RICORSO N. 10 DEL 16 GENNAIO 2015 (DELLA REGIONE VENETO)

Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 16 gennaio 2015.

(GU n. 8 del 25.2.2015)

 

Proposto dalla regione Veneto (codice fiscale 80007580279 - partita IVA 02392630279), in persona del presidente della giunta regionale dott. Luca Zaia (codice fiscale ZAILCU68C27C957O), autorizzato con delibera della giunta regionale n. 2470 del 23 dicembre 2014 (allegato 1), rappresentato e difeso, per mandato a margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avvocati Ezio Zanon (codice fiscale ZNNZEI57L07B563K) coordinatore dell'avvocatura regionale, prof. Luca Antonini (codice fiscale NTNLCU63E27D869I) del foro di Milano e Luigi Manzi (codice fiscale MNZLGU34E15H501V) del foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5 (per eventuali comunicazioni: fax 06/3211370, posta elettronica certificata luigimanzi@ordineavvocatiroma.org.

Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro-tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, intitolato «Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attivita' produttive» come convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 (in supplemento ordinario n. 85, relativo alla Gazzetta Ufficiale 11 novembre 2014, n. 262):   art. 17, comma 1, lettera G, per violazione degli articoli 3, 23, 117, commi 3 e 4, 118, 119, 120 della Costituzione;   art. 35, commi 1, 2, 3, 4, 5, 8 e 9, per violazione degli articoli 3, 11, 117, commi 1, 3 e 4, 118, 119 e 120 della Costituzione;   art. 38, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 10, per violazione degli articoli 3, 9, 11, 32, 97, 117, I, III e IV comma, 118, 119, 120 della Costituzione;   art. 42, comma 1, per violazione degli articoli 3, 77, 117, III comma, 119, Costituzione e il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Costituzione.

 

Motivi

 

1) Illegittimita' costituzionale art. 17, comma 1, lettera G, per violazione degli articoli 3, 23, 117, commi 3 e 4, 118, 119, 120 della Costituzione.

L'art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia), nell'apportare numerose modifiche al testo unico edilizia (decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001), al comma 1, lettera g), contiene una serie di disposizioni che incidono sul contributo per il rilascio del permesso di costruire. In particolare al n. 3 della lettera g) viene introdotto (nuova lettera d-ter del comma 4 dell'art. 16 del testo unico edilizia) un criterio di valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. Viene altresi' stabilito che tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, venga suddiviso in misura non inferiore al 50% tra il comune e la parte privata ed erogato da quest'ultima, al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzarsi nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilita', edilizia residenziale sociale o opere pubbliche. Con riferimento a tale disciplina di calcolo del maggior valore, il nuovo comma 4-bis dell'art. 16 del testo unico edilizia (decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001) - che viene introdotto dal numero 3-bis) della lettera g) - fa salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali. La salvezza di tali disposizioni viene ribadita dal numero 4) della lettera g) dell'articolo che qui si censura, anche con riferimento all'utilizzo, da parte dei comuni, dei citati criteri nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della regione.

Il suddetto intervento normativo mira, in questi termini, a disciplinare la cd. perequazione inerente all'urbanistica contrattata, ovvero quella forma di perequazione che e' diretta alla riappropriazione di quota parte del valore che l'amministrazione determina con le decisioni in materia urbanistica. Tale quota viene ritenuta vuoi una sorta di prelievo fiscale addizionale diretto al parziale recupero del plusvalore fondiario, vuoi un contributo per il miglioramento delle citta' in corrispettivo dell'attribuzione di una maggiore edificabilita' o di un mutamento di destinazione urbanistica piu' favorevole (un esempio, a livello legislativo, si trova nell'art. 11, comma 5 della legge regionale lombarda n. 12/2005).

E' utile ricordare che su questa forma di perequazione e' intervenuta in piu' occasioni la giurisprudenza amministrativa con diverse pronunce, come ad esempio nel caso del piano regolatore di Roma, bocciato dal TAR Lazio e ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato (in altri casi, ad es. Cons. di Stato, sez. IV, n. 4833 del 2006, previsioni analoghe, anche se non speculari, sono state ritenute invece illegittime). Nella fattispecie si trattava delle previsioni del PRG che introducevano la possibilita' di attribuire un'edificabilita' aggiuntiva per mezzo di un meccanismo convenzionale che prevedeva la corresponsione di un contributo straordinario a favore del comune. Il Consiglio di Stato ritenne legittimo tale contributo, in quanto derivante da un accordo con il privato ed escludendo quindi il carattere di prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge di cui all'art. 23 della Costituzione. La pronuncia evidenziava, tuttavia «l'opportunita' che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell'ambito di una legge generale sul governo del territorio la cui adozione appare quanto mai auspicabile alla luce dell'inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico» (Cons. di Stato, sez. IV, n. 4544/2010).

E' questo quindi il contesto normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la disposizione impugnata, che introduce un «contributo straordinario» (che verra' dunque a far parte del contributo per il rilascio del permesso di costruire) parametrato alla valutazione del maggior valore generato dagli interventi in variante urbanistica.

La disposizione, introdotta in sede di conversione del decreto-legge n. 133/2014, cosi' come strutturata, risulta, tuttavia, viziata di incostituzionalita' sotto molteplici profili e palesemente irragionevole, non risolvendo in alcun modo l'esigenza prospettata dal Consiglio di Stato.

Innanzitutto, infatti, in base alla disposizione impugnata il contributo straordinario viene determinato autoritativamente, senza possibilita' di contrattazione da parte del privato, sia pure con riferimento alle tabelle parametriche regionali (se esistenti, ma la norma, come si e' visto - numero 4 della lettera g) -, attribuisce al comune la facolta' di determinazione autoritativa anche se queste non sono adottate), che in ogni caso lasciano ampi margini di discrezionalita' all'amministrazione.

Ma non solo.

Una volta determinato il maggior valore, la disposizione nulla dice in ordine alla ripartizione tra il comune e il privato. Essa, infatti, afferma che «tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, e' suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata», ma cosi' stabilendo implica che dopo aver individuato il maggior valore, dovra' essere definita una parte di esso non inferiore al 50%, e questa parte dovra' essere suddivisa tra il comune ed il privato, secondo una percentuale di ripartizione che la norma non individua. Con la conseguenza che la stessa norma potra' giustificare sia previsioni perequative che sequestrino pressoche' interamente il plusvalore, sia previsioni che lo lascino pressoche' interamente al privato.

Da questo punto di vista e' evidente la violazione dell'art. 23 Cost., dal momento che l'amplissima discrezionalita' amministrativa assegnata alle amministrazioni comunali non trova alcun adeguato contenimento nella base legislativa (cfr. al riguardo corte cost. sent. n. 435/2001).

Ma vi e' di piu'.

La norma, infatti, da un lato, si configura quale principio fondamentale in materia di urbanistica, ma nel contempo fa salve «le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali». Si tratta quindi di un principio fondamentale con una struttura del tutto irragionevole - poiche' lo scopo dei principi fondamentali dovrebbe essere quello di garantire l'uniformita' su tutto il territorio nazionale - al punto che un principio fondamentale cedevole rappresenta una contraddizione in termini, soprattutto considerando che nel caso di specie la cedevolezza e' disposta anche nei confronti di atti amministrativi, ovvero degli strumenti urbanistici generali comunali.

Sotto altro profilo, anche l'affermazione secondo cui il contributo straordinario «attesta l'interesse pubblico» appare irragionevole, perche' sovrappone l'interesse pubblico al pagamento del contributo straordinario allo specifico interesse pubblico urbanistico che deve sostenere la variante o la deroga. In altre parole, l'interesse pubblico deriva ora automaticamente dalla corresponsione del contributo straordinario e non piu' dalla valutazione della variante urbanistica o della deroga: in questi termini, con le perverse conseguenze che si possono facilmente immaginare anche in termini di rischi ambientali paesaggistici e idrogeologici, risultano legittimati interventi edilizi rivolti solo allo scopo dell'interesse fiscale senza piu' adeguata considerazione dell'interesse urbanistico.

La nuova norma prosegue poi precisando che il contributo straordinario potra' essere «erogato in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilita', edilizia residenziale sociale od opere pubbliche».

