della legge regionale censurata, che disciplina il piano attuativo (del PRG) di iniziativa privata e mista, prevede, al comma 4, che per l'esproprio si applicano «le modalita' previste dall'art. 27, comma 5, della legge 1° agosto 2002, n. 166», in materia di Programmi di riabilitazione urbana. Detta norma stabilisce che «l'indennita' espropriativa, posta a carico del consorzio, in deroga all'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, deve corrispondere al valore venale dei beni espropriati diminuito degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione. L'indennita' puo' essere corrisposta anche mediante permute di altre proprieta' immobiliari site nel comune».

La disposizione censurata, nel diminuire l'indennita' di esproprio degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione, contrasta con gli articoli 42 e 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 348 del 2007, infatti, il legislatore, con l'art. 2 della legge finanziaria del 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244), ha previsto che l'indennita' di espropriazione dei suoli edificabili deve essere commisurata al valore venale del bene, salvi i correttivi di volta in volta previsti. Per effetto delle nuove disposizioni, soltanto qualora «l'esproprio avvenga nell'ambito di iniziative di rilevante interesse economico-sociale», l'indennita', pur restando agganciata al parametro del valore venale del bene, puo' essere ridotta in funzione del fine di utilita' sociale che la procedura espropriativa mira a realizzare.

In relazione ai suesposti principi, si espone a censura di incostituzionalita' la disposizione regionale che prevede, ai fini della determinazione dell'indennita' di esproprio relativa a qualsiasi intervento ablatorio compiuto in esecuzione dei piani attuativi, l'applicazione di una percentuale fissa di abbattimento, richiamando una disposizione di settore operante in materia di infrastrutture e trasporti, e dunque in uno specifico ambito coinvolgente rilevanti interessi pubblicistici. Non sono invero ravvisabili, nell'ipotesi dei piani attuativi disciplinati dall'art. 54 della legge regionale umbra n. 1 del 2015, le finalita' sociali che codesta Ecc.ma Corte ha ritenuto necessarie per prevedere una decurtazione dell'indennita' di esproprio (sentenza n. 348 del 2007).

Analoghe censure sono formulabili con riferimento all'art. 215, comma 5, della legge regionale in commento. La norma inserita al capo II del titolo VII della legge umbra n. 1 del 2015, dedicato alle «Espropriazione per pubblica utilita'» dispone che «nel caso di piani attuativi di iniziativa privata e mista di cui all'art. 54, commi 3 e 5, si procede a norma dell'art. 27, comma 5 della legge n. 166/2002».

In forza del citato art. 215, comma 5, in presenza di piani attuativi di iniziativa privata mista si procede a norma dell'art. 27, comma 5, della legge n. 166/2002, con conseguente riferimento alla prevista decurtazione dell'indennita' di espropriazione. La previsione regionale, dunque, contrasta con gli articoli 42 e 117, comma 2, lettera l) della Costituzione per le ragioni innanzi esposte.

13) Gli articoli 59, comma 3, e 64, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

Gli articoli 59, comma 3 e 64, comma 1, della legge regionale impugnata contrastano con il principio fondamentale in materia di governo del territorio contenuto all'art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 e pertanto violano l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

In particolare, l'art. 59 consente nelle aree nelle quali non siano attuate le previsioni degli strumenti urbanistici generali, anche a mezzo di piano attuativo, gli interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo nonche' di ristrutturazione edilizia. Inoltre, stabilisce che detti interventi possono comportare anche la modifica della destinazione d'uso in atto in un edificio esistente, purche' la nuova destinazione risulti compatibile con le previsioni dello strumento urbanistico generale.

L'art. 64, al comma 1, prevede una serie di interventi edilizi che possono essere realizzati nei centri storici in assenza di piano attuativo. Vi rientrano la manutenzione ordinaria, la manutenzione straordinaria, il restauro e il risanamento conservativo, la ristrutturazione edilizia [che non comporti aumento della SUC (superficie utile coperta) o modifiche della sagoma e dell'area di sedime preesistenti], i cambiamenti di destinazione d'uso, gli interventi relativi alla prevenzione sismica, gli interventi di recupero dei sottotetti, con incremento dell'altezza dell'edificio e finanche l'apertura di finestre, lucernai, abbaini e terrazzi, gli interventi per le infrastrutture viarie, tecnologiche, a rete o puntuali, nonche' per l'arredo urbano.

Dette disposizioni si pongono in contrasto con l'art. 9, comma 2, del testo unico dell'edilizia che, anche al fine di tutelare il territorio, ponendo limiti all'attivita' edilizia in assenza di pianificazione, individua gli interventi consentiti nel caso in cui non siano stati adottati gli strumenti urbanistici attuativi. La disposizione citata, che deve ritenersi un principio fondamentale in materia di «governo del territorio» (tanto che, nella prima parte del comma 1, si specifica che le leggi regionali possono individuare limiti piu' restrittivi), consente, in assenza di strumenti urbanistici attuativi, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di restauro e risanamento conservativo che riguardino singole unita' immobiliari o parti di esse, nonche' gli interventi di ristrutturazione edilizia «anche se riguardino globalmente uno o piu' edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purche' il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo».

Ne deriva, quindi, che la normativa statale, a differenza di quella regionale, limita la possibilita' di mutare la destinazione d'uso e, in ogni caso, non consente gli interventi di recupero dei sottotetti, con incremento dell'altezza dell'edificio e finanche l'apertura di finestre, lucernai, abbaini e terrazzi, ne' gli interventi per le infrastrutture viarie, tecnologiche, a rete o puntuali, nonche' per l'arredo urbano, non essendo tali interventi riconducibili alle categorie sopra individuate. Di qui la violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione integrata dalle norme regionali censurate.

14) L'art. 95, comma 4, per violazione dell'art. 117, comma 1 e dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

L'art. 95, comma 4, prevede che «Gli insediamenti del PRG sulle quali sono formulate nuove previsioni residenziali o l'ampliamento di quelle esistenti non possono essere localizzate in avvicinamento agli allevamenti zootecnici suinicoli, avicoli e ittiogenici di cui all'art. 93 o attivita' a rischio di incidente rilevante, situate all'interno del territorio comunale di riferimento determinando distanze inferiori a metri lineari 600. La suddetta distanza non si applica per la realizzazione di singoli edifici residenziale».

Tale formulazione, nello stabilire in modo aprioristico e generalizzato che la localizzazione dei nuovi insediamenti residenziali abbia una distanza minima di 600 metri lineari dalle attivita' a rischio di incidente rilevante, si pone in violazione degli standard uniformi stabiliti a livello nazionale dal decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, recante attuazione della direttiva 96/82/CE (Seveso), relativa al controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose.

In particolare, l'art. 14 del decreto legislativo n. 334/1999, fissa i criteri in materia di assetto del territorio e controllo dell'urbanizzazione, specificati dal decreto ministeriale 9 maggio 2001, che a sua volta stabilisce i requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante. All'art. 1, comma 1, il predetto decreto stabilisce infatti che «per le zone interessate da stabilimenti soggetti agli obblighi di cui agli articoli 6, 7 ed 8 del decreto, siano stabiliti requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione territoriale, con riferimento alla destinazione ed alla utilizzazione dei suoli, al fine di prevenire gli incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a limitarne le conseguenze per l'uomo e per l'ambiente e in relazione alla necessita' di mantenere opportune distanze di sicurezza tra gli stabilimenti e le zone residenziali per:   a) insediamenti di stabilimenti nuovi;   b) modifiche degli stabilimenti di cui all'art. 10, comma 1 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (modifiche con aggravio del rischio);   c) nuovi insediamenti o infrastrutture attorno agli stabilimenti esistenti quali, ad esempio, vie di comunicazione, luoghi frequentati dal pubblico, zone residenziali, qualora l'ubicazione o l'insediamento o l'infrastruttura possano aggravare il rischio o le conseguenze di un incidente rilevante».

