ASSEGNAZIONE E REVOCA DEGLI INCARICHI DIRIGENZIALI

NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

A cura di IVANO SIMONE

SOMMARIO:  1. Premessa; 2. Il ruolo centrale della dirigenza nella riforma del pubblico impiego; 3. Gli incarichi di funzioni dirigenziali nelle amministrazioni statali nel modello anteriore alla L. 145/02; 4. Segue: l’assegnazione degli incarichi nelle amministrazioni locali; 5. La revoca degli incarichi dirigenziali; 6. Natura giuridica degli atti di gestione dei rapporti di pubblico impiego ed applicabilità della L. 241/’90: c’erano una volta gli interessi legittimi; 7. Natura giuridica degli atti di nomina e revoca dei dirigenti e strumenti di tutela; 8. La L. 145/02 ed i pericoli di un ritorno al passato;  9. Considerazioni conclusive.

 

1. Premessa.

Proporre una riflessione sulla tematica dell’assegnazione e della revoca degli incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni non è sicuramente un compito agevole. La riforma della dirigenza pubblica, infatti, è stato uno di quegli aspetti che, nell’opera di “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego, maggiormente ha impegnato il Legislatore italiano. Se ne trae conferma dai numerosi interventi normativi che si sono susseguiti a ritmo quasi incessante, molti dei quali hanno spesso sconfessato quelli precedenti: sembra emergere, a volte, un reale contrasto fra la ratio sottesa all’impianto della riforma ed il testo letterale di alcuni precetti, spesso ambigui e contraddittori. Basti pensare alle incertezze (ed alle polemiche) che hanno accompagnato l’applicazione della L. 145/02, e che tutt’ora non sembrano placate. Ci si trova, quindi, in un settore dove, forse più che in altri ambiti, spesso si è costretti “a navigare a vista”.

E’ proprio questa difficoltà ermeneutica che mi ha spinto a cimentarmi in un’analisi sul tema. Ritengo, infatti, che qualsiasi contributo (sia esso critico, o anche teso unicamente ad operare una mera ricognizione di idee altrui) possa comunque essere utile per fornire suggerimenti a quanti siano interessati all’argomento.

In questo mio lavoro, quindi, mi occuperò degli incarichi dirigenziali, sia nelle amministrazioni statali, sia nelle autonomie locali, evidenziandone i punti di convergenza ed eventuali discrasie. A tal fine, ripercorrerò, seppur a grandi linee, il quadro normativo che regola la materia e mi soffermerò sulle ricostruzioni interpretative più significative delineate dai diversi commentatori.

Lo scopo della mia ricostruzione è quello di individuare (o quantomeno tentare di farlo) gli strumenti giuridici che si pongono oggi a disposizione dei dirigenti pubblici eventualmente pretermessi o revocati dai loro incarichi. 

Preciso comunque che, per la necessità di circoscrivere l’argomento, sono costretto a trascurare sia l’istituto del c.d. spoyl sistem, sia il riflesso delle leggi di riforma costituzionale ed amministrativa sull’ampliamento del ruolo e delle competenze degli enti locali, ed in particolare delle regioni, e la valenza in quest’ottica del nuovo art. 117 della Costituzione: entrambi gli argomenti sono estremamente attuali e stimolanti, ma proprio per tale motivo meritano di essere trattati in approfondimenti specifici.

 

2. Il ruolo centrale della dirigenza nella riforma del pubblico impiego

Ritengo innanzitutto che nell’affrontare la tematica non si possa prescindere da un breve accenno sull’intero processo di riforma che ha investito il pubblico impiego in quest’ultimo decennio e, soprattutto, sul ruolo centrale che la dirigenza pubblica ha rivestito, e riveste, in questa innovazione normativa radicale dell’ apparato burocratico. Occorre, infatti, porre in evidenza la ratio e le finalità della riforma per tentare di fornire una disamina compiuta sul rinnovato modo di operatività dell’assegnazione e della revoca degli incarichi dirigenziali, per decifrarne la reale natura giuridica e, conseguentemente, per capire quali sono gli effettivi mezzi giuridici di tutela dei dirigenti rispetto alle scelte delle amministrazioni.