Si tratta di un periodo nel quale sembra difettare qualche congiunzione, essendo a quanto pare intenzione del legislatore stabilire un'alternativa tra il versamento finanziario e la cessione di aree o immobili (mentre e' difficile interpretarla nel senso che la cessione di aree o immobili sia riferita al centro di costo nel quale confluisce il finanziamento del privato: si sarebbe dovuto trattare di acquisizione - per il Comune - non di cessione, che riguarda invece la parte privata). In ogni caso al riguardo va ricordato che la giurisprudenza amministrativa (ad es. Cons. di Stato, sez. IV, n. 616 del 2014), ha ribadito con grande chiarezza che la perequazione non puo' servire ai comuni per finanziare qualsiasi opera pubblica purche' compresa nella programmazione triennale, essendo necessario invece che vengano finanziate opere «in prossimita'» dell'intervento (a pena altrimenti di determinare effetti perversi, perche' mentre l'intervento grava su una parte del territorio comunale, sara' un'altra parte a beneficiare delle opere rese possibili in correlazione con quell'intervento). Anche da questo punto di vista si evidenzia quindi l'irragionevolezza della disciplina.

Le suddette disposizioni impugnate pertanto si pongono in contrasto con la competenza concorrente regionale in materia di governo del territorio e urbanistica. Data l'amplissima discrezionalita' amministrativa che assegnano alle amministrazioni comunali si pongono altresi' in contrasto con il principio di ragionevolezza e con quello della riserva relativa di legge, la cui lesione ridonda in una lesione delle suddette competenze regionali. Le suddette norme risultano pertanto in violazione degli articoli 3, 23, 117, 3 e 4 comma, 118, 119, 120 Cost.

2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, commi 1, 2, 3, 5, 8 e 9 per violazione degli articoli 3, 11, 117, commi 1, 3 e 4, 118, 119 e 120 della Costituzione.

L'art. 35 del decreto-legge n. 133/2014, recante «Misure urgenti per la realizzazione su scala nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti per la gestione e per la tracciabilita' dei rifiuti nonche' per il recupero dei beni in polietilene», prevede disposizioni finalizzate alla realizzazione di una rete nazionale di impianti di incenerimento. A tal fine, in base al comma 1, viene demandata ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non solo l'individuazione degli impianti esistenti, ma anche quelli di incenerimento a recupero energetico da realizzare; sia i primi che i secondi, verranno qualificati come «infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell'ambiente».

Il comma 2 attiene al recupero della frazione organica dei rifiuti urbani (FORSU) raccolta in maniera differenziata. Con tale comma si introduce una disposizione che, per le medesime finalita' del comma precedente, prevede l'emanazione di un altro decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che dovra' effettuare la ricognizione dell'offerta esistente e individuare il fabbisogno residuo, articolato per regioni, di impianti di recupero della FORSU raccolta in maniera differenziata. Tale decreto dovra' essere emanato, su proposta del Ministro dell'ambiente, entro 180 giorni dall'entrata in vigore della presente legge di conversione. Lo stesso comma consente alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, sino alla definitiva realizzazione degli impianti necessari per l'integrale copertura del fabbisogno residuo cosi' determinato, di autorizzare, ove tecnicamente possibile, un incremento fino al 10% della capacita' degli impianti di trattamento dei rifiuti organici per favorire il recupero di tali rifiuti raccolti nel proprio territorio e la produzione di compost di qualita'.

Il comma 3 impone che tutti gli impianti (sia nuovi che esistenti) siano autorizzati a saturazione del carico termico, qualora sia stata valutata positivamente la compatibilita' ambientale dell'impianto in tale assetto operativo, incluso il rispetto delle disposizioni sulla qualita' dell'aria dettate dal decreto legislativo n. 155/2010. Inoltre impone l'adeguamento delle autorizzazioni integrate ambientali degli impianti esistenti entro 90 giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione, qualora la VIA (valutazione di impatto ambientale) sia stata autorizzata a saturazione del carico termico, tenendo in considerazione lo stato della qualita' dell'aria.

Il comma 4 prevede che tutti i nuovi impianti dovranno essere realizzati conformemente alla classificazione di impianti di recupero energetico di cui al punto R1 (nota 4), allegato C alla parte quarta del Codice dell'ambiente (decreto legislativo n. 152/2006).

Il comma 5 prevede che le autorita' competenti, entro il termine di 90 giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione verifichino, per gli impianti esistenti, la sussistenza dei requisiti per la loro qualifica di impianti di recupero energetico R1, revisionando in tal senso e nello stesso termine, quando ne ricorrano le condizioni, le autorizzazioni integrate ambientali.

Il comma 8 dispone che siano dimezzati, o ridotti a un quarto (se si tratta di procedura gia' in corso), i termini previsti per l'espletamento delle procedure di espropriazione per pubblica utilita' degli impianti di recupero da realizzare, nonche' siano perentori i termini previsti per VIA e AIA.

Il comma 9 prevede l'applicazione del potere sostitutivo in caso di mancato rispetto dei termini fissati dai commi 3, 5 e 8 per la verifica degli impianti e l'adeguamento delle autorizzazioni, nonche' dal comma 6 per l'accelerazione delle procedure autorizzative.

Si tratta di disposizioni che da diversi punti di vista violano le competenze costituzionalmente attribuite alle regioni e che, irragionevolmente favorendo la prospettiva dell'incenerimento (dal 1995 negli Stati Uniti non si costruiscono piu' impianti di questo tipo, preferendo le politiche di riduzione, riuso, riciclaggio e recupero) a discapito dell'economia del riciclo, della ricerca e della prevenzione dei rifiuti richiesta dalle direttive comunitarie, non tengono minimamente conto che il quadro impiantistico sull'incenerimento in Italia e' ormai saturo: ci sono regioni dove la potenzialita' impiantistica di combustione dei rifiuti e' sovradimensionata e quindi dovra' essere ridotta, dismettendo, senza sostituirli, gli impianti piu' vecchi; ci sono regioni, soprattutto al centro sud, dove sono stati costruiti nell'ultimo decennio numerosi impianti per bruciare i rifiuti, colmando il deficit impiantistico; ci sono regioni dove i risibili quantitativi di rifiuti in gioco rendono superfluo realizzare un impianto dedicato. In questo nuovo scenario non ha piu' senso un programma nazionale per implementare e accelerare la costruzione di nuovi impianti di combustione dei rifiuti. Soprattutto questa prospettiva non considera adeguatamente l'intervenuto incremento della raccolta differenziata finalizzata al riciclaggio, che ha sostenuto sempre di piu' la filiera industriale del recupero delle materie prime seconde e ha notevolmente ridimensionato il bisogno, per la chiusura del ciclo nei vari territori, del recupero energetico da combustione di rifiuti urbani non altrimenti riciclabili. L'aumento del riciclaggio e il trend di riduzione della produzione dei rifiuti rendera' quindi sempre piu' problematica l'alimentazione di impianti «rigidi» come gli inceneritori che notoriamente non possono essere modulati nel flusso di rifiuti alimentati al forno e che quindi sono un evidente problema per l'auspicata massimizzazione del riciclo e dello sviluppo delle politiche di prevenzione.

Cio' premesso, riguardo a tali disposizioni, si precisa innanzitutto che il comma 1 riproduce, ma solo in parte, quanto previsto, all'intento di una ben piu' articolata disciplina, dalla lettera i) del comma 1 dell'art. 195 del decreto legislativo n. 152/2006 (d'ora in poi testo unico ambiente), che gia' prevedeva «l'individuazione, nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle regioni, degli impianti di recupero e di smaltimento di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del paese, sentita la Conferenza unificata, a mezzo di un programma, adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e inserito nei documenti di programmazione economico-finanziaria con indicazione degli stanziamenti necessari per la loro realizzazione. Nell'individuare le infrastrutture e gli insediamenti strategici di cui al presente comma il Governo procede secondo finalita' di riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale. Il Governo indica nel disegno di legge finanziaria ai sensi dell'art. 11, comma 3, lettera i-ter), della legge 5 agosto 1978, n. 468, le risorse necessarie, anche ai fini dell'erogazione dei contributi compensativi a favore degli enti locali, che integrano i finanziamenti pubblici, comunitari e privati allo scopo disponibili».