Il comma 5-bis del medesimo art. 14 dispone inoltre che nelle zone interessate dagli stabilimenti a rischio di incidente rilevante «gli enti territoriali tengono conto, nell'elaborazione degli strumenti di pianificazione dell'assetto del territorio, della necessita' di prevedere e mantenere opportune distanze tra gli stabilimenti e le zone residenziali, gli edifici e le zone frequentate dal pubblico, le vie di trasporto principali, le aree ricreative e le aree di particolare interesse naturale o particolarmente sensibili dal punto di vista naturale (...)».

A tal fine il decreto ministeriale 9 maggio 2001 stabilisce che le autorita' responsabili della gestione del territorio recepiscono negli strumenti di regolamentazione territoriale ed urbanistica e negli atti autorizzativi dell'attivita' edilizia, nelle aree interessate dagli effetti degli scenari incidentali ipotizzabili in relazione alla presenza di stabilimenti a rischio di incidente rilevante, le informazioni fornite dai gestori sulle aree di danno e le valutazioni di compatibilita' degli interventi fornite dall'autorita' tecnica competente.

In particolare, nei casi di cui al predetto art. 14, comma 1, del decreto legislativo n. 334/1999, la valutazione della compatibilita' territoriale ed ambientale degli interventi edilizi e' effettuata, secondo i criteri di cui all'allegato al decreto ministeriale, tramite una zonizzazione delle aree circostanti gli stabilimenti a rischio di incidente rilevante, che indica le categorie territoriali compatibili con le aree di danno derivanti dalle analisi di rischio effettuate (art. 6.1. dell'allegato del decreto ministeriale 9 maggio 2001).

Non appare, pertanto, costituzionalmente legittimo il riferimento regionale ad una fascia minima di rispetto di 600 metri lineari, fissata in modo aprioristico e generalizzato.

Sull'argomento, codesta Ecc.ma Corte, con sentenza n. 248 del 16 luglio 2009, in materia di incidenti rilevanti, ha precisato che le norme regionali devono in ogni caso collocarsi «nell'ambito delimitato dalla normativa statale e, quindi, dagli specifici requisiti adottati con il decreto ministeriale 9 maggio 2001, nonche' dei requisiti minimi di sicurezza fissati nell'ambito della pianificazione dell'uso del territorio nei comuni ove sono presenti stabilimenti pericolosi, soggetti agli obblighi di cui agli articoli 6, 7 e 8 del decreto legislativo n. 334 del 1999».

Si tratta, come accennato, di normativa che trova fondamento nella disciplina comunitaria recata dalla direttiva 96/82/CE, ed in particolare nell'art. 12 che stabilisce misure in materia di controllo dell'urbanizzazione (cfr. ora art. 13, dir. 4 luglio 2012, n. 2012/18/UE).

Ponendosi in contrasto con la normativa appena richiamata, l'art. 95, comma 4, della legge regionale n. 1 del 2015 viola, dunque, l'art. 117, comma 1 e 117, comma 2, lettera s) della Costituzione. 15) L'art. 118, comma 1, lettera e), per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 118, comma 1, lettera e) annovera tra gli interventi di attivita' edilizia libera, eseguibili senza alcun titolo abilitativo «le opere interne alle unita' immobiliari, di cui all'art. 7, comma 1, lettera g)». Trattasi delle opere «concernenti l'eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscano elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unita' immobiliari o implichino incrementi degli standard urbanistici, nonche' concernenti la realizzazione ed integrazione di servizi igienicosanitari e tecnologici, da realizzare nel rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico sanitarie, sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti».

Tale previsione contrasta con l'art. 6, comma 2, lettera a) e comma 4 del testo unico dell'edilizia, che assoggetta a comunicazione di inizio lavori c.d. «asseverata» «gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio». In proposito, va ribadito che a giudizio di codesta Ecc.ma Corte «rientrano nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi e, dunque, a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perche' e' in conformita' a queste ultime che e' disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonche' agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali. L'intero corpus normativo statale in ambito edilizio e' costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi, dall'altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato» (sent. n. 309 del 2011 v. anche sentenze n. 259/2014, n. 139/2013, n. 102/2013, e n. 303/2003). La disposizione regionale in commento, tuttavia, nel definire categorie di interventi sottratte al rilascio di titoli abilitativi, si discosta dai principi fondamentali dettati dalla legislazione statale in materia di «governo del territorio».

Pertanto, atteso che il regime dei titoli abilitativi costituisce un principio generale in materia di «governo del territorio», la disposizione censurata contrasta con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

16) L'art. 118, comma 1, lettera i), per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 118, comma 1, lettera i) della legge regionale censurata annovera tra gli interventi di attivita' edilizia libera, eseguibili senza alcun titolo abilitativo «gli interventi relativi all'istallazione di impianti solari termici senza serbatoio di accumulo esterno e fotovoltaici realizzati sugli edifici o collocati a terra al servizio degli edifici per l'autoconsumo da realizzare al di fuori degli insediamenti di cui all'art. 92 delle norme regolamentari titolo II, capo I» ossia al di fuori delle aree di particolare interesse agricolo. La realizzazione di detti interventi non e' subordinata ad alcuna forma di comunicazione preventiva all'amministrazione comunale, posto che gli interventi assoggettati a comunicazione sono elencati al successivo comma 2.

La disposizione si pone in contrasto con la normativa statale di riferimento. L'art. 6, comma 2, del testo unico dell'edilizia (decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001), infatti, prevede che «nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1, previa comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale» possono essere istallati «i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio di edifici, da realizzare al di fuori della zona A» di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968. Occorre precisare che tale norma e' stata cosi' modificata dall'art. 7, comma 3, del decreto legislativo n. 28/2011 (attuativo della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'energia da fonti rinnovabili), che ha espunto dalla norma il riferimento agli impianti «termici, senza serbatoio di accumulo esterno». Il medesimo art. 7, al comma 2, ha previsto che sono assoggettati a previa comunicazione [perche' riconducibili agli interventi di manutenzione ordinaria di cui all'art. 6, comma 2, lettera a), del testo unico dell'edilizia], «gli interventi di istallazione degli impianti solari termici (...), qualora ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) gli impianti siano realizzati su edifici esistenti o su loro pertinenze, ivi inclusi i rivestimenti delle pareti verticali esterni agli edifici; b) gli impianti siano realizzati al di fuori della zona A» di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968. Anche per l'istallazione degli impianti solari termici indicati nel comma 1 del medesimo art. 7, si richiede, attraverso il rinvio all'art. 11, comma 3, decreto legislativo n. 115/2008, una comunicazione preventiva al comune. Inoltre, l'art. 6, comma 11, del decreto legislativo n. 28/2011 consente alle regioni di prevedere la comunicazione per gli impianti a fonte rinnovabile, indipendentemente dalla fonte rinnovabile di alimentazione e dal tipo di energia che producono (elettrica o termica), a condizione che tali impianti abbiano una potenza non superiore a 50 kw. Infine, l'art. 7, comma 5, del decreto legislativo n. 28/2011 prevede che gli impianti di produzione di energia termica da fonti rinnovabili diversi da quelli indicati nei commi precedenti siano soggetti a comunicazione secondo quanto previsto dall'art. 6 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001.