E’, invero, innegabile che nel processo di revisione del pubblico impiego proprio il nuovo ruolo da assegnare alla dirigenza costituiva il punto nodale maggiormente problematico ed il banco di prova della stessa riforma. Infatti, solo ed unicamente la realizzazione di un’attività intelligente, energica, oculata, celere e propositiva, da parte della classe amministrativa dirigente poteva (e può) consentire l’effettivo perseguimento dei nuovi livelli ottimali di efficienza che si era inteso raggiungere  anche nelle strutture pubbliche. La classe dirigente delle pubbliche amministrazioni doveva, pertanto, essere chiamata ad abbandonare le logiche ed i comportamenti ormai superati di stampo eccessivamente burocratico, spesso forieri di risultati scadenti e disservizi, per rivestire profili del tutto simili a quelli peculiari del management privatistico. Solo in tal modo era possibile recuperare efficacia e competitività all’agere amministrativo.

Inoltre, era venuta meno ormai da tempo l’idea che il “pactum sceleris” (così definito da Cassese con espressione forte, ma efficace e veritiera) tra un governo propenso ad espropriare la burocrazia di vertice in cambio di una sicurezza di status di quest’ultima potesse, in una valutazione politica di lungo periodo, continuare a garantire la conferma delle posizioni di comando da parte degli organi politici. Il giudizio diffusamente negativo degli amministrati pesava come una spada di Damocle, minacciosamente tesa a colpire, una volta per tutte, quella classe politica che si fosse rivelata incapace di superare le vecchie logiche di potere, e conseguentemente, poco propensa a creare un sistema idoneo a produrre risultati soddisfacenti.

Occorreva, pertanto, una svolta radicale, che consentisse di recuperare il consenso pubblico dei cittadini, realizzando un’azione amministrativa razionale, efficiente e produttiva, nonché un sufficiente risparmio di spesa; era ormai divenuta insostenibile per le casse dello Stato la sopportazione del costo del lavoro pubblico.

In un simile circuito virtuoso, si afferma la necessità di operare una separazione di poteri (quantomeno tendenziale) fra la classe politica e i dirigenti pubblici, ossia tra le funzioni di indirizzo politico e la gestione amministrativa, per evitare quelle indebite interferenze che nel passato avevano  costituito la causa principale dell’impossibilità di un valido funzionamento delle strutture pubbliche ad ogni livello.

I dirigenti pubblici divengono beneficiari di un ampliamento consistente dei loro poteri e della loro autonomia funzionale, necessario per consentire loro di disporre di più ampi spazi di manovra. Tuttavia, in cambio della valorizzazione del loro ruolo, quale altra faccia della stessa medaglia, essi vengono maggiormente responsabilizzati in ordine al raggiungimento di risultati concreti e si vedono costretti a privarsi di quella sorta di status inossidabile ed intoccabile che, tradizionalmente, aveva caratterizzato la loro peculiare figura e si sostanziava nell’esercizio di una sorta di dispotica “signoria” sugli uffici pubblici, considerati spesso luoghi di esclusiva proprietà privata.

Viene, quindi, realizzato un particolare sistema, elastico e flessibile, nel quale convivono ed interagiscono un rapporto di lavoro a tempo indeterminato - che pur sempre, lega il dirigente alla pubblica amministrazione di appartenenza - ed incarichi a tempo determinato - conferiti, di volta in volta, dalle classe politica di riferimento in un dato contesto temporale, secondo determinate scadenze e modalità, in maniera fiduciaria -[1].

La soluzione normativa ha trovato ampi consensi nella dottrina più autorevole, che ha esaltato il ruolo e le prospettive di questo raccordo strutturale, articolato in un meccanismo funzionale che garantisce omogeneità, coerenza e continuità fra le scelte politiche di indirizzo programmatico e la gestione amministrativa.