Tale disposizione, quindi, nell'individuare le infrastrutture e gli insediamenti strategici da realizzare, prevedeva che il Governo procedesse indicando nel disegno di legge finanziaria gli stanziamenti necessari per la loro realizzazione, anche ai fini dell'erogazione dei contributi compensativi a favore degli enti locali. Inoltre, alla lettera g), l'art. 195 stabiliva, in termini piu' generali, che lo Stato determinasse «garanzie finanziarie in favore delle regioni». Nulla al riguardo viene invece previsto nella nuova formulazione che produce quindi anche nuovi oneri a carico del sistema regionale, in violazione dell'art. 119 cost., anche in forza dell'incidenza dell'intervento governativo sui fondi gia' stanziati dalla regione per la predisposizione dei Piani regionali di gestione dei rifiuti.

Inoltre, se l'art. 195 del testo unico ambiente includeva l'individuazione di impianti di recupero e di smaltimento da realizzare di preminente interesse nazionale tra le competenze statali in materia di rifiuti, nel successivo art. 196 del testo unico ambiente venivano poi indicate le competenze affidate alle regioni, quali la pianificazione regionale della gestione dei rifiuti, la regolamentazione delle attivita' di gestione dei rifiuti, l'approvazione dei progetti di nuovi impianti per la gestione di rifiuti, l'autorizzazione all'esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero di rifiuti (fatta salva la disciplina in materia di AIA), nonche' la definizione di criteri per l'individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, nel rispetto dei criteri generali fissati a livello statale.

Nella differenza tra il testo del testo unico ambiente e quello impugnato, che si limita a prevedere che il d.pc.m. di cui al comma 1 sia emanato solo «tenendo conto della pianificazione regionale», si precisa quindi ulteriormente la censura di incostituzionalita' di una disciplina che attenendo a impianti di incenerimento con recupero energetico, si inserisce anche nell'ambito della materia «produzione dell'energia» di cui al comma 3 dell'art. 117 Cost.

Il nuovo testo, infatti, anche nonostante la suddetta nuova esplicita implicazione con la materia della produzione dell'energia, non contiene piu' quella vera e propria clausola di «salvezza» («nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle regioni») - cosi' questa ecc.ma Corte costituzionale la defini' nella sentenza n. 249 del 2009 - che invece era contenuta nella lettera f) dell'art. 195 del testo unico ambiente.

Non si tratta di mera questione formale, in quanto la generalizzata qualificazione degli impianti di incenerimento sia esistenti che da realizzare, come «infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell'ambiente» determina una evidente sovrapposizione con numerose competenze costituzionalmente attribuite alle regioni in materia di tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione dei beni ambientali, di turismo, ecc.

In particolare la nuova disciplina risulta violare quanto stabilisce l'art. 196 del testo unico ambiente come competenze delle regioni. In primis la stessa funzione di pianificazione, che prevede che le regioni adottino, coinvolgendo province e comuni, i piani regionali di gestione dei rifiuti e procedano a programmare la tipologia ed il complesso degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti urbani da realizzare nella regione (art. 196, lettera a). Inoltre, il potere regionale di definizione di criteri (nell'ambito dei criteri generali stabiliti dallo Stato, art. 195, comma 1, lettera p) per l'individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti (art. 196, comma 1, lettera n), nonche' la definizione dei criteri per l'individuazione dei luoghi o impianti idonei allo smaltimento (art. 196, comma 1, lettera o) (si veda al riguardo Corte cost. sent. n. 285 del 2013). Al riguardo e' utile ricordare che questa ecc.ma Corte nella sentenza n. 314 del 2009, dopo aver precisato che: «La disciplina statale dei rifiuti, collocandosi nell'ambito della "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema" - di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. - costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino» (sentenze n. 62 del 2008 e n. 378 del 2007), ha tuttavia nel contempo chiarito: «resta, peraltro, ferma la competenza delle regioni per la cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali: infatti, anche nel settore dei rifiuti, accanto ad interessi inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente, vengono in rilievo altre materie, per cui la competenza statale non esclude la concomitante possibilita' per le regioni di intervenire, ovviamente nel rispetto dei livelli uniformi di tutela apprestati dallo Stato (da ultimo, sentenza n. 249 del 2009). La localizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti sul territorio, nel rispetto dei criteri tecnici fondamentali stabiliti dagli organi statali (fissati in attuazione dell'art. 195 del decreto legislativo n. 152 del 2006), che rappresentano soglie inderogabili di protezione ambientale, attiene al "governo del territorio"». Concludeva quindi la sentenza ritenendo che «la disciplina dettata dalla disposizione regionale risponde ad esigenze di coordinamento territoriale e non appronta una disciplina dei rifiuti di minor rigore rispetto a quella statale».

In definitiva, un'ampia gamma di poteri regionali, anche potenzialmente rivolti a stabilire criteri di tutela dell'ambiente piu' rigorosi di quelli statali, risulta travolta dalla pretesa costituzione di un sistema nazionale di impianti di incenerimento che non contiene piu' la sopra citata clausola di «salvezza» delle competenze regionali.

A questo riguardo, a titolo esemplificativo, si evidenzia il contrasto con le disposizioni legislative della regione Veneto: legge regionale n. 3 del 21 gennaio 2000 e n. 52 del 31 dicembre 2012, anche in considerazione del fatto che quest'ultima prevede, fra l'altro, all'art. 6 (Nuovi impianti di trattamento termico per rifiuti solidi. Disposizioni transitorie): «1. Nelle more dell'approvazione del nuovo piano regionale per la gestione dei rifiuti urbani e speciali, come previsto dalla legge regionale 21 gennaio 2000, n. 3, che definisce il fabbisogno gestionale di recupero e smaltimento dei rifiuti, non puo' essere autorizzato l'avvio e l'ampliamento di nuovi impianti di trattamento termico per rifiuti solidi urbani in Veneto».

Il comma 1 dell'art. 35 del decreto-legge n. 133/2014, per questi motivi, si pone in contrasto: con l'art. 3 della Costituzione, nella misura in cui irragionevolmente favorisce la prospettiva dell'incenerimento a discapito dell'economia del riciclo - e tale violazione ridonda sulle competenze regionali, anche di programmazione, in materia di tutela della salute, di governo del territorio, di valorizzazione dei beni ambientali, di turismo, ecc.; nonche' con gli articoli 117, III e IV comma, 118 (quanto alla competenza regionale sui piani rifiuti) e 119 della Costituzione.

In questa prospettiva, risulta evidente anche la violazione del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost., perche' la semplice previsione che sia «sentita» la Conferenza Stato-regioni, rappresenta rispetto alla nuova e ben piu' invasiva disciplina, che riguarda anche la produzione di energia, una forma di coinvolgimento delle regioni che si rivela del tutto inadeguata, incidendo la predetta disciplina significativamente sulle suddette competenze regionali. Si ricorda al riguardo che questa ecc.ma Corte nella sent. n. 383 del 2005 ha precisato che: «La predisposizione di un programma di grandi infrastrutture per le finalita' indicate dalla disposizione impugnata implica necessariamente una forte compressione delle competenze regionali non soltanto nel settore energetico ma anche nella materia del governo del territorio, di talche', come gia' sottolineato nel par. 15, e' condizione imprescindibile per la legittimita' costituzionale dell'attrazione in sussidiarieta' a livello statale di tale funzione amministrativa, la previsione di un'intesa in senso forte con le regioni nel cui territorio l'opera dovra' essere realizzata» (cfr. inoltre, sentenze n. 179/2012 e n. 39 del 2013).

Ma vi e' di piu'.

La disposizione del comma 1, infatti, pur prevedendo l'individuazione di un sistema integrato nazionale di gestione dei rifiuti urbani e speciali mediante impianti di recupero energetico, ovvero un vero e proprio atto di pianificazione in materia di gestione dei rifiuti, non ne prevede l'assoggettamento ad autorizzazione ambientale strategica (VAS), in violazione dell'art. 3 (1. I piani e i programmi di cui ai paragrafi 2, 3 e 4, che possono avere effetti significativi sull'ambiente, sono soggetti ad una valutazione ambientale ai sensi degli articoli da 4 a 9) e seguenti della direttiva 2001/42/CE.

Tale direttiva - rivolta a imporre che gli effetti ambientali di piani e programmi vengano considerati «a monte», consentendo, se necessario, di ricorrere a misure di mitigazione definite attraverso consultazioni con le altre autorita' competenti nonche' con le parti interessate anche attraverso lo svolgimento di consultazioni e informative e quindi a tempo debito e non solo in fasi in cui le possibilita' di apportare cambiamenti sensibili sono spesso limitate - e' stata recepita dall'Italia con il testo unico ambiente, mentre la disposizione del comma 1 del decreto-legge n. 133/2014 assume un carattere derogatorio non consentito ne' dal suddetto testo unico ambiente, ne' dalla citata direttiva (peraltro, sulla non assimilazione di oggetto tra VAS e VIA si ricordano le pronunce di questa ecc.ma Corte n. 58 del 2013 e n. 197 del 2014).