Con le linee guida per l'autorizzazione degli impianti da fonti rinnovabili approvate con decreto ministeriale 10 settembre 2010, par. 11, e' stato specificato che «La locuzione «installazione di pannelli solari fotovoltaici a servizio degli edifici», di cui all'art. 6, comma 1, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e' riferita a quegli interventi in cui gli impianti sono realizzati su edifici esistenti o su loro pertinenze ed hanno una capacita' di generazione compatibile con il regime di scambio sul posto» (11.8.) e che sono stati precisati i contenuti della comunicazione. In particolare, il par. 11.9 prevede che «nel caso di interventi di installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui all'art. 6, comma 2, lettere a) e d), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, alla comunicazione ivi prevista si allegano:   a) le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore;   b) limitatamente agli interventi di cui alla lettera a) del medesimo comma 2, i dati identificativi dell'impresa alla quale intende affidare la realizzazione dei lavori e una relazione tecnica provvista di data certa e corredata degli opportuni elaborati progettuali, a firma di un tecnico abilitato, il quale dichiari di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa ne' con il committente e che asseveri, sotto la propria responsabilita', che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo ...». Infine, preme ricordare che in data 18 dicembre 2014, e' stato sottoscritto in Conferenza unificata l'accordo n. 157, concernente l'adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione della Comunicazione di inizio lavori (CIL) e della Comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per gli interventi di attivita' edilizia libera. L'art. 1, comma 2, di detto accordo, peraltro, chiarisce che «i moduli unificati e standardizzati costituiscono livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e assicurano il coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale». Alla luce del quadro normativo statale appena descritto, la disposizione censurata appare viziata da illegittimita' costituzionale sotto diversi profili. In primo luogo perche', non prevedendo la comunicazione di inizio lavori in relazione ad interventi per i quali detto titolo e' previsto dalla disciplina statale, si pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di governo del territorio (art. 6, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001), e dunque viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

In secondo luogo, la disposizione si pone in contrasto con l'art. 117, comma 3, della Costituzione, in riferimento alla materia concorrente «produzione di energia». Come chiarito da codesta Ecc.ma Corte, infatti «la normativa del decreto legislativo n. 28/2011 «e' espressione della competenza statale in materia di energia, poiche' detta il regime abilitativo per gli impianti non assoggettati all'autorizzazione unica, regime da applicarsi su tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 272/2012)» (cosi' nella sentenza n. 11/2014, punto 5.2 della parte «in diritto»). Le «linee guida» adottate il 10 settembre 2010, inoltre, assumono carattere vincolante per il legislatore regionale, in quanto «costituiscono, in un ambito esclusivamente tecnico, il completamento del principio contenuto nella disposizione legislativa» (cfr. sent. n. 11/2014, punto 6.1; nonche' sent. n. 275/2011).

La regione, pertanto, non puo' estendere il regime semplificato, consistente nella totale assenza di comunicazioni al comune, ad interventi per i quali la legislazione statale richiede una comunicazione di inizio lavori con particolari caratteristiche. Anche sotto profilo, dunque, la disposizione regionale censurata ponendosi in contrasto con i principi fondamentali della materia «produzione di energia» viola l'art. 117, terzo comma, Cost.

17) L'art. 118, comma 2, lettera e), per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 118, comma 2, lettera e) della regionale impugnata, assoggetta a comunicazione di inizio lavori «le modifiche interne di carattere edilizio, compatibili con le opere di cui al presente articolo, dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, ovvero la modifica della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio di impresa, con l'esclusione della destinazione residenziale».

Tale disposizione si pone in contrasto con l'art. 6, comma 2, lettera e)-bis e comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, e dunque viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione (in riferimento alla materia del «governo del territorio»).

Le disposizioni statali appena richiamate, infatti, prevedono che siano assoggettati a comunicazione di inizio lavori asseverata «le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa». Qualora le modifiche riguardano parti strutturali, dunque, e' necessario il titolo abilitativo della SCIA (Segnalazione certificata di inizio attivita'), non essendo sufficiente la comunicazione di inizio lavori, ancorche' asseverata.

Valgono al riguardo i rilievi sopra esposti con riguardo alla riconducibilita' nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio delle disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi, nonche' di quelle che definiscono le categorie di interventi (sent. n. 309 del 2011 v. anche sentenze n. 259/2014, n. 139/2013, n. 102/2013, e n. 303/2003).

La disposizione regionale in esame, nel sottoporre alcune modifiche interne di carattere edilizio dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa nonche' la modifica della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio di impresa alla mera a comunicazione di inizio lavori, si discosta dai principi fondamentali dettati dalla legislazione statale in materia di «governo del territorio» violando cosi' l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

18) L'art. 118, comma 3, lettera e) e 140, comma 12, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera m) nonche' degli articoli 3, 97 e 117 comma 3, della Costituzione.

L'art. 118, comma 3, lettera e) della legge regionale per cui e' causa include tra i contenuti della comunicazione di inizio lavori «una relazione tecnica corredata degli opportuni elaborati progettuali, a firma di un tecnico abilitato il quale assevera, sotto la propria responsabilita', il rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico-sanitarie sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti, il rispetto delle norme in materia di dotazioni territoriali e funzionali minime, nonche' per gli aspetti di compatibilita' previsti dall'art. 127».

Tale norma contrasta con l'art. 6, comma 4, del testo unico dell'edilizia, come modificato dal decreto-legge n. 133 del 2014, secondo cui «... l'interessato trasmette all'amministrazione comunale l'elaborato progettuale e la comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato, il quale attesta, sotto la propria responsabilita', che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonche' che sono compatibili con la normativa in materia sismica e con quella sul rendimento energetico nell'edilizia e che non vi e' interessamento delle parti strutturali dell'edificio; la comunicazione contiene, altresi', i dati identificativi dell'impresa alla quale si intende affidare la realizzazione dei lavori». Le modifiche apportate nel 2014 al suddetto art. 6 hanno eliminato, con finalita' di semplificazione, l'obbligo di presentare la relazione tecnica, limitando gli oneri amministrativi per il privato alla presentazione degli elaborati progettuali.

La norma regionale, dunque, nella parte in cui continua a prevedere l'obbligo di presentare la relazione tecnica, viola l'art. 117, comma 2, lettera m), in riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni, cui vanno ricondotte le disposizioni in materia di semplificazione degli oneri amministrativi. Questa misura di semplificazione, infatti, e' finalizzata a ridurre gli oneri a carico dell'interessato nella presentazione della comunicazione e, deve ritenersi, deve essere applicata uniformemente su tutto il territorio nazionale (con specifico riferimento alla disciplina della SCIA cfr. sent. n. 164/2012, punti 8-9).

In via consequenziale, e' da ritenersi illegittimo anche l'art. 140, comma 12, della legge umbra n. 1 del 2015 che sanziona l'inosservanza dell'obbligo di presentare la relazione tecnica con una sanzione pecuniaria di mille euro.

Tale ultima disposizione e' da ritenersi illegittima anche nella parte in cui, ponendosi in contrasto con l'art. 6, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, non prevede che la sanzione per omessa comunicazione di inizio lavori sia ridotta di due terzi quando presentata spontaneamente prima della conclusione dei lavori. La decurtazione della sanzione prevista dalla norma statale da ultimo richiamata e' finalizzata ad incentivare l'adempimento spontaneo dell'obbligo di comunicazione al comune, anche se tardiva. L'aver soppresso questa misura premiale, oltre a contrastare con i principi di uguaglianza e buon andamento di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione, non garantisce il raggiungimento degli obiettivi previsti dall'art. 6 del testo unico dell'edilizia e quindi viola un principio fondamentale in materia di «governo del territorio» integrando il contrasto con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

19) L'art. 124, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 124, della legge regionale censurata che individua gli interventi realizzabili mediante «SCIA obbligatoria», contrasta con l'art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 e quindi viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

La norma statale, infatti, al comma 3, prevede che «in alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attivita': a) gli interventi di ristrutturazione di cui all'art. 10, comma 1, lettera c); b) gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all'entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione, purche' il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate; c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche». Al comma 5 precisa che «le regioni possono individuare con legge gli altri interventi soggetti a denuncia di inizio attivita', diversi da quelli di cui al comma 3, assoggettati al contributo di costruzione definendo criteri e parametri per la relativa determinazione» e, infine, al comma 7 chiarisce che «e' comunque salva la facolta' dell'interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1 e 2, senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all'art. 16, salvo quanto previsto dal secondo periodo del comma 5 ...».

