BREVI NOTE IN TEMA DI CONDOTTA ANTISINDACALE

 

L’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/70) si pone quale strumento privilegiato offerto dall’Ordinamento alle organizzazioni sindacali per la tutela dell’esercizio della propria attività. In particolare, l’articolo 28 prevede un procedimento per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro (pubblico o privato), condotta che può consistere in comportamenti diretti ad impedire o limitare la libera attività sindacale nonché il diritto di sciopero costituzionalmente garantito.

Il legislatore non ha ritenuto di precisare quali siano i comportamenti non consentiti, ricorrendo ad una formula ampia che consente di ritenere vietate quelle condotte idonee ad arrecare offesa al bene giuridico oggetto della tutela (la libertà sindacale), senza attribuire alcuna rilevanza alla presenza dell’elemento psicologico (colpa o dolo). E’ da ritenere, di conseguenza, che per la sussistenza di un comportamento antisindacale sia sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario uno specifico intento lesivo del datore di lavoro (Cass. n. 5297/97).

La legittimazione attiva è attribuita agli “organismi locali delle associazioni nazionali che vi abbiano interesse”. La giurisprudenza (Pret. Genova 22.12.97) ritiene che tale locuzione alluda ad un qualsiasi collegamento di natura non occasionale tra la struttura sindacale locale e quella nazionale. Per la sussistenza del requisito della nazionalità, è necessario che il sindacato abbia una significativa e omogenea presenza sul territorio nazionale (Pret. Legnano 3.11.94). E’ da ritenere che la legittimazione attiva in ordine all’esperibilità dell’azione ex art. 28 non spetti alle Rsu, non essendo organismi locali di associazioni sindacali nazionali.

Ulteriori requisiti essenziali, individuati da una giurisprudenza ormai costante, sono l’attualità della condotta e/o il perdurare dei suoi effetti.

In ordine ai termini per la proposizione del ricorso, la legge non contiene alcuna indicazione, non attribuendo, evidentemente, alcun rilievo al lasso di tempo intercorrente fra il momento del verificarsi della condotta antisindacale ed il momento nel quale viene proposta la domanda: è, invece, necessaria, come detto, la verifica dell’attualità della condotta o il perdurare degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla stessa.

Il ricorso all’azione avviene, il più delle volte, quando viene violato, da parte del datore di lavoro, il diritto di informazione e consultazione sancito dai contratti collettivi vigenti. Ciò, perché i diritti sindacali non si esauriscono più, come avveniva una volta, soltanto nella possibilità dello svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, ma si estende anche a tutti i casi in cui esistano in favore del sindacato posizioni tutelate da norme legislative o contrattuali (Cass. n. 9991/98).

La già evidenziata mancanza della puntuale descrizione dei comportamenti non consentiti, ha dato luogo ad una lunga casistica di sentenze che hanno ritenuto come antisindacale un determinato comportamento del datore di lavoro. A titolo esemplificativo, si riportano alcune sentenze in tema di condotta antisindacale:

    o    è condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro che impedisca l’attività di volantinaggio all’interno dei luoghi di lavoro (Trib Vicenza n. 322 del 30.10.2000)

o    non costituisce comportamento antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di negoziare con le organizzazioni sindacali, non sussistendo, nell’attuale sistema normativo, una fonte legale che obblighi l’imprenditore a trattare (Pret. Napoli 13.12.94)

o    costituisce condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro che minacci la trattenuta della retribuzione nel caso di partecipazione ad un’assemblea dei lavoratori (Cass. n. 6080/97)

o    pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che eserciti pressioni o minacce nei confronti di un lavoratore, così da spingerlo a revocare l’iscrizione al sindacato (Pret. Napoli 5.4.95)

o    costituisce comportamento antisindacale, per contrarietà al divieto di discriminazione di cui agli artt. 15 e 16 Statuto dei Lavoratori, nonché ai principi di correttezza e buona fede, la decisione unilaterale del datore di lavoro di concedere solo ad un sindacato un trattamento di miglior favore rispetto a quello contrattualmente previsto (Pret. Milano 7.11.95)

o    è comportamento qualificabile come condotta antisindacale quello del datore di lavoro che, in assenza di altra motivazione, licenzi un lavoratore impegnato in attività sindacale, per impedire lo svolgimento dell’attività stessa (Pret. Milano 14.5.96)

Come prima detto, legittimati alla proposizione del ricorso sono gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Il ricorso va presentato al giudice del lavoro del luogo in cui è stato posto in essere il comportamento antisindacale. Il procedimento si sviluppa attraverso due fasi: la prima è un procedimento d’urgenza a cognizione sommaria. Il giudice, entro un termine brevissimo (due giorni dalla presentazione del ricorso) convoca le parti e assume sommarie informazioni. Qualora ritenga la fondatezza del ricorso, emette decreto motivato attraverso il quale ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento ritenuto illegittimo e la rimozione dei suoi effetti. Contro tale decreto  - che è immediatamente esecutivo – il datore di lavoro può proporre opposizione (seconda fase) entro 15 giorni dalla sua comunicazione innanzi allo stesso giudice che ha pronunciato il decreto. Occorre precisare che la locuzione “stesso giudice” non significa stessa persona fisica, ma solo stesso ufficio giudiziario. Infatti la Corte Costituzionale (sent. 387/1999) ha sancito l’obbligo di astensione del magistrato che, dopo essersi occupato nella fase sommaria di un procedimento ex art. 28, sia investito dell’opposizione proposta contro il provvedimento da lui stesso emesso. La disciplina del procedimento in questa seconda fase è quella dell’ordinario rito del lavoro, che terminerà con sentenza, anch’essa immediatamente esecutiva, ricorribile in Corte di Appello. Nell’ottica della privatizzazione del pubblico impiego, la Corte di Cassazione (ORD. 24 GENNAIO 2003 N. 1127) - modificando una consolidata giurisprudenza orientata nel senso della competenza del giudice amministrativo nel caso in cui il sindacato intenda ottenere non solo la cessazione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione degli effetti pregiudizievoli - ha ritenuto che anche l’atto antisindacale del datore di lavoro pubblico ha la connotazione di atto privatistico, omologo a quello scorretto del datore di lavoro privato, come tale suscettibile di cognizione da parte del giudice ordinario, anche se sia richiesta l’eliminazione dell’atto stesso e dei suoi effetti.