In questi termini si determina una violazione degli articoli 11 e 117, I comma della Costituzione, che ridonda evidentemente nella lesione delle sopramenzionate competenze costituzionalmente assegnate alle regioni, anche inerenti lo stesso procedimento di VAS (cfr. legge regionale Veneto n. 11 del 2004; articoli 4 e 141 legge regionale n. 4 del 2008; art. 40 legge regionale n. 13 del 2012), dal momento che la individuazione degli impianti non potra' avvenire nel rispetto delle procedure di tutela prescritte dalla normativa comunitaria.

Quanto al comma 2 dell'art. 35 del decreto-legge n. 133/2014, che prevede l'emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri diretto a effettuare la ricognizione dell'offerta esistente e individuare il fabbisogno residuo, articolato per regioni, di impianti di recupero della FORSU raccolta in maniera differenziata, si evidenzia che tale disposizione in modo irragionevole ed illegittimo non prevede alcuna forma di coinvolgimento delle regioni e quindi estromette la programmazione regionale della pretesa definizione dell'offerta esistente su tutto il territorio nazionale. Risulta quindi violato il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione.

Quanto ai commi 3 e 5 con cui il legislatore statale impone unilateralmente che tutti gli impianti (sia nuovi che esistenti) di recupero energetico da rifiuti siano autorizzati a saturazione del carico termico, con conseguente adeguamento delle autorizzazioni integrate ambientali, prevendendo, nel caso del mancato rispetto dei termini l'intervento (comma 9) del potere sostitutivo statale (secondo l'art. 8 della legge n. 131/2003), essi si pongono in contrasto, per i motivi sopra indicati, con le competenze regionali relative a tutela della salute, governo del territorio, valorizzazione dei beni ambientali, turismo, di cui agli articoli 117, 3 e 4 comma e 118 Cost., nonche' con il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost.

Quanto al comma 4, che impone che tutti i nuovi impianti dovranno essere realizzati conformemente alla classificazione di impianti di recupero energetico di cui al punto R1 (nota 4), allegato C alla parte quarta del Codice dell'ambiente (decreto legislativo n. 152/2006), esso si pone in contrasto con gli articoli 117, 3 comma, e 119 Cost., dal momento che, a fronte di tale obbligo, illegittimamente imposto stante la competenza regionale concorrente in materia di energia, non vengono previste garanzie finanziarie a favore delle regioni.

Quanto al comma 8, che dispone la riduzione (pena l'esercizio del potere sostitutivo statale), in vista dell'irragionevole accelerazione nella realizzazione degli inceneritori di cui al comma 1, alla meta' o addirittura a un quarto (se si tratta di procedura gia' in corso), dei termini previsti per l'espletamento delle procedure di espropriazione per pubblica utilita' degli inceneritori da realizzare, nonche' che siano perentori i termini previsti per VIA e AIA, si tratta di una disposizione dall'effetto generalizzato che, da un lato, coinvolgendo tutte le fasi del procedimento espropriativo, travolge tutte le differenti previsioni adottate (legittimamente ai sensi dell'art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001), nei vari settori, dalla legislazione regionale e che, dall'altro, facendo riferimento ai procedimenti in corso, determina una irragionevole violazione del principio di legittimo affidamento che ridonda anch'essa nella violazione delle competenze regionali in materia di governo del territorio. La disposizione si pone pertanto in contrato con gli articoli 3 e 117, 3 comma, della Costituzione.

3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 38, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 10, violazione degli articoli 3, 9, 11, 32, 97, 117, I, III e IV comma, 118, 119 e 120 della Costituzione.

L'art. 38, recante (Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali) qualifica le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale come attivita' di interesse strategico, di pubblica utilita', urgenti e indifferibili. Vengono inoltre stabilite nuove regole per il conferimento di titoli minerari, in modo da ridurre i tempi necessari per il rilascio dei titoli abilitativi per la ricerca e la produzione di idrocarburi, prevedendo il rilascio di un titolo concessorio unico. Si modifica inoltre la disciplina che consente lo svolgimento di attivita' mineraria in forma sperimentale.

Piu' precisamente, il comma 1 qualifica le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale come attivita':   a) di interesse strategico;   b) di pubblica utilita', urgenti e indifferibili.

Di conseguenza i relativi titoli abilitativi comportano:   a) la dichiarazione di pubblica utilita', indifferibilita' ed urgenza dell'opera;   b) l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio dei beni in essa compresi;   c) e, per quanto disposto dal comma 2, se le opere da eseguire comportano variazione degli strumenti urbanistici, hanno effetto di variante urbanistica.

Il comma 1-bis demanda al Ministero dello sviluppo economico, sentito il Ministero dell'ambiente, la predisposizione di un piano delle aree in cui sono consentite le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale. Il piano, per le attivita' sulla terraferma, e' adottato previa intesa con la Conferenza unificata. In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, si provvede con le modalita' di cui all'art. 1, comma 8-bis, della legge n. 239/2004. Nelle more dell'adozione del piano i titoli abilitativi di cui al comma 1 sono rilasciati sulla base delle norme vigenti prima della data di entrata in vigore della disposizione.

Il comma 3 trasferisce dalle regioni al Ministero dell'ambiente la competenza al rilascio del provvedimento di VIA (valutazione di impatto ambientale) relativamente ai progetti relativi ad attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sulla terraferma.

Il comma 4 contiene una norma transitoria destinata a disciplinare gli effetti dello spostamento di competenze operato dal comma 3 sui procedimenti di VIA in corso presso le regioni alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge. Per tali procedimenti viene previsto che se la regione non conclude il procedimento entro il 31 marzo 2015, la stessa dovra':   a) provvedere alla trasmissione di tutta la documentazione al Ministero dell'ambiente per i seguiti istruttori di competenza;   b) darne notizia al Ministero dello sviluppo economico.

Il comma 5 modifica la disciplina per il conferimento di titoli minerari, con specifico riguardo al rilascio dei titoli abilitativi per la ricerca e la produzione di idrocarburi, introducendo un «titolo concessorio unico» in luogo di due titoli distinti (permesso di ricerca e concessione di coltivazione). Si prevede che il titolo sia rilasciato sulla base di un programma generale di lavori articolato nelle seguenti fasi:   a) fase di ricerca, della durata di sei anni, prorogabile due volte per un periodo di tre anni nel caso sia necessario completare le opere di ricerca;   b) fase di coltivazione (nel caso in cui la prima fase abbia condotto al rinvenimento di un giacimento riconosciuto tecnicamente ed economicamente coltivabile da parte del Ministero dello sviluppo economico), della durata di trenta anni, da prorogare per una o piu' volte per un periodo di dieci anni, ove siano stati adempiuti gli obblighi derivanti dal decreto di concessione e il giacimento risulti ancora coltivabile. Inoltre, viene altresi' previsto che la proroga della fase di coltivazione da parte del Ministero per lo sviluppo economico non sia piu' automatica, ma subordinata al caso di rinvenimento di un giacimento tecnicamente ed economicamente coltivabile, riconosciuto dal Ministero dello sviluppo economico;   c) fase di ripristino finale.

Secondo il comma 6, il titolo concessorio unico e' accordato:   a) con decreto del Ministero dello sviluppo economico, sentita la Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie e le Sezioni territoriali dell'Ufficio nazionale minerario idrocarburi e georisorse, d'intesa, per le attivita' da svolgere in terraferma, con la regione o la provincia autonoma di Trento o di Bolzano territorialmente interessata;   b) a seguito di un procedimento unico svolto nel termine di centottanta giorni tramite apposita Conferenza di servizi, nel cui ambito e' svolta anche la valutazione ambientale strategica del programma complessivo dei lavori. Si specifica che la valutazione ambientale preliminare e' svolta entro 60 giorni con parere della Commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale VIA/VAS del MATTM. Si ribadisce anche che per il decreto ministeriale di rilascio del titolo per le attivita' in terraferma, e' necessaria la previa intesa con la regione.