La norma regionale censurata contrasta con i principi fondamentali in materia di «governo del territorio» contenuti nelle disposizioni statali appena riportate sotto diversi profili, anche alla luce dei rilievi sopra illustrati trattandosi di disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi.

In primo luogo, la previsione regionale estende il modulo procedimentale della SCIA ad interventi che, invece, la normativa statale ha assoggettato a denuncia di inizio attivita', per evidenti finalita' di tutela del territorio (trattandosi di interventi piu' gravosi, infatti, non e' stato ritenuto opportuno consentire l'avvio dei lavori contestualmente alla presentazione dell'istanza). In secondo luogo, perche' configura questa SCIA come «obbligatoria», mentre sia il comma 3 che il comma 7 dell'art. 22 fanno salva la possibilita' dell'interessato di optare per il provvedimento espresso, rinunciando al modulo procedimentale semplificato. Di qui il contrasto dalla norma regionale in esame con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

19.1) L'art. 124, comma 1, lettera g), per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione.

L'art. 124, comma 1, lettera g), della legge regionale n. 1 del 2015 nella parte   in cui assoggetta a SCIA la realizzazione di pozzi adibiti ad uso non domestico, contrasta con la disciplina vigente in materia di realizzazione di progetti concernenti opere idrauliche, nonche' in materia di derivazione e utilizzazione delle acque pubbliche.

Dal combinato disposto degli articoli 93, comma 1 (al quale rinvia l'art. 167, comma 5, decreto legislativo n. 152/2006), e 95, comma 1, regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 «testo unico delle disposizioni di' legge sulle acque e impianti elettrici» infatti, si evince che, mentre per i pozzi ad uso domestico il proprietario di un fondo puo' estrarre ed utilizzare liberamente - nei limiti e con le cautele prescritte dalla legge - le acque sotterranee del medesimo fondo (l'art. 167, comma 5, decreto legislativo n. 152/2006 richiede che «L'utilizzazione delle acque sotterranee per gli usi domestici ... non comprometta l'equilibrio del bilancio idrico di cui all'art. 145 del presente decreto»); lo scavo dei pozzi ad uso non domestico, nelle aree sottoposte a tutela, e' sottoposto ad autorizzazione, la cui domanda va corredata con il piano di massima dell'estrazione ed con l'indicazione dell'utilizzazione prevista.

L'art. 162, comma 2, decreto legislativo n. 152/2006, inoltre, prevede che «il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, le regioni e le province autonome, nell'ambito delle rispettive competenze, assicurano la pubblicita' dei progetti concernenti opere idrauliche che comportano (...) la perforazione di pozzi. A tal fine, le amministrazioni competenti curano la pubblicazione delle domande di concessione, contestualmente all'avvio del procedimento, oltre che nelle forme previste dall'art. 7 del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque sugli impianti elettrici, approvato con regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (...)».

Pertanto, assoggettare la realizzazione di pozzi adibiti ad uso non domestico al regime di SCIA, senza far salvi i comprensori sottoposti a tutela, costituisce violazione delle competenze statali in materia di tutela e salvaguardia delle risorse idriche, riconducibili alla materia di cui all'art. 117, comma 2, lettera s), Cost.

Inoltre, tale disposizione regionale, prevedendo che siano assoggettati a SCIA i pozzi non domestici in via generale e senza altre specificazioni, rappresenta una illegittima esclusione dal campo di applicazione della disciplina in materia di VIA.

L'art. 20, decreto legislativo n. 152/2006, sottopone a verifica di assoggettabilita' a VIA i progetti di «derivazione di acque superficiali ed opere connesse che prevedano derivazioni superiori a 200 litri al secondo o di acque sotterranee che prevedano derivazioni superiori a 50 litri al secondo, nonche' le trivellazioni finalizzate alla ricerca per derivazioni di acque sotterranee superiori a 50 litri al secondo;» (allegato IV alla parte seconda del medesimo decreto, punto 7, lettera d).

Alla luce delle precedenti considerazioni, l'art. 124, comma 1, lettera g) della legge regionale in discorso, nella parte in cui estende illegittimamente alla procedura di SCIA anche i pozzi non domestici, invade la potesta' legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente, presentando profili di illegittimita' costituzionale in relazione all'art. 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione, per violazione delle norme interposte di cui agli articoli 93 e 95 del regio decreto n. 1775/1933 e dell'art. 162 del decreto legislativo n. 152/2006, nonche' delle su richiamate norme statali in materia di VIA.

20) L'art. 140, comma 11, per violazione dell'art. 117, comma 2), lettera e) della Costituzione.

L'art. 140, comma 11, della legge regionale n. 1 del 2015 contrasta con l'art. 117, comma 2), lettera e) della Costituzione (in riferimento alla materia della «tutela della concorrenza»), nella parte in cui prevede una causa di esclusione rispetto alla partecipazione a gare, per un periodo determinato di tempo e a seguito dell'iscrizione dell'impresa inadempiente in un apposito elenco.

Tale previsione, non contemplata nell'art. 38 del decreto legislativo n. 163/2006, infatti, e' incompatibile con la tipicita' delle cause di esclusione, ai sensi dell'art. 46 del decreto legislativo n. 163/2006. La giurisprudenza amministrativa ha avuto piu' volte modo di affermare che la verifica in merito alle dichiarazioni sulla regolarita' contributiva rientra nei poteri della stazione appaltante, riconosciuti come compatibili dalla Corte di giustizia europea, e non ha quindi carattere di esclusione automatica. Essa deve essere dunque effettuata con riferimento alla singola gara, e a seguito di una verifica in concreto, che non puo' estendersi a ulteriori gare in un periodo di tempo astrattamente determinato.

Va soggiunto, al riguardo, che la disciplina degli appalti pubblici, intesa in senso complessivo, include diversi «ambiti di legislazione», con conseguente interferenza fra materie di competenza statale e materie di competenza regionale; interferenza che, tuttavia, si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi normalmente in un intreccio in senso stretto, ma con la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa in relazione agli oggetti riconducibili alla competenza esclusiva statale, esercitata con le norme recate dal decreto legislativo n. 163 del 2006 (sent. n. 411 del 2008). Le norme relative alle procedure di gara (ivi incluse che prevedono cause di esclusione dalla gara stessa) ed all'esecuzione del rapporto contrattuale costituiscono, dunque, oggetto delle disposizioni del codice dei contratti, alle quali il legislatore regionale deve adeguarsi.

La disposizione censurata, pertanto, lede la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza, in quanto, esorbitando dai limiti della potesta' legislativa regionale, introduce di ulteriori cause di esclusione dalle gare nell'ipotesi in cui risulti iscritta in un apposito elenco l'impresa ritenuta inadempiente ai sensi del comma 10 del citato art. 140.

21) L'art. 141, comma 2, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 141, comma 2, che disciplina la vigilanza sull'attivita' urbanistico-edilizia, si pone in contrasto con l'art. 27, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 (che individua i poteri d'intervento del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale per l'adozione delle misure di vigilanza nella realizzazione di opere in assenza di titolo), e quindi con un principio fondamentale in materia di governo del territorio ai sensi dell'art. 117, comma 3, della Costituzione, sotto due diversi profili.