Il nuovo modello consente di evitare il rischio che nelle strutture pubbliche si possa determinare una sorta di incomunicabilità fra la testa ed il corpo della macchina amministrativa, uno scollamento tale da produrre un insidioso “isolamento tecnocratico” dei responsabili della gestione, i quali invece, più che meri esecutori dei programmi politico-ammnistrativi, sotto molti aspetti concorrono fattivamente allo stesso policy making. E’ indubbio che i dirigenti pubblici, affinché possano realizzare gli obiettivi assegnati, devono cooperare in sintonia con i vertici politici, onde devono necessariamente essere legati da una comune visione con costoro, che ad essi si affidano per il raggiungimento di quelle stesse finalità programmatiche che hanno posto alla base di un altro rapporto di fiducia, ossia quello che li lega agli amministrati e ha consentito loro di ricevere il consenso elettorale. A tal proposito, è stato acutamente osservato che “non si può realisticamente pensare che coloro che hanno la responsabilità politica per l’andamento ed i risultati dell’attività amministrativa di realizzazione degli indirizzi politici non possono avvalersi poi dei soggetti che ritengono più qualificati, più affidabili”, dei quali abbiano, appunto, “fiducia” e con i quali si sentono più in sintonia[2].

 

3. Gli incarichi di funzioni dirigenziali nelle amministrazioni statali nel modello anteriore alla L. 145/02

E’ sicuramente vero che nel rinnovato meccanismo di nomina e revoca dei dirigenti si annidano insidie che risultano presenti in maniera pressoché endemica nel sistema delineato; esso, infatti, si presta maggiormente ad una possibilità di abuso della posizione dominante che nel rapporto è, pur sempre, assunta dall’organo politico, il quale è tradizionalmente incline a sopraffare i rappresentanti delle amministrazioni pur di realizzare a qualunque costo, e spesso “senza voler sentir ragioni”, i propri obiettivi, sotto la minaccia, anche tacita, di una revoca o di un mancato rinnovo dell’incarico.

Il Legislatore, comunque, consapevole di tali rischi, si è preoccupato di predisporre alcune fondamentali cautele che potessero garantire la posizione dei dirigenti rispetto ad eventuali degenerazioni in senso patologico della nuova impostazione. Le stesse garanzie sono state inoltre finalizzate ad evitare che, paradossalmente, proprio un’eccessiva liberalizzazione del sistema potesse condurre a risultati insoddisfacenti anche sul piano amministrativo, paventandosi il pericolo di metter in moto un meccanismo perverso che, lungi dal valorizzare il ruolo dei dirigenti quali nuovi ed efficienti managers di stampo privatistico, li vedesse costretti a rivestire i panni di  umili servitori della classe politica di riferimento, unicamente tesi ad ottenere un mero rinnovo dell’incarico.

In tale ottica, il dlgs 165/01 non lascia la nomina del dirigente (seppur essenzialmente fiduciaria) assolutamente libera e svincolata da qualsivoglia elemento di giudizio, ma innanzitutto ne pone a fondamento la necessaria valutazione di alcuni parametri di fondo che devono pur sempre supportare la scelta finale. Si tratta di elementi sia di carattere soggettivo, sia di tipo oggettivo, quali la natura e le caratteristiche dei programmi da realizzare (e sotto tale aspetto si privilegia il carattere fiduciario dell’incarico), e le attitudini e le capacità professionali del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza (e relativamente a tali presupposti si valorizza, invece, l’aspetto meritocratico e l’oggettiva capacità professionale dei dirigenti).

 

4. Segue: l’assegnazione degli incarichi nelle amministrazioni locali

Parallelamente, anche nell’ordinamento delle autonomie locali si è imposto un moderno rapporto di tipo fiduciario tra il sindaco (o il presidente della provincia) ed i dirigenti.