Il comma 8 dispone l'applicazione delle nuove norme sul titolo concessorio unico anche ai titoli rilasciati successivamente alla data di entrata in vigore del Codice ambientale e ai procedimenti in corso, su istanza del titolare o del richiedente, da presentare entro 90 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto in commento, facendo salva con riguardo all'applicazione delle disposizioni sui procedimenti di VIA in corso presso le regioni, l'opzione, da parte dell'istante, di proseguimento del procedimento di valutazione di impatto ambientale presso la regione, da esercitarsi entro trenta giorni dal medesimo termine.

Il comma 10 integra l'art. 8 del decreto-legge n. 112/2008, che stabiliva precisi divieti e condizioni, per rendere ora possibili, e per assicurare il relativo gettito fiscale allo Stato, progetti sperimentali di coltivazione di giacimenti di idrocarburi in mare in ambiti posti in prossimita' delle aree di altri Paesi rivieraschi oggetto di attivita' di ricerca e coltivazione di idrocarburi.

I progetti sperimentali: a) sono autorizzati dal Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentite le regioni interessate; b) sono corredati sia da un'analisi tecnico-scientifica, che deve avvenire mediante VIA, sull'assenza di effetti di subsidenza dell'attivita' sulla costa, sull'equilibrio dell'ecosistema e sugli insediamenti antropici, sia da progetti e programmi di monitoraggio e verifica, da condurre sotto il controllo del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Si prevede poi che qualora, nel corso delle attivita' di verifica vengano accertati fenomeni di subsidenza sulla costa determinati dall'attivita', il programma dei lavori e' interrotto e l'autorizzazione alla sperimentazione decade. Qualora invece, al termine del periodo di validita' dell'autorizzazione, venga accertato che l'attivita' e' stata condotta senza effetti di subsidenza dell'attivita' sulla costa, nonche' sull'equilibrio dell'ecosistema e sugli insediamenti antropici, il periodo di sperimentazione puo' essere prorogato per ulteriori cinque anni, applicando le medesime procedure di controllo. Infine si prevede, che nel caso di attivita' di cui sopra, ai territori costieri non solo le regioni, ma anche gli altri enti locali territorialmente interessati, abbiano diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi generali di politica energetica nazionale.

Nel complesso si tratta di disposizioni che, da un lato, favoriscono di fatto una nuova e irragionevole colonizzazione del territorio e del mare italiano da parte dell'industria petrolifera, e dall'altro che espongono il territorio italiano, ad ulteriori rischi geologici e ambientali, e marginalizzano, in modo costituzionalmente illegittimo, il ruolo delle regioni. Si apre cosi' il rischio di una nuova ondata di trivellazioni con irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali. Nonostante i noti rischi di incidenti e di inquinamento legati alle trivellazioni, ad, esempio, ma non solo, come quello avvenuto nel Golfo del Messico nel 2010, si mettono quindi a rischio aree di pregio naturalistico e paesaggistico e fiorenti attivita' economiche legate al turismo e alla pesca, con lo scopo di estrarre idrocarburi di dubbia qualita' che agli attuali tassi di consumo, valutate le riserve certe a terra e a mare censite dal Ministero dello sviluppo economico (vedi infra), potrebbero (prelevando tutte le riserve del sottosuolo) coprire il fabbisogno nazionale per un periodo non superiore ad un anno.

Cio' premesso, occorre ricordare che l'art. 117, comma 3, Cost., ascrive alla competenza concorrente la «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia» e non gia' le attivita' di ricerca e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, che, in quanto tali, non sarebbero produttive di energia e che quindi dovrebbero collocarsi nell'ambito della competenza residuale di cui al IV comma dell'art. 117 Cost.

In ogni caso, anche a voler ritenere la materia in oggetto rientrante in quella di cui al terzo comma dell'art. 117 Cost., occorre innanzitutto ricordare che questa ecc.ma Corte costituzionale nella sentenza n. 383 del 2005 ha stabilito, in questo ambito, la necessita' di un'«intesa in senso forte» per giustificare un'attrazione nella competenza statale quale quella disposta dalle norme impugnate. Infatti: «Se dunque non sembrano esservi problemi al fine di giustificare in linea generale disposizioni legislative come quelle in esame dal punto di vista della ragionevolezza della chiamata in sussidiarieta', in capo ad organi dello Stato, di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello nazionale, al fine di assicurare il loro indispensabile esercizio unitario, resta invece da verificare analiticamente se sussistano le altre condizioni che la giurisprudenza di questa Corte ha individuato come necessarie perche' possa essere costituzionalmente ammissibile un meccanismo istituzionale del genere, che oggettivamente incide in modo significativo sull'ambito dei poteri regionali. In particolare, come questa Corte ha gia' chiarito nella sentenza n. 6 del 2004, e' necessario che la legislazione "detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tal fine"; inoltre, "essa deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l'esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate agli organi centrali". Infatti, nella perdurante assenza di ogni innovazione nei procedimenti legislativi statali diretta ad assicurare il necessario coinvolgimento delle regioni, la legislazione statale che preveda e disciplini il conferimento delle funzioni amministrative a livello centrale nelle materie affidate alla potesta' legislativa regionale "puo' aspirare a superare il vaglio di legittimita' costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attivita' concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealta'" (sentenza n. 303 del 2003)». (cfr, inoltre cent. n. 179/2012 e 39 del 2013).

Al contrario di quanto esplicitamente, quindi, stabilito dalla giurisprudenza di questa ecc.ma Corte sulla necessita' di un coinvolgimento forte delle regioni, il comma 1 dell'art. 38 con decisione unilaterale dello Stato, in assenza di un adeguato elemento di leale collaborazione capace di legittimare tale intervento normativo, attrae nella competenza statale le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, e la disciplina dei relativi titoli abilitativi, definendoli di interesse strategico, di pubblica utilita', urgenti e indifferibili, con violazione quindi degli articoli 117, comma 3, e 118, in materia di produzione di energia e 120 della Costituzione.

Il comma 1-bis (anche nella versione modificata dall'art. 1, comma 554, della legge n. 190/2014) prevede, inoltre, che, senza adeguato coinvolgimento delle regioni, sia il Ministro dello sviluppo economico con proprio decreto, sentito il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, a predisporre il piano delle aree in cui sono consentite le attivita' di cui al comma 1. Solo per le attivita' su terraferma, il piano e' adottato (questa previsione e' stata appunto aggiunta dalla legge n. 190 del 2014) previa intesa con la Conferenza unificata, specificando tuttavia che in caso di mancato raggiungimento dell'intesa, si provveda con le modalita' di cui all'art. 1, comma 8-bis, della legge n. 239/2004. Al riguardo occorre evidenziare come sebbene per le attivita' in terraferma sia prevista ora una intesa con le regioni, si tratta in ogni caso di una intesa debole; si tratta quindi di un coinvolgimento delle stesse non proporzionato alla tutela degli interessi in gioco in una materia cosi' inerente, da diversi profili, alle competenze regionali in materia tutela della salute, governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, produzione di energia (cfr. al riguardo sent. n. 6 del 2004, dove questa ecc.ma Corte ha precisato l'esigenza di intese «forti» «a causa del particolarissimo impatto che una struttura produttiva di questo tipo ha su tutta una serie di funzioni regionali relative al governo del territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, al turismo, etc.»). Nessuna intesa viene poi prevista per attivita' in mare, nonostante questa ecc.ma Corte in piu' occasioni (cfr. ad esempio sent. n. 102 del 2008) abbia precisato «Il mare, infatti, ben puo' essere oggetto della legislazione regionale; come avviene, ad esempio, per le regioni a statuto ordinario, nell'ambito della competenza concorrente in materia di porti o di grandi reti di navigazione». La disposizione del comma 1-bis si pone quindi in violazione degli articoli 117, 3 comma, e 118, in materia di produzione di energia e 120 della Costituzione.

Ma vi e' di piu'.

Come gia' rilevato in relazione al comma 1 dell'art. 35, anche la disposizione del comma 1-bis dell'art. 38, infatti, pur prevedendo un vero e proprio atto di pianificazione delle aree in cui sono consentite le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, non ne stabilisce l'assoggettamento ad autorizzazione ambientale strategica (VAS), in violazione dell'art. 3 e seguenti della direttiva 2001/42/CE. Anche in questo caso, quindi, per le analoghe argomentazioni esposte in relazione al comma 1 dell'art. 35, si determina una violazione degli articoli 11 e 117, I comma della Costituzione, che ridonda evidentemente nella lesione delle competenze costituzionalmente assegnate alle regioni riguardo alla tutela della salute, del governo del territorio, alla valorizzazione dei beni ambientali e culturali e anche inerenti lo stesso procedimento di VAS (cfr. I. regione Veneto n. 11 del 2004; articoli 4 e 14, legge regione n. 4 del 2008; art. 40, legge regionale n. 13 del 2012), dal momento che la individuazione delle aree, proprio in relazione ad un'attivita' a forte impatto ambientale, non potra' avvenire nel rispetto delle procedure di tutela prescritte dalla normativa comunitaria.