In primo luogo, la prima parte del comma 2 dell'art. 141, nell'individuare il presupposto dell'adozione delle misure di vigilanza nella realizzazione di opere in assenza di titolo «su aree assoggettate, da leggi statali, regionali, da altre norme urbanistiche vigenti a vincolo di inedificabilita', o a vincoli preordinati all'esproprio ...», omette di prevedere la vigilanza sui vincoli posti da norme urbanistiche adottate, ma non ancora vigenti. In questo modo, si comprime arbitrariamente l'ambito della vigilanza individuato dalle disposizioni statali a tutela di strumenti urbanistici che sono ancora in corso di formazione.

Sotto un diverso profilo, la disposizione regionale, a differenza di quella statale, subordina l'adozione del provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi in caso di accertamento dell'abuso, ad un procedimento amministrativo complesso che viene avviato con l'ordine di sospensione dei lavori e che prevede la partecipazione dell'interessato e delle altre amministrazioni eventualmente coinvolte. Soltanto qualora le opere interessino beni assoggettati a vincolo il provvedimento di demolizione viene subito disposto. Tale disposizione contrasta con un principio fondamentale in materia di «governo del territorio» contenuto nella legislazione statale, al citato art. 27, e finalizzato alla massima repressione degli abusi edilizi. Il procedimento amministrativo contemplato dalla norma regionale sospettata frustra, per la sua complessita', le finalita' perseguite dal testo unico dell'edilizia e finisce, cosi', per violare il disposto dell'art. 117, terzo comma, Cost.

22) L'art. 142, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera l) dell'art. 117, comma 3 della Costituzione.

L'art. 142, comma 1, della legge regionale impugnata, nel disciplinare la vigilanza sulla attivita' urbanistico-edilizia, individuando i soggetti responsabili, contrasta con l'art. 29 del testo unico dell'edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, e quindi viola l'art. 117, comma 2, lettera l) Cost. (con riferimento alla materia «ordinamento penale»), nonche' l'art. 117, comma 3 Cost. (in riferimento alla materia del «governo del territorio»), nei limiti e per i motivi di seguito indicati.

La norma censurata inserisce il proprietario tra i soggetti responsabili, diversamente da quanto previsto dall'art. 29 del testo unico dell'edilizia, che non contempla il proprietario tra i soggetti tenuti a garantire la conformita' delle opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di piano, sulla base del principio per cui il proprietario, non autore dell'abuso e non committente delle opere, puo' ritenersi corresponsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dell'abuso edilizio stesso; sono invece soggetti responsabili il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore, nonche' il direttore dei lavori, limitatamente al rispetto per le opere da lui dirette delle prescrizioni e delle modalita' esecutive fissate dal permesso di costruire.

La norma regionale denunciata, nell'individuare il proprietario tra i soggetti responsabili «della conformita' delle opere alla normativa urbanistica ed edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei piani di settore, nonche', unitamente al direttore dei lavori, a quelle del titolo abilitativo e alle modalita' esecutive o prescrizioni stabilite dal medesimo», viola le disposizioni della Costituzione sopra indicate.

23) Gli articoli 147 e 155 e 118, comma 2, lettera h), per violazione dell'art. 117, comma 3, nonche' dell'art. 117, comma 2, lettera l) e dell'art. 3 della Costituzione.

Gli articoli 147 e 155 della legge regionale censurata disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso.

Il combinato disposto dell'art. 118, comma 2, lettera h) e dell'art. 155, comma 4, considera il mutamento della destinazione d'uso nell'ambito delle tre categorie elencate al comma 3 dell'art. 155 [a) residenziale; b) produttiva (compresa quella agricola); c) attivita' di servizi come definita all'art. 7,   comma 1, lettera l)] come attivita' edilizia libera soggetta a comunicazione di inizio lavori asseverata. Al di fuori di queste ipotesi, il titolo richiesto dal comma 4 dell'art. 155 e' «la SCIA nel caso di modifica della destinazione d'uso o per la realizzazione di attivita' agrituristiche o di attivita' connesse all'attivita' agricola, realizzate senza opere edilizie o nel caso in cui la modifica sia contestuale alle opere di cui all'art. 118, comma 1» (lettera a), ovvero «il permesso di costruire o la SCIA, in relazione all'intervento edilizio da effettuare con opere, al quale e' connessa la modifica della destinazione d'uso» (lettera b).

Il comma 5 dell'art. 155 prevede che non costituisce modifica di destinazione d'uso «la realizzazione di attivita' di tipo agrituristico, o di attivita' connesse all'attivita' agricola o le attivita' di vendita al dettaglio dei prodotti dell'impresa agricola in zona agricola, attraverso il recupero di edifici esistenti» e che «i relativi interventi sono soggetti al titolo abilitativo previsto per l'intervento edilizio al quale e' connessa tale realizzazione».

Le disposizioni appena richiamate contrastano con la normativa statale di riferimento, che, da un lato, assoggetta a SCIA il mutamento di destinazione d'uso ad di fuori dei centri storici (combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del testo unico dell'edilizia), dall'altro individua in modo piu' ampio la categoria dei mutamenti di destinazioni d'uso urbanisticamente rilevanti.

L'art. 23-ter del testo unico dell'edilizia, introdotto con il decreto-legge n. 133/2014, infatti, prevede cinque diverse categorie funzionali, stabilendo che il passaggio tra le varie categorie costituisce mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante.

La categoria contemplata dall'art. 155, lettera c), della legge regionale e' troppo ampia (vi rientrano attivita' a carattere socio-santiario, direzionale, commerciali, di somministrazione, turistico-produttive, ricreative, sportive e culturali) ed e' atta ad includere piu' categorie statali, in contrasto con l'art. 23-ter, che riconduce a tre categorie diverse (turistiche-ricettive, quelle produttive e direzionali, quelle commerciali) le attivita' che la legge umbra racchiude alla predetta lettera c).

La differenza nella definizione del mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante e nel titolo abilitativo richiesto incide quindi sul regime sanzionatorio previsto dalla legge statale e da quella regionale.

L'art. 147 della legge regionale stabilisce, al comma 1, le sanzioni comminate in caso di mutamenti in assenza del titolo abilitativo previsto dall'art. 155, comma 4. Le sanzioni vanno da euro trecento a euro tremila, in rapporto alla superficie interessata dall'abuso, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso risulti conforme alle norme urbanistiche ed edilizie (lettera a). In questo caso, il comma 2 prevede che «contestualmente all'applicazione della sanzione ... il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale dispone sempre il pagamento del contributo di costruzione di cui agli articoli 130, 131 e 132 ... valido anche ai fini dell'eventuale accertamento di conformita' ai sensi dell'art. 154, comma 4 ... In caso di mancata ottemperanza da parte dei responsabili dell'abuso nei termini stabiliti il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale dispone il ripristino dello stato preesistente».

Nel caso in cui il mutamento della destinazione d'uso non risulti conforme alle norme urbanistiche ed edilizie (lettera b), invece, le sanzioni sono le seguenti: «1) euro cinquanta per ogni metro quadro di superficie utile di calpestio per gli immobili con destinazione finale residenziale, ridotta ad euro venti a metro quadro per gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario; 2) euro cento a metro quadro di superficie utile di calpestio per gli immobili con utilizzazione finale commerciale, direzionale, o servizi; 3) euro cinquanta per ogni metro quadro di superficie utile di calpestio per gli immobili con utilizzazione finale industriale, artigianale o agricola». In questo caso, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina, contestualmente alla irrogazione della sanzione, la cessazione dell'utilizzazione abusiva dell'immobile, assegnando un termine non inferiore a trenta giorni e non superiore a novanta giorni decorso il quale si provvede d'ufficio in danno dei responsabili dell'abuso.

Il comma 4, infine, dispone che la sanzione di cui al presente articolo, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso sia effettuato con gli interventi abusivi di cui agli articoli 144, 145 e 146, si cumula con le sanzioni pecuniarie previste da detti articoli.