La conferma si trae dall’indubbia competenza all’attribuzione ed alla revoca degli incarichi dirigenziali da parte, ovviamente, degli organi di vertice di direzione politica dell’ente e, più precisamente, del massimo organo apicale, il quale ha pertanto il potere e la possibilità di circondarsi, durante il proprio mandato, di persone di fiducia.

L’assegnazione dell’incarico avviene a tempo determinato ed i dirigenti sono soggetti a periodiche verifiche volte ad accertare i risultati raggiunti ed il rispetto delle direttive programmatiche.

Inoltre, quantunque la scelta del dirigente affidatario avvenga in maniera discrezionale, non si tratta di una attribuzione arbitraria, in quanto si deve procedere osservando criteri oggettivi di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo.

A tal proposito si evidenzia che, secondo quanto dispone l’art. 109 del TUEL (che sul punto ha sostituito l’art. 51, comma 6, della L. 142/’90), il provvedimento di nomina deve essere motivato, al fine di esplicitare il criterio e i parametri posti a base della decisione, dai quali deve risultare la scelta di una figura qualificata e professionalmente idonea al perseguimento degli obiettivi programmatici.

In definitiva, la “fiducia”, che deve caratterizzare il legame fra l’amministrazione ed il dirigente deve essere intesa nella sua accezione positiva di stima e di credito nella professionalità della persona che si intende prescegliere, con riferimento alle sue possibilità di svolgimento ottimale delle pubbliche “mansioni” che gli vengono assegnate, tenendo conto pur sempre dello specifico e particolare programma politico-amministrativo da realizzare. Si otterrebbero, infatti, risultati iniqui e controproducenti qualora prevalesse l’accezione negativa e strumentale del termine, quale sinonimo, ad esempio, di mera simpatia o di presunzione di agevole possibilità di asservimento.

Con ciò non si vuol dire che sia necessario un giudizio comparativo fra tutti gli aspiranti all’incarico, implicante una valutazione puntuale e specifica delle posizioni da raffrontare.

Si propende, invece, per una soluzione compromissoria e funzionale: sebbene l’assegnazione degli incarichi dirigenziali sia connotata da criteri di ampia discrezionalità, ciò non implica un’assoluta libertà d’azione ed un potere di arbitrio nella scelta da effettuare e, soprattutto, non impedisce la possibilità di un sindacato giurisdizionale. Devono, pertanto, essere esplicate le ragioni poste alla base della decisione, dalle quali deve emergere che la preferenza è stata “il frutto di una ponderata valutazione basata su dati ed elementi obiettivi desumibili dal fascicolo personale, dalle posizioni degli aspiranti, dai titoli e dalla preparazione professionale, nei singoli settori di attività, dall’esperienza maturata, dai risultati conseguiti nei compiti assegnati e dalle attitudini dimostrate”[3]. Si concorda, pertanto, con quella giurisprudenza amministrativa che, in definitiva, ritiene che il provvedimento di nomina di un dirigente “pur essendo fondato su un rapporto fiduciario…………..deve comunque motivare la scelta fiduciaria, evidenziando la coerenza dei requisiti professionali del candidato prescelto rispetto agli obiettivi programmati dagli organi di governo”[4].

Più di recente, successivamente al passaggio del contenzioso in materia di assegnazione e revoca degli incarichi dirigenziali al giudice ordinario, il medesimo orientamento è stato confermato anche dai giudici del lavoro. A tal proposito può segnalarsi, come emblematica del nuovo orientamento, l’ordinanza del Tribunale di Napoli del 2 dicembre del 2002, secondo cui ”il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, pur costituendo espressione dell’esercizio di un potere discrezionale da parte dell’amministrazione, e per essa del potere politico che la rappresenta, - in ragione del carattere essenzialmente fiduciario del rapporto tra dirigente ed ente pubblico - non può essere connotato da assoluta libertà, essendo sempre consentito all’autorità giudiziaria sindacarne sia il corretto esercizio sotto il profilo della  buona fede, sia valutarne il rispetto della legislazione vigente ovvero dei contratti disciplinanti la materia”.