Il comma 2, inoltre prevede che se le opere da eseguire comportano variazione degli strumenti urbanistici, i suddetti titoli abilitativi abbiano effetto di variante urbanistica, senza considerare quanto affermato da questa ecc.ma Corte nella sentenza n. 340 del 2009, per la quale: «Ai sensi dell'art. 117, terzo comma, ultimo periodo, Cost., in tali materie lo Stato ha soltanto il potere di fissare i principi fondamentali, spettando alle regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio. La relazione tra normativa di principio e normativa di dettaglio va intesa nel senso che alla prima spetta prescrivere criteri ed obiettivi, essendo riservata alla seconda l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi (ex plurimis: sentenze n. 237 e n. 200 del 2009). Orbene la norma in esame, stabilendo l'effetto di variante sopra indicato ed escludendo che la variante stessa debba essere sottoposta a verifiche di conformita' ... introduce una disciplina che non e' finalizzata a prescrivere criteri ed obiettivi, ma si risolve in una normativa dettagliata che non lascia spazi d'intervento al legislatore regionale, ponendosi cosi' in contrasto con il, menzionato parametro costituzionale (sentenza n. 401 del 2007).». Tale disposizione si pone quindi in palese violazione degli articoli 117, comma 3, e 118, in materia di urbanistica nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost.

Quanto al comma 3 dell'art. 38, esso modifica il decreto legislativo n. 152/2006, che attribuiva al Ministero dell'ambiente la competenza al rilascio del provvedimento di VIA solo per i progetti off-shore, cioe' relativi ad attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione in mare e sottrae integralmente alla competenza regionale della VIA i progetti relativi ad attivita' di coltivazione sulla terraferma degli idrocarburi liquidi e gassosi. A questo riguardo occorre precisare che la valutazione di impatto ambientale costituisce indubbiamente una materia «intrinsecamente trasversale», essendo correlata in modo piu' che rilevante al governo del territorio e alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, entrambi aspetti affidati alla competenza concorrente. Questa ecc.ma Corte ha infatti evidenziato: «La materia tutela dell'ambiente ha natura intrinsecamente trasversale, con la conseguenza che, in ordine alla stessa, si manifestano competenze diverse che ben possono essere anche di tipo regionale. La trasversalita' della materia emerge con particolare evidenza con riguardo alla valutazione ambientale strategica, che abbraccia anche settori di sicura competenza regionale» (sentenza n. 398 del 2006). Peraltro, alle regioni e' in ogni caso riconosciuta, come chiarito da questa ecc.ma Corte, nell'esercizio delle loro competenze che interferiscano con la tutela dell'ambiente, la potesta' di determinare una elevazione degli stessi (sent. n. 93 del 2013). Gia' prima della riforma del titolo V del 2001 il decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile del 1996, recante «Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della legge n. 146 del 1994, concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale», stabiliva criteri e norme tecniche per l'applicazione della procedura di VIA a livello regionale e prevedeva che le regioni stesse, attraverso l'emanazione di proprie leggi e regolamenti, implementassero e integrassero la normativa nazionale della valutazione di impatto ambientale. Inoltre, in forza dell'art. 71 del decreto legislativo n. 112 del 1999, molte categorie di progetti rientrarono nella competenza regionale, a condizione che queste ultime provvedessero all'adozione di una mirata e specifica normativa in materia di VIA. La competenza regionale quanto al procedimento di VIA e' stata poi confermata dal testo unico ambiente, in base al quale le regioni sono tenute, per un verso, a rispettare i livelli uniformi di tutela apprestati in materia, per l'altro, a mantenere la propria legislazione negli ambiti di competenza fissati dal testo unico ambiente. In particolare, in base all'art. 7, comma 4, del testo unico ambiente, «sono sottoposti a VIA secondo le disposizioni delle leggi regionali i progetti di cui agli allegati III e IV al decreto legislativo n. 152 del 2006». Il comma 3, pertanto, sottraendo ora integralmente alla competenza regionale della VIA i progetti relativi ad attivita' di coltivazione sulla terraferma degli idrocarburi liquidi e gassosi, all'evidente scopo di ridurre la tutela ambientale in ambiti strettamente connessi alle competenze regionali, determina una violazione degli articoli 117, 3 e 4 comma, e 118 della Costituzione in materia di tutela della salute, governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, produzione di energia.

Ma non solo.

Il successivo comma 4 stabilisce che le procedure di valutazione di impatto ambientale per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi a terra che siano state avviate dalla regione, se non completate entro il 31 marzo 2015 debbano essere avocate dallo Stato e trasmesse automaticamente al Ministero dell'ambiente. Il legislatore statale pretende quindi che i procedimenti di VIA avviati dalla regione, sulla base di norme diverse per ogni amministrazione e che quindi prevedono modalita' diverse di svolgimento e di assunzione delle decisioni finali abbiano a cessare «per decorrenza dei termini» passando automaticamente nella mani del Ministero dell'ambiente.

Quanto previsto avra' come conseguenze un forte e irragionevole aggravio del lavoro della Commissione VIA nazionale: infatti, a quanto risulta dai dati ufficiali, sono 173 i progetti a terra che con l'attuale legislazione, devono ottenere la VIA regionale (68 istanze di permessi di ricerca, 96 permessi di ricerca, 9 istanze di concessione a coltivazione). Si tratta quindi di una disposizione sulla quale non solo si riflettono, per gli stessi motivi esposti, le censure dedotte in relazione al comma 3 del medesimo articolo, ma si rispetto alla quale si evidenzia un'ulteriore vizio di irragionevolezza e di difetto di proporzionalita', ex articoli 3 e 97 Cost., anche conseguente al carattere retroattivo della disposizione, attuata anche in questo caso in violazione del principio di leale collaborazione e con una evidente ricaduta sulle prime evidenziate competenze regionali.

Quanto al comma 5, che prevede l'introduzione di un «titolo concessorio unico» in luogo di due titoli distinti (permesso di ricerca e concessione di coltivazione), rilasciato con decreto del Ministro dello sviluppo economico sulla base di un programma generale di lavori articolato nelle fase di ricerca, fase di coltivazione e fase di ripristino, esso supera la tradizionale distinzione tra le fasi di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi prevista dalle leggi n. 9/1991, n. 239/2004 e dal decreto legislativo n. 625/1996 - che costituisce peraltro attuazione della direttiva 94/22/CE. Infatti, in base a tali disposizioni (art. 8, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 484; art. 6, comma 4, della legge n. 9/1991, nonche', per la terraferma, l'art. 1, comma 7, lettera n) della legge n. 239/2004) il permesso di ricerca e' rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali, regionali e locali interessate (art. 1, commi 77 e 79 della legge n. 239/2004), e in esso il permissionario s'impegna ad effettuare lavori per l'individuazione di un eventuale giacimento coltivabile presente nell'area richiesta. Le operazioni ammesse sul campo e descritte nel programma dei lavori approvato all'atto del rilascio, sono ricerche geofisiche e perforazioni di ricerca. In caso di ritrovamenti di idrocarburi possono essere anche ammesse delle produzioni, ma solo strettamente finalizzate alle valutazioni del giacimento e dei suoi prodotti, essenziali per la richiesta della concessione di coltivazione. La concessione di coltivazione e' invece l'atto con cui al concessionario, a seguito di un ritrovamento positivo che egli stesso ha ottenuto, e' dato il diritto di produrre in base ad un programma di sviluppo del giacimento approvato all'atto del rilascio della concessione. L'attivita' principale nella concessione e' la coltivazione del giacimento, cioe' la produzione, con l'obiettivo di massimizzarla. Nella nuova disciplina, invece, i poteri concessori vengono attribuiti ben prima della dimostrazione dell'utilita' generale, in quanto non e' ancora stato scoperto il giacimento; inoltre il contenuto del programma dei lavori, che deve essere predisposto prima dell'attivita' di ricerca, difficilmente potra' specificare in maniera puntuale le singole aree interessate dalla ricerca e successiva coltivazione (cfr. allegato n. 1 dossier Senato, pag. 593, dove si rileva questa incongruenza). Si evidenzia quindi l'irragionevolezza dell'intera disciplina con violazione dell'art. 3 Cost. e la conseguente lesione delle prerogative regionali di cui all'art. 117, comma 3 e 4 della Costituzione in materia di governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, produzione di energia.