La disciplina regionale appena descritta si pone sotto piu' profili in contrasto con i principi fondamentali di governo del territorio dettati dallo Stato in attuazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione. Inoltre, incide sull'ambito di applicazione delle sanzioni amministrative, civili e penali previste dal decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, invadendo la potesta' legislativa statale in materia di ordinamento civile e penale (art. 117, comma 2, lettera l), e in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.

Nel dettaglio:   laddove le norme statali richiedono il permesso di costruire o la DIA alternativa per il mutamento della destinazione d'uso [art. 10, comma 1, lettera c) del testo unico dell'edilizia, mutamento di destinazione d'uso nei centri storici], la normativa regionale contrasta con gli articoli 33, 36 e 44 del testo unico;   laddove le norme statali subordinano il mutamento di destinazione d'uso a SCIA, invece, contrasta con l'art. 37 del testo unico. 24) L'art. 151, comma 2 e comma 4, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione.

L'art. 151, comma 2, della legge impugnata prevede che i lavori di demolizione di opere abusive svolti a cura del comune «laddove non eseguibili direttamente dal comune o dalla provincia, sono affidati, anche a trattativa privata ove ne sussistano i presupposti, ad imprese tecnicamente e finanziariamente idonee».

Tale disposizione si pone in contrasto con gli articoli 56 e 57 del Codice degli appalti di cui al decreto legislativo n. 163/2006, che impongono il ricorso a procedure negoziali aperte, salvo che in casi limitati dettagliatamente individuati dagli stessi articoli. La norma regionale, a differenza della previsione statale, si limita a prevedere che il ricorso a procedure negoziali aperte «e' in ogni caso ammesso» (comma 4). Dunque, questo strumento, che per il legislatore statale e' la regola generale, sembra diventare residuale nella normativa regionale, con potenziali effetti anticoncorrenziali.

Pertanto, la disposizione impugnata contrasta con l'art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione (in riferimento alla materia della «tutela della concorrenza»), anche per i profili accennati sub 20).

25) L'art. 154, comma 1 e comma 3, per violazione dell'art. 117, comma 3, e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.

L'art. 154, comma 1, della legge regionale in esame prevede che «In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, con variazioni essenziali o in difformita' da esso, ovvero in assenza di SCIA o in difformita' da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 143, comma 3, 144, comma 1, 145, comma 1, 146, comma 1 e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il titolo a sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda e non in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati. Ai fini di cui al presente comma e' consentito l'adeguamento di eventuali piani attuativi, purche' tale adeguamento risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e non in contrasto con quello adottato. Per le violazioni di cui all'art. 147 il titolo abilitativo a sanatoria e' rilasciato se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda».

I presupposti previsti da tale disposizione per l'accertamento in conformita' - e conseguentemente per il rilascio del permesso in sanatoria - non rispettano il principio fondamentale in materia di «governo del territorio» previsto agli articoli 36 e 37, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, che subordinano il rilascio del titolo in sanatoria alla conformita' degli immobili alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione dell'istanza (c.d. «doppia conformita'», sul punto sent. n. 101/2013).

In particolare, la norma non e' conforme al richiamato principio nella parte in cui stabilisce «l'adeguamento di eventuali piani attuativi, purche' tale adeguamento risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e non in contrasto con quello adottato» e nella parte in cui esclude la doppia conformita' per le violazioni di cui all'art. 147 (mutamento di destinazione d'uso in assenza di titolo abilitativo).

La disposizione censurata, dunque, contrasta con l'art. 117, comma 3, della Costituzione e con l'art. 117, comma 2, della Costituzione, in riferimento alla materia «ordinamento penale».

Inoltre, contrasta con i principi fondamentali in materia di «governo del territorio» il comma 3 del medesimo art. 154, che, nel richiamare le procedure previste dall'art. 123 per il permesso in sanatoria, estende anche a questa fattispecie l'applicazione del silenzio assenso, in espresso contrasto con l'art. 36, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, secondo cui «sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata».

Si richiamano, anche sul punto, i rilievi sopra esposti con riguardo alla riconducibilita' nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio delle disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (sent. n. 309 del 2011 v. anche sentenze n. 259/2014, n. 139/2013, n. 102/2013, e n. 303/2003).

26) L'art. 206, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 206, comma 1, della legge regionale umbra n. 1 del 2015, nella parte in cui prevede che «per i lavori di cui all'art. 201, comma 1 , nelle zone 1, 2 e 3 ad alta, media e bassa sismicita', il deposito del certificato di collaudo statico tiene luogo anche del certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche per le costruzioni previsto all'art. 62 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001. Negli interventi in cui il certificato di collaudo non e' richiesto, la rispondenza e' attestata dal direttore dei lavori che provvede al relativo deposito presso la provincia competente», contrasta con l'art. 62 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, secondo cui «il rilascio della licenza d'uso per gli edifici costruiti in cemento armato e dei certificati di agibilita' da parte dei comuni e' condizionato all'esibizione di un certificato da rilasciarsi dall'ufficio tecnico della regione, che attesti la perfetta rispondenza dell'opera eseguita alle norme del capo quarto».

La disposizione regionale, dunque, prevede che per tutti i lavori di nuova costruzione, di ampliamento e di sopraelevazione e i lavori di manutenzione straordinaria, di restauro, di risanamento e di ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente che compromettono la sicurezza statica della costruzione o riguardano le strutture o alterano l'entita' e/o la distribuzione dei carichi, effettuati nelle zone ad alta, media e bassa sismicita', sia sufficiente il certificato di collaudo statico o una attestazione del direttore dei lavori.

La previsione contenuta all'art. 62 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, che richiede il rilascio del certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche per le costruzioni, essendo finalizzata a garantire la sicurezza delle costruzioni in zone sismiche, risponde ad un'esigenza unitaria di sicurezza, non derogabile dal legislatore regionale. D'altronde, con riferimento al rischio sismico, codesta Ecc.ma Corte ha avuto modo di rilevare che «l'intento unificatore della legislazione statale e' palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell'incolumita' pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui, ugualmente, compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali»; pertanto, il coinvolgimento di interessi primari della collettivita' limita la possibilita' del legislatore regionale di introdurre misure di semplificazione, quale quella contenuta dalla disposizione censurata (cfr. sentenza n. 182/2006). Per le ragioni suesposte, l'art. 206, comma 1 contrasta con l'art. 117, comma 3, della Costituzione (nelle materie del «governo del territorio» e «protezione civile») e con la disposizione interposta di cui all'art. 62 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, e viene pertanto impugnato dinanzi a codesta Ecc.ma Corte ai sensi dell'art. 127 della Costituzione.

27) L'art. 215, comma 12, per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 215, comma 12, della legge regionale censurata prevede che «qualora l'autorita' espropriante realizzi l'opera pubblica o di pubblica utilita' tramite affidamento a concessionario di lavori pubblici o a contraente generale, l'autorita' medesima puo' delegare con proprio provvedimento assunto secondo le norme che disciplinano il proprio funzionamento, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi al concessionario ovvero al contraente generale, determinando l'ambito della delega nell'atto di concessione o di affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo. I soggetti privati delegati possono avvalersi a tal fine di societa' di servizi».

L'ultima parte di tale previsione contrasta con l'art. 6, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001, secondo cui «8. Se l'opera pubblica o di pubblica utilita' va realizzata da un concessionario o contraente generale, l'amministrazione titolare del potere espropriativo puo' delegare, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi, determinando chiaramente l'ambito della delega nella concessione o nell'atto di affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo. A questo scopo i soggetti privati cui sono attribuiti per legge o per delega poteri espropriativi, possono avvalersi di societa' controllata. I soggetti privati possono altresi' avvalersi di societa' di servizi ai fini delle attivita' preparatorie».