Analogamente a quanto disponeva per i dirigenti statali l’art. 19, II comma, del dlgs 165/01, (nella versione anteriore alle modifiche apportate dalla L. 145/02), l’art. 13 del CCNL, area dirigenza, comparto regioni-autonomie locali, prevede per i dirigenti “locali” che la durata dell’incarico, sebbene temporanea, non possa essere inferiore ad un termine minimo di due anni.

La previsione di una durata minima dell’incarico risponde alla esigenza di predisporre una tutela di base della posizione soggettiva giuridica ed economica del dirigente e si propone di garantire comunque uno spazio temporale idoneo a permettere il raggiungimento di risultati concreti. La deroga è ammessa unicamente in presenza di una particolare specificità dell’incarico stesso che, comunque, deve essere  evidenziata nell’atto di affidamento, in modo da rendere edotto il dirigente assegnatario della particolare condizione che caratterizza la sua designazione e ne giustifica una scadenza anticipata.

Il CCNL nulla dice, invece, relativamente ad una possibile durata massima dell’incarico, ma credo che non vi siano particolari problemi nel concludere che essa non possa mai essere superiore alla durata del mandato politico del sindaco (o del presidente della provincia).

 

5. La revoca degli incarichi dirigenziali.

Per quanto riguarda poi la revoca degli incarichi dei dirigenti statali, il dlgs 165/01 prevede un sistema composito sufficientemente garantista, sempre in un’ottica di tutela delle loro professionalità. Infatti, la possibilità di revoca dell’incarico, oltre che per mutuo consenso, viene strettamente ancorata ad un sistema premiale di verifica dei risultati volto a far emergere eventuali responsabilità o inefficienze degli amministratori pubblici, tali da consentire - e rendere opportuno - l’allontanamento del dirigente poco capace[5]. Vengono previsti organismi specifici deputati al controllo e a far emergere quelle eventuali responsabilità che possano supportare una decisione di revoca anticipata dell’incarico al dirigente ritenuto non idoneo.

Analogamente, gli incarichi dirigenziali negli enti locali non sono revocabili ad nutum prima della scadenza naturale del contratto, se non per le ipotesi tassativamente individuate nel TUEL e nella contrattazione collettiva e con l’osservanza delle specifiche modalità ivi contemplate[6]. Ciò vale, ovviamente, a rendere funzionale il sistema complessivo, responsabilizzando i dirigenti e sanzionando inefficienze e storture operative e, al contempo, consente di valorizzare le qualificazioni professionali e garantire la posizione di coloro che hanno operato in maniera corretta, propositiva e soddisfacente (evitando che le direttive dei vertici politici siano tali solo nominalisticamente, ma si traducano in realtà in veri e propri ordini vincolanti, ai quali è impossibile non dare esecuzione, pena la revoca anticipata dell’incarico).

In definitiva, è evidente come nell’ottica della riforma del pubblico impiego i dirigenti non possano più limitarsi alla assicurazione della mera regolarità formale dell’azione amministrativa (che è comunque sempre dovuta nel massimo grado). Si individua, infatti, una nuova tipologia di responsabilità, la “responsabilità dirigenziale”, che si configura come responsabilità di risultati, un novum genus che si aggiunge, senza sostituirsi, alle tradizionali forme di responsabilità previste per tutti i dipendenti pubblici: invero, il dirigente che abbia comunque assicurato la legittimità formale degli atti compiuti non è comunque necessariamente esonerato da un giudizio eventualmente negativo, in quanto altro e ben più elevato è il contenuto del suo rapporto con l’ente.

 

6. Natura giuridica degli atti di gestione dei rapporti di pubblico impiego ed applicabilità della legge 241/’90: c’erano una volta gli interessi legittimi.

Prendendo spunto dalla necessità di motivazione delle ragioni che giustificano la nomina e la revoca dei dirigenti negli enti locali sollevo due interrogativi.