Quanto al comma 6, laddove prevede che il titolo concessorio e' accordato (lettera b) con decreto del Ministero dello sviluppo economico, sentita la Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie e le sezioni territoriali dell'Ufficio nazionale minerario idrocarburi e georisorse, solo d'intesa, e unicamente per le attivita' da svolgere in terraferma, con la regione territorialmente interessata, esso determina una retrocessione della posizione in precedenza garantita alla regione. Infatti, la disciplina prima prevista dall'art. 1, commi 78, 82-ter della legge n. 239/2004 disponeva che riguardo alle attivita' su terraferma il suddetto decreto fosse rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali e regionali interessate. La regione quindi aveva (anche in base alla interpretazione deducibile dalla citata sentenza n. 6 del 2004 di questa ecc.ma Corte) una posizione forte, che non risulta piu' prevista nella normativa impugnata che non configura l'intesa «nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento». La mera previsione di una Conferenza di servizi di cui alla lettera a) del comma 6 non implica invece analoga garanzia. In ogni caso l'intesa e' esclusa quando si tratti di attivita' in mare (a differenza della citata previgente normativa che invece prevedeva che la concessione di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi fosse in ogni caso rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipavano anche le amministrazioni regionali e locali). La disposizione risulta pertanto violare gli articoli 117, commi 3 e 4, e 118 della Costituzione in materia di tutela della salute, governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, produzione di energia, nonche' il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. Inoltre, la previsione che la valutazione ambientale del programma complessivo dei lavori «sia espressa, entro sessanta giorni, con parere della commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale VIA/VAS del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare» espropria le regione delle proprie competenze in materia di VIA: si ripropongono, pertanto, al riguardo le stesse censure esposte in relazione al comma 4 dell'art. 38.

Quanto al comma 8, che dispone l'applicazione delle nuove norme sul titolo concessorio unico anche ai titoli rilasciati successivamente alla data di entrata in vigore del Codice ambientale e ai procedimenti in corso, si tratta di una disposizione nella quale si riflettono le censure precedentemente esposte, cui si aggiunge quella della violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. stante l'effetto retroattivo che ridonda in una violazione delle competenze regionali in precedenza indicate in riferimento alla nuova disciplina dei titoli abilitativi.

Quanto infine al comma 10, e' utile premettere che secondo le valutazioni dello stesso MISE nei nostri fondali marini esistono circa 10 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe, che stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per soli 2 mesi; quanto alle riserve certe di Gas presenti nei fondali, queste ammontano complessivamente a 33,1 miliardi di Gmc, a fronte di un fabbisogno annuo (dato 2013) di oltre 70 mld di Gmc: portando a intero esaurimento queste riserve di Gas si riuscirebbe a coprire quindi il fabbisogno annuo per meno di 6 mesi (cfr, allegato n. 2 dossier MISE, pag. 35). Cio' premesso, al fine di evidenziare, i profili di incostituzionalita' della disposizione impugnata, e' utile ricordare che la legge n. 179/2002 all'art. 26 «Disposizioni relative a Venezia e Chioggia», comma 2, a fronte di accertati fenomeni di subsidenza, ha esteso il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione alle acque del Golfo di Venezia, nel tratto di mare compreso tra parallelo passante per la foce del fiume Tagliamento e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro del fiume Po. E' poi seguito il decreto-legge n. 112/2008 che all'art. 8, comma 1, ha stabilito che: «Il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle acque del golfo di Venezia, di cui all'art. 4 della legge 9 gennaio 1991, n. 9, come modificata dall'art. 26 della legge 31 luglio 2002, n. 179, si applica fino a quando il Consiglio dei ministri, d'intesa con la regione Veneto, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, non abbia definitivamente accertato la non sussistenza di rischi apprezzabili di subsidenza sulle coste, sulla base di nuovi e aggiornati studi, che dovranno essere presentati dai titolari di permessi di ricerca e delle concessioni di coltivazione, utilizzando i metodi di valutazione piu' conservativi e prevedendo l'uso delle migliori tecnologie disponibili per la coltivazione.». Senza che l'accertamento di questa definitiva inesistenza di rischi apprezzabili di subsidenza delle coste sia mai stata accertata (anzi la regione Veneto interviene sovente a stanziare risorse per fronteggiare questo fenomeno - cfr. solo a titolo esemplificativo allegato n. 3 DGR n. 180 del 27 febbraio 2014 - che ha portato nella zona del Polesine a fenomeni di abbassamento dei terreni anche in termini di metri), il comma 10 legittima, anche in queste aree, l'attivita' di ricerca e coltivazione di idrocarburi nella forma di progetti sperimentali. La disposizione impugnata trasforma, infatti, gli studi che dovevano essere portati a termine dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in «progetti sperimentali di coltivazione», soggetti al regime dei titoli abilitativi accelerati cui allo stesso art. 38, da portare avanti sotto il controllo del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero dell'ambiente. In modo del tutto contraddittorio, infatti, nella relazione al decreto-legge n. 133/2014, con riguardo al suddetto comma si afferma: «L'obiettivo e' la realizzazione degli studi volti a escludere rischi apprezzabili di subsidenza, permettendo cosi' di acquisire i dati necessari per il superamento dell'attuale blocco delle attivita' in alcune aree, stabilito proprio in attesa di acquisire i risultati di tali studi per la ripresa delle attivita' di produzione interrotte nel 2002. Tale disposizione permettera' di sviluppare nuove tecnologie nazionali, garantire produzioni significative di gas (oltre un miliardo di Smc/anno), effettuare importanti investimenti privati con rilevanti ricadute occupazionali e monitorare lo svolgimento delle attivita' estrattive gia' in corso in aree limitrofe ad opera di Paesi frontisti». Delle due l'una: o lo scopo e' realizzare gli studi (e quindi logicamente si dovrebbe attendere quanto previsto originariamente dall'art. 8 del decreto-legge n. 112/2008 o in ogni caso ci si dovrebbe riservare una grande prudenza nel prospettare lo sbocco delle attivita') o lo scopo e' piuttosto quello di soprassedere alla esigenza di tutela ambientale del territorio italiano e sboccare l'attivita' di coltivazione per garantire «produzioni significative di gas» ed effettuare «importanti investimenti privati». I due scopi, antitetici fra di loro, vengono invece artatamente sovrapposti dalla disposizione impugnata, rendendo evidente l'intenzione del legislatore statale di sacrificare il primo scopo al secondo. In questi termini, da un lato, la finalita' economico-finanziaria di «assicurare il relativo gettito fiscale allo Stato», viene a prevalere decisamente su beni primari come la tutela dell'ambiente, dell'integrita' del territorio nazionale, della tutela della salute e, dall'altro, vengano esautorate le competenze della regione del Veneto, in particolare svilendo la partecipazione della stessa che non si vedrebbe piu' quale interlocutrice dello Stato in termini di intesa (che considerando gli interessi regionali in gioco dovrebbe essere del tipo «forte», cfr. al riguardo la gia' citata sent. n. 39 del 2013), dovendo, invece, solo essere sentita. La nuova effettiva finalizzazione teleologica della disciplina emerge, peraltro, anche dal coinvolgimento del MISE, mentre in precedenza era solo al Ministero dell'ambiente che facevano capo gli studi sui rischi di subsidenza legati alle attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nell'Alto Adriatico. Per motivi di gettito fiscale, si espone quindi, irragionevolmente e senza rispetto del principio di proporzionalita', il territorio italiano e in particolare quello della regione Veneto (e delle altre regioni soggette al fenomeno della subsidenza, con conseguente lesione anche dell'integrita' territoriale del demanio regionale) a rischi gravissimi in relazione proprio a quelle attivita' che erano state giustificatamente interdette per motivi ambientali, di tutela della salute e di protezione civile in questa delicatissima zona, le cui esigenze di tutela la legislazione statale in altre occasioni, non ha mancato di rilevare (si pensi a tutta la legislazione a tutela della Laguna di Venezia a partire gia' dalla legge n. 294/1956 e quindi dalla legge n. 171/1973 e seguenti). Tutto questo nonostante le evidenze del fenomeno. Ad esempio secondo i dati Arpa (allegato n. 4) il litorale ravennate (dove e' presente un'intensa attivita' estrattiva offshore), presenta abbassamenti generalmente fino a circa 5 mm/anno, con alcune aree piu' critiche come l'area costiera compresa tra il Lido Adriano e la foce del Bevano che presenta una depressione piu' importante, facendo registrare un abbassamento pari a 20 mm/anno in corrispondenza della foce dei Fiumi Uniti. Inoltre, un ulteriore profilo di irragionevolezza e di violazione del principio di proporzionalita' della disciplina si evidenzia considerando che la disposizione prevede una durata della sperimentazione che puo' arrivare a ben cinque anni, al termine della quale - precisa la norma - «qualora al termine del periodo di validita' dell'autorizzazione accertato che l'attivita' e' stata condotta senza effetti di subsidenza dell'attivita' sulla costa, nonche' sull'equilibrio dell'ecosistema e sugli insediamenti antropici, il periodo di sperimentazione puo' essere prorogato per ulteriori cinque anni, applicando le medesime procedure di controllo». Si tratta di un periodo di tempo eccessivamente lungo, durante il quale possono essere stati prodotti effetti irreversibili proprio sull'ecosistema e sugli insediamenti antropici: il fatto stesso che la norma ritenga perlomeno necessario stabilire una verifica ex post, dimostra evidentemente i controlli ex ante previsti dalla norma non sono in grado di escludere il pericolo di danni ambientali.