La legislazione statale, a differenza di quella regionale, consente di avvalersi, per il procedimento espropriativo, di societa' controllate, non di societa' di servizi. Il ricorso a queste ultime, infatti, puo' avvenire limitatamente «ai fini delle attivita' preparatorie». Cio' in quanto il procedimento di esproprio comporta l'esercizio di poteri di ordine pubblicistico che non possono essere delegati ad un soggetto che non sia posto sotto il controllo pubblico.

Nel disporre diversamente, la disposizione regionale in esame si pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di governo del territorio - cui deve essere ricondotto l'art. 6, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001 - e quindi viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione.

28) L'art. 243, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera l) e 117, comma 3, della Costituzione.

L'art. 243, al comma 1, della legge regionale n. 1 del 2015 prevede che «la disciplina concernente le distanze, le dotazioni territoriali e funzionali minime, nonche' quella relativa alle situazioni insediative del PRG, di cui alle norme regolamentari titolo I, capo I, sezione V e al titolo II, capo I, sezioni II, III e IV, sostituisce quella del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (...), in materia, rispettivamente, di distanze, di standard e di zone territoriali omogenee, anche ai sensi dell'art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001».

La norma impugnata da un lato «disapplica» le disposizioni del decreto ministeriale n. 1444/1968, comprese quelle in materia di distanze, dall'altro omette di richiamare le disposizioni in materia contenute nel codice civile, rinviando ad una norma di carattere regolamentare (che, peraltro, non richiama le relative disposizioni del codice civile).

Al riguardo, occorre ricordare che le norme in materia di distanze contenute all'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444/1968 hanno, per consolidata giurisprudenza costituzionale, carattere inderogabile e rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile». Codesta Ecc.ma ha piu' volte ritenuto - da ultimo nella sentenza n. 6/2013 - che l'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, e' dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005, si veda anche la sent. n. 134/2014).

Per queste ragioni, la disposizione impugnata viola l'art. 117, comma 2, lettera l) e 117, comma 3 (con riferimento al «governo del territorio») della Costituzione.

29) L'art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, 202 e 208, per violazione dell'art. 117, comma 3 della Costituzione.

L'art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, commi 2, 3 e 4; 202, comma 1, e 208, commi 2 e 3, della legge regionale impugnata sostanzialmente consentono alla giunta regionale, con proprio atto, di sottrarre tipologie di interventi edilizi dall'applicazione della normativa sismica e dell'autorizzazione sismica di cui agli articoli 62, 63, 65, 82, 83 e 88 del testo unico dell'edilizia.

Codesta Ecc.ma Corte ha chiarito che la disciplina in materia di vigilanza sugli interventi edilizi in zona sismica e' riconducibile ai principi fondamentali in materia di «protezione civile» (si veda sent. n. 300/2013, spec. punto 4 nonche' sent. n. 101 del 2013 e n. 201 del 2012), pertanto, le disposizioni censurate violano l'art. 117, comma 3 della Costituzione.

In particolare, le categorie di «interventi privi di rilevanza ai fini della pubblica incolumita'» e «di minore rilevanza ai fini della pubblica incolumita'», a cui fa riferimento la disposizione regionale impugnata, non sono conosciute dalla normativa statale: non se ne fa menzione nel citato decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ne' nella normativa tecnica, contenuta nel decreto del Ministro delle infrastrutture 14 gennaio 2008.

Pertanto, le disposizioni regionali sospettate si discostano illegittimamente dalla normativa statale rilevante, perche' introducono una categoria di interventi edilizi ignota alla legislazione statale e la escludono dalla applicazione di norme improntate al principio fondamentale della vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico (cfr. anche sentenza n. 182 del 2006 e sent. n. 101 del 2013 cit.), con l'effetto sostanziale di sottrarre indebitamente determinati interventi edilizi ad ogni forma di vigilanza pubblica.

30) L'art. 258 e l'art. 264, comma 13, per violazione dell'art. 117, comma 3 e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.

L'art. 258 della legge regionale n. 1 del 2015 detta norme speciali per le aree terremotate e disciplina gli edifici, non conformi, in tutto o in parte, agli strumenti urbanistici, realizzati, prima del 31 dicembre 2000 da privati o da altri enti pubblici, anche con il contributo pubblico, in sostituzione delle abitazioni principali, delle attivita' produttive, dei servizi e dei relativi accessori, che, per effetto della crisi sismica dell'anno 1997 sono stati oggetto di sgombero totale.

La norma prevede, al comma 1, che i comuni effettuino un censimento di questi edifici e, al comma 2, ne prevede la cessione ai conduttori degli immobili. Attribuisce dunque ai comuni (comma 3) il compito di predisporre un'apposita variante che, limitatamente agli edifici per i quali e' stata presentata domanda di acquisto, preveda la realizzazione di un'adeguata urbanizzazione e di un razionale inserimento territoriale ed ambientale, prevedendo le modalita' di adeguamento edilizio, tipologico ed estetico degli edifici interessati, nonche' gli elementi di arredo urbano necessari. Tale variante deve confermare le volumetrie e le altezze degli edifici interessati «con eventuale possibilita' di modifica entro il limite del dieci per cento; ulteriori modifiche delle previsioni possono essere apportate decorsi cinque anni dalla approvazione della variante» (comma 6). Per gli edifici «non raccordabili con gli insediamenti esistenti», il comma 5 prevede la possibilita' di individuazione «come ambito agricolo per la riqualificazione degli edifici medesimi, previa costituzione di un vincolo di destinazione d'uso quindicennale decorrente dalla data di ultimazione dei lavori». Ai sensi del comma 8, «il proprietario o avente titolo presenta al comune la richiesta per il titolo abilitativo a sanatoria», che e' rilasciato «a seguito del pagamento degli oneri previsti all'art. 154, comma 2 del presente testo unico e con le modalita' previsti all'art. 23, comma 6, della legge regionale 3 novembre 2004, n. 21 (Norme sulla vigilanza, responsabilita', sanzioni e sanatoria in materia edilizia) con il solo obbligo di accertamento in conformita' alle previsioni della variante apportata ai sensi del presente articolo». Per gli edifici che non risulta possibile inserire nelle varianti il comma 9 dispone l'applicazione della disciplina di accertamento e sanzionatoria degli abusi edilizi, di cui al titolo V, capo VI, della legge in esame. Infine, per consentire «di verificare la possibilita' del rientro alla normalita' delle aree interessate», il comma 10 sospende i provvedimenti amministrativi di demolizione e rimessa in pristino relativi agli immobili realizzati in difformita' dalle previsioni urbanistiche a seguito degli eventi sismici iniziati il 26 settembre 1997.

La disciplina introdotta dalla disposizione censurata sostanzialmente introduce un'ipotesi di condono edilizio straordinario non previsto dalla legge statale, ponendosi in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio contenuti nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 (e in particolare con l'art. 36) e con le disposizioni statali in materia di ordinamento civile e penale, e pertanto viola l'art. 117, comma 3, e l'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.

E' di tutta evidenza, infatti, che la norma consente ai comuni di rilasciare il titolo in sanatoria per interventi edilizi non conformi agli strumenti urbanistici, per i quali potrebbe essere gia' stato emanato un provvedimento di demolizione (comma 10), senza peraltro individuare chiaramente di quali edifici si tratta (estremamente ampio il novero degli edifici «realizzati, prima del 31 dicembre 2000 ... che, per effetto della crisi sismica dell'anno 1997 sono stati oggetto di sgombero totale»). Va rilevato, altresi', che l'accertamento in conformita' di cui all'art. 36 del testo unico dell'edilizia si applica solo laddove vi sia la doppia conformita' agli strumenti urbanistici e alla normativa edilizia (cosa che, evidentemente, non sussiste nel caso in esame), anzi presuppone che detto titolo sia richiesto prima che il comune emetta il provvedimento di demolizione.