Innanzitutto mi chiedo se, in generale, in caso di assegnazione o di revoca non motivata di un incarico dirigenziale negli enti locali possa comunque invocarsi l’applicazione dell’art. 3 della L. 241/’90 a prescindere dall’espressa previsione di simile obbligo in specifiche disposizioni normative[7]. In realtà, il quesito si pone con ben maggiore pregnanza non tanto per i dirigenti degli gli enti locali (ove appunto potrebbe risultare mera questione teorica, stante la vigenza di espresse disposizioni che richiedono la motivazione dell’atto) quanto piuttosto per i dirigenti  delle amministrazioni statali, per i quali invece manca una norma ad hoc volta a prescrivere un simile obbligo di motivazione degli atti di nomina e revoca.

Il secondo interrogativo riguarda la possibilità per la pubblica amministrazione di agire in via di autotutela rispetto a tali atti.

La soluzione ai quesiti che ho posto non può prescindere da alcune considerazioni preliminari. E’, infatti, indispensabile stabilire prima quale sia in generale la natura giuridica degli atti posti in essere nell’ambito della gestione dei rapporti di pubblico impiego e, conseguentemente, individuare la natura delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti, per dedurre se permangano, o meno, interessi legittimi in capo a costoro. Successivamente si può tentare di dare una collocazione specifica agli atti di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, e capire se rivestono la medesima natura giuridica di tutti gli altri atti di gestione del rapporto, ovvero se mantengo una loro peculiarità.

Ebbene, in linea generale, la “contrattualizzazione” dei rapporti di pubblico impiego, (ovvero di tutti gli atti di organizzazione degli uffici e di gestione dei rapporti di lavoro adottati, ai sensi dell’art. 5 del dlgs 165/01, “con le capacità ed i poteri del datore di lavoro privato”), è - a mio avviso - “ontologicamente” incompatibile con la sussistenza di posizioni di interesse legittimo in capo ai dipendenti. La riconduzione della disciplina del pubblico impiego nell’alveo privatistico, e l’assimilazione del datore di lavoro - pubblica amministrazione a qualsiasi datore di lavoro privato, escludono la permanenza di situazioni o momenti in cui ci si possa avvalere di poteri autoritativi e unilaterali, a fronte dei quali non sussistono diritti soggettivi, ma interessi legittimi.

Sotto l’egida dell’art. 97 della Costituzione è rimasta, dopo la riforma del pubblico impiego, solo la c.d. sfera di macro organizzazione della pubblica amministrazione, ossia gli atti ricompresi nella previsione dell’art. 2 del dlgs 165/01[8]. La riserva di legge non copre più, invece, la c.d. sfera di micro organizzazione, relativa alla organizzazione ed alla gestione interna dei rapporti di lavoro con i pubblici dipendenti, nel cui ambito ogni pubblica amministrazione agisce con i poteri propri del datore di lavoro privato, avvalendosi di atti paritetici, volti a realizzare le finalità “imprenditoriali” di efficienza e produttività.

Massimo D’Antona scriveva che “il superamento del pubblico impiego come ordinamento speciale non nega la differenza intrinseca alla natura del soggetto pubblico, nega i corollari che la tradizionale concezione pubblicistica ha dedotto da quella differenza[9]. Ebbene, fra i corollari venuti meno rientra sicuramente quello secondo cui gli atti di gestione del rapporto di lavoro sono pur sempre finalizzati a realizzare un interesse pubblico, onde, per derivazione necessaria dalla  riserva di legge prevista dall’art. 97 Cost., è impossibile prescindere dal compimento di atti amministrativi: attraverso tale via si rischia di ammettere nuovamente una giurisdizione del giudice amministrativo nell’ambito dei rapporti di pubblico impiego, mentre il meccanismo della riforma operata dal legislatore italiano dal ’92 in poi è stato sempre funzionale a estromettere il lavoro pubblico dall’alveo amministrativo pubblicistico.