Da questo punto di vista la disciplina introdotta dal comma 10 si pone in contrasto con l'art. 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, ove e' fissato il principio di precauzione, disatteso nella specie attraverso la legittimazione di attivita' economica in assenza di una piena certezza scientifica e di prove sufficienti a dimostrare l'inesistenza di un nesso causale tra l'esercizio di talune attivita' e gli effetti nocivi sull'ambiente e sul territorio. Il bene ambiente e' esposto infatti ad una possibilita' di danno che non potrebbe essere adeguatamente riparato attraverso un intervento successivo, in considerazione della dimensione spaziale e temporale e della diffusivita' dei potenziali eventi dannosi. Al riguardo va anche ricordata la comunicazione 1/2000 (COM(2000) 1 final del 2 febbraio 2000) dove la commissione ha chiarito che si deve fare ricorso al principio di precauzione quando «le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni che i possibili effetti sull'ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto». Cosi' come deve essere ricordata la giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha stabilito le autorita' pubbliche, pur in presenza di incertezze scientifiche, sono tenute all'adozione di misure appropriate al fine di prevenire taluni rischi potenziali per l'ambiente, facendo cosi' prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi nei confronti di quelli economici (Corte di giustizia, sentenza 5 maggio 1998, causa C-180/96) e ancora (Corte di giustizia, 7 settembre 2004, causa C-127/02) che tenuto conto del principio di precauzione, un rischio di pregiudizio sussiste quando non puo' essere escluso, sulla base di elementi obiettivi, che il piano o il progetto pregiudichino in modo significativo il sito interessato. Cio' implica che in caso di dubbio (e in questo caso l'esistenza di rischi di subsistenza era stata proprio affermata dal legislatore statale con le citate disposizioni del 2002 e del 2008 ora irragionevolmente superate), quanto alla mancanza di effetti significativi, vada effettuata una tale valutazione proprio allo scopo di evitare che vengano autorizzati piani o progetti in grado di pregiudicare l'integrita' del sito interessato.

Il comma 10 risulta pertanto, in contrasto con gli articoli 11 e 117, I comma, Cost. nonche', avendo il legislatore statale sacrificato rilevantissimi interessi in gioco senza aver effettuato un (perlomeno adeguato) bilanciamento, con i principi di proporzionalita' e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., e con gli articoli 9, 32 e 97 Cost., con una ripercussione sulle competenze regionali, che risultano violate anche direttamente, previste dai commi 3 e 4 dell'art. 117 Cost. in materia di tutela della salute, governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, produzione di energia, turismo; oltre a porsi in contrasto con l'art. 119, comma 6, per la lesione all'integrita' del demanio regionale, nonche' con il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost., dal momento che prevede che sia solo sentita la regione, senza una forma di intesa, che peraltro ai sensi della citata giurisprudenza di questa ecc.ma Corte relativa alla materia concorrente produzione dell'energia, nel caso di specie, considerando gli interessi regionali in gioco, dovrebbe configurarsi come intesa forte.

4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 42 comma 1, per violazione degli articoli 3, 77, 117, III comma, 119, Costituzione e il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Costituzione.

L'art. 42, al comma 1, in relazione al contributo alla finanza pubblica delle regioni a statuto ordinario gia' disposto dall'art. 46, commi 6 e 7 del decreto-legge n. 66 del 2014 (rispetto ai quali la regione Veneto ha provveduto, con la DGR n. 1322 del 28 luglio 2014, a proporre ricorso in via principale) ha anticipato in modo del tutto arbitrario e irragionevole, senza peraltro che esistesse alcun reale presupposto di necessita' e urgenza, dal 31 ottobre al 31 settembre 2014, il termine originariamente previsto per l'intesa sul riparto dei tagli in Conferenza Stato-regioni. Tale disposizione, entrata in vigore il 13 settembre 2014, ha quindi improvvisamente anticipato di un mese la scadenza originariamente prevista e ha reso quindi impossibile di fatto il raggiungimento di una delicatissima e rilevante intesa diretta a permettere di evitare, attraverso l'autocoordinamento regionale, l'applicazione del criterio di riparto stabilito dal comma 6, che individua come criteri il Pil e la popolazione residente (criterio particolarmente penalizzante per la regione Veneto). Se come questa ecc.ma Corte ha ribadito «costituisce un insuperabile motivo di illegittimita' costituzionale la predeterminazione di un termine irragionevolmente breve» (sent. n. 274 del 2013) (che nel caso di specie era di 60 giorni) in relazione a complesse questioni, appare del tutto evidente, in una questione come quella in oggetto, dove in cui gioco erano i criteri di riparto di un taglio di 750 ml di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018, l'arbitrarieta' e l'irragionevolezza della disposizione che ha improvvisamente ridotto il termine a 17 giorni, rendendo quindi di fatto impossibile l'intesa, probabilmente solo allo scopo di poter presentare gia' in sede di disegno di legge di stabilita' (presentato in data 23 ottobre 2014) una piena contabilizzazione del taglio relativo all'anno 2015.

La suddetta disposizione si pone pertanto in contrasto con un corretto e leale esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica di cui all'art. 117, III comma, Cost, nonche' con gli articoli 3 e 77 Cost. la cui violazione ridonda sulla sfera costituzionalmente garantita alla regione dagli articoli 117, III e IV comma, e 119 comma, Cost. riflettendosi sul livello di finanziamento delle funzioni regionali, nonche' con il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost.

 

P. Q. M.

 

La regione del Veneto chiede che l'ecc.ma Corte costituzionale dichiari l'illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, intitolato «Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attivita' produttive», come convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 (in supplemento ordinario n. 85, relativo alla Gazzetta Ufficiale 11 novembre 2014, n. 262):   art. 17, comma 1, lettera G, per violazione degli articoli 3, 23, 117, commi 3 e 4, 118, 119, 120 della Costituzione;   art. 35, commi 1, 2, 3, 4, 5, 8 e 9 per violazione degli articoli 3, 11, 117, commi 1, 3 e 4, 118, 119 e 120 della Costituzione;   art. 38, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 10, violazione degli articoli 3, 9, 32, 11, 97, 117, I, III e IV comma, 118, 119, 120 della Costituzione;   art. 42, comma 1, per violazione degli articoli 3, 77, 117, III comma, 119, Costituzione e il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Costituzione.

Si depositano:   1) delibera della giunta regionale n. 2470 del 23 dicembre 2014, di autorizzazione a proporre ricorso e affidamento dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale;   2) allegato n. 1 dossier Senato, pag. 593;   3) allegato n. 2 dossier MISE;   4) allegato n. 3 DGR n. 180 del 27 febbraio 2014;   5) allegato n. 4 dati Arpa.

Venezia-Roma, 9 gennaio 2014

L'avvocato: Zanon

L'avvocato professore: Antonini

L'avvocato: Manzi