Inoltre, la disposizione regionale sospettata consente la vendita dei predetti immobili abusivi ai conduttori, in aperto contrasto con l'art. 46 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, che dispone la nullita' degli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento di diritti reali, relativi ad edifici abusivi. Addirittura, la norma regionale consente per questi immobili «incrementi delle volumetrie e delle altezze», in spregio alla normativa statale che ha sempre vietato gli incrementi volumetrici per gli interventi abusivi. E' evidente, infine, che la sanatoria farebbe venire meno gli effetti penali dell'abuso, e inciderebbe quindi in un ambito riservato alla potesta' legislativa esclusiva statale.

Al riguardo, giova ricordare che codesta Ecc.ma Corte, con la sentenza n. 225/2012 (punto 3 del considerato in diritto), ha chiarito che: «nella disciplina del condono edilizio convergono la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di sanzionabilita' penale e la competenza legislativa concorrente in tema di governo del territorio di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. (sentenze n. 49 del 2006 e n. 70 del 2005)» e, soprattutto, che «e' stata ritenuta di stretta interpretazione, in quanto espressione di principio generale afferente ai limiti della sanatoria, l'individuazione da parte della legge dello Stato delle fattispecie ad essa assoggettabili, di modo che le stesse non possono essere comunque ampliate o interpretate estensivamente dalla legislazione regionale. Per questo motivo risulta pienamente conforme al dettato costituzionale l'art. 32, comma 27, del decreto-legge n. 269 del 2003, contenente la previsione tassativa delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria, la quale determina, in pratica, i limiti del condono, entro il cui invalicabile perimetro puo' esercitarsi la discrezionalita' del legislatore regionale (sentenza n. 70 del 2005)». Sul punto, si veda anche la sentenza n. 290/2009, secondo cui «questa Corte ha gia' riconosciuto che "solo alla legge statale compete l'individuazione della portata massima del condono edilizio straordinario" (sentenza n. 70 del 2005; sentenza n. 196 del 2004), sicche' la legge regionale che abbia per effetto di ampliare i limiti applicativi della sanatoria eccede la competenza concorrente della regione in tema di governo del territorio».

In via consequenziale, deve ritenersi costituzionalmente illegittimo, per i medesimi motivi, l'art. 264, comma 13, secondo cui «i titoli abilitativi relativi alle istanze di condono edilizio sono rilasciati previa acquisizione dei pareri per interventi nelle aree sottoposte a vincolo imposti da leggi statali e regionali vigenti al momento della presentazione delle istanze medesime, fatto salvo quanto previsto in materia sismica e di tutela dei beni paesaggistici e culturali».

Anche la norma regionale da ultimo citata, pertanto, integra la violazione dell'art. 117, comma 3, e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.

31) L'art. 264, comma 14 e 16, per violazione dell'art. 117, comma 3, nonche' dell'art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione.

L'art. 264, al comma 14, della legge regionale impugnata, dispone che «gli interventi edilizi, limitatamente a quelli riguardanti l'area di pertinenza degli edifici dell'impresa agricola, compresa la realizzazione delle opere pertinenziali, nonche' le opere senza strutture fondali fisse per l'attivita' zootecnica di cui all'art. 17, comma 1, lettera d) delle norme regolamentari, esistenti alla data del 30 giugno 2014 e che risultino conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non in contrasto con quelli adottati alla stessa data sono autorizzati con la procedura prevista all'art. 154, commi 2, 3, 6, e 7, ferma restando l'applicazione delle eventuali sanzioni penali. In tali casi l'istanza e' presentata entro e non oltre il 30 giugno 2015». La disposizione non prevede la cosiddetta «doppia conformita'», richiesta per la sanatoria dagli articoli 36 e 37, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 (l'intervento deve risultare conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda), perche' si limita a richiedere la conformita' «alla disciplina urbanistica ed edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non in contrasto con quelli adottati alla stessa data», laddove tale ultima data sembra essere quella del 30 giugno 2014 (data fissata dalla stessa disposizione per stabilire i requisiti necessari per poter chiedere la sanatoria).

Piu' che un'ipotesi di permesso in sanatoria, la norma censurata dunque configura una nuova, non consentita, ipotesi di condono edilizio, che non e' materia di competenza legislativa regionale, ponendosi quindi in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio attribuiti alla competenza legislativa statale dall'art. 117, comma terzo, della Costituzione.

L'art. 264, comma 16 dispone poi che «la domanda di concessione ordinaria di piccola derivazione di acqua pubblica sotterranea dai pozzi autorizzati, previo pagamento annuale dei canoni e diritti previsti, costituisce autorizzazione annuale all'attingimento fino alla conclusione del procedimento di concessione senza obbligo di ulteriori formalita' o istanze e comunque nei limiti fissati dalle normative di settore, salvo che l'autorita' idraulica competente ne comunichi entro trenta giorni il diniego ai sensi della legge regionale 11 maggio 2007, n. 12 (Norme per il rilascio delle licenze di attingimento di acque pubbliche)».

La norma regionale in questione attribuisce alla semplice domanda di concessione di piccola derivazione valore di autorizzazione all'attingimento, salvo che l'autorita' idraulica competente ne comunichi il diniego al richiedente entro il termine di trenta giorni. L'art. 264, comma 16, quindi, estende l'istituto del «silenzio-assenso» al procedimento concessorio in palese violazione dell'art. 17, comma 1°, del testo unico n. 1775/1933 che, invece, richiede un provvedimento espresso per derivare o utilizzare acqua pubblica. Piu' precisamente, l'articolo da ultimo citato prevede che «e' vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorita' competente».

Alla luce delle precedenti considerazioni, l'art. 264, comma 16, nella parte in cui estende l'istituto del silenzio assenso alle concessioni di acqua pubblica si pone in contrasto con la potesta' legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costi-tuzione, per violazione della norma interposta di cui all'art. 17, comma 1, regio decreto n. 1775/1933.

 

P. Q. M.

 

Per le ragioni esposte, il Presidente del Consiglio dei ministri, come sopra rappresentato e difeso chiede che codesta Ecc.ma Corte costituzionale voglia dichiarare costituzionalmente illegittima la legge della regione Umbria del 21 gennaio 2015, n. 1, pubblicata nel B.U.R. Umbria 28 gennaio 2015, n. 6, supplemento ordinario n. 1, limitatamente agli articoli 1, commi 2 e 3; art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m), n); art. 8; art. 9, comma 4; art. 10, comma 1; art. 11, comma 1, lettera d); art. 13; art. 15, commi 1 e 5; art. 16, commi 4 e 5; art. 17; art. 19; art. 21; art. 18, commi 4, 5, 6, 7, 8 e 9; art. 28, comma 10; art. 56, comma 3; art. 32, comma 4; art. 49, comma 2, lettera a); art. 51, comma 6; art. 79, comma 3; art. 56, comma 14; art. 54; art. 59, comma 3; art. 64, comma 1; art. 95, comma 4; art. 118, comma 1, lettere e) ed i), e comma 3; art. 118, comma 2, lettera e); art. 118, comma 3, lettera e); art. 140, comma 12; art. 124; art. 124, comma 1, lettera g); art. 140, comma 11; art. 141, comma 2; art. 142, comma 1; art. 147, art. 155, art. 118, comma 2, lettera h); art. 151, comma 2 e comma 4; art. 154, comma 1 e comma 3; art. 206, comma 1; art. 215, comma 5 e comma 12; art. 243, comma 1; art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, 202 e 208; art. 258; art. 264, commi 13, 14 e 16.

Con l'originale notificato del presente atto si depositano l'estratto della determinazione del Consiglio dei ministri del 27 marzo 2015 e le motivazioni di sintesi per l'impugnativa.

Roma, 30 marzo 2015

L'Avvocato dello Stato: Marrone