Ne consegue che la legge n° 241 del 1990 non può più trovare applicazione nei confronti degli atti di gestione dei rapporti di pubblico impiego, ormai definitivamente contrattualizzati;  si tratta, infatti, di una normativa che riguarda solo l’attività imperativa esterna della pubblica amministrazione nei rapporti con i privati cittadini, essendo posta a presidio e tutela dei canoni di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, previsti appunto dall’art. 97 Cost..

Ne deriva, parimenti, che non permane, rispetto a tali atti, un potere di autotutela in capo alle pubbliche amministrazioni[10].

In particolare, le sopravvenute ragioni di interesse pubblico non incidono di per sé sulla sorte del rapporto contrattuale, in quanto la pubblica amministrazione non riveste alcuna posizione di privilegio che eventualmente legittimi il suo potere di operare unilateralmente un recesso dal vincolo negoziale. Salvo possibili casi di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, la ”riponderazione” della scelta gestionale va sempre accettata dal pubblico dipendente; si commetterebbe altrimenti un inadempimento contrattuale. Qualora poi vengano individuate eventuali irregolarità compiute nell’adozione degli atti, soccorreranno pur sempre i rimedi privatistici  della nullità o dell’annullabilità.

 

7. Natura giuridica degli atti di nomina e revoca dei dirigenti e strumenti di tutela

Ciò posto in linea generale per tutti gli atti di gestione dei rapporti di pubblico impiego, in realtà proprio la tematica dell’assegnazione e della revoca degli incarichi dirigenziali si pone come un caso di difficile soluzione sotto tale aspetto, poiché costituisce senza dubbio il punto di congiunzione (ed in qualche modo anche di frizione) fra la dimensione organizzativa della realtà amministrativa e quella concernente l’ordinamento e la gestione del personale: “è qui che la linea di confine tra potere organizzativo pubblicistico e potere organizzativo privatistico nelle amministrazioni entra in fibrillazione[11], e in dottrina si registra una reale difficoltà interpretativa nel collocare con sicurezza tali atti fra quelli di natura privatistica ovvero nell’ambito dei provvedimenti amministrativi.

Il problema si è posto innanzitutto in relazione agli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni statali, rispetto ai quali, come si è visto, il particolare meccanismo di nomina e revoca predisposto dal legislatore nel dlgs 165/01 si presenta piuttosto ambiguo, in quanto ostiche risultano la comprensione e la spiegazione logico - giuridica della combinazione fra il provvedimento di nomina da parte della P.A. e la stipulazione di un contratto fra quest’ultima ed il dirigente nominato.

Ma le medesime difficoltà interpretative riguardano anche gli incarichi dirigenziali nelle autonomie locali, laddove probabilmente la complessità del problema è stata celata dalla sussistenza delle specifiche prescrizioni di motivazione dell’atto che hanno consentito di superare sul piano pratico-applicativo la questione esegetica.

Infatti, il meccanismo di nomina dei dirigenti degli enti locali ricalca per molti versi quello predisposto dal dlgs 165/01. Anzi, a ben vedere, nelle autonomie locali il problema della identificazione della reale natura giuridica degli atti di assegnazione (e revoca) degli incarichi dirigenziali si complica ulteriormente, in quanto l’art. 109 TUEL prevede che il conferimento avvenga unicamente con un “provvedimento”. Sembrerebbe, quindi, trattarsi di un atto unilaterale ed autoritativo del sindaco (o del presidente della provincia), di tipo pubblicistico, rispetto al quale difficilmente può dirsi che il dirigente interessato vanti una posizione giuridica di diritto soggettivo.

In definitiva, proprio la previsione di una sorta di “alchimia combinatoria” fra atto provvedimentale di nomina e contratto (sussistente nell’ambito delle amministrazioni statali) e, ancor di più, proprio la presenza esclusiva di un “provvedimento” di nomina (nelle autonomie locali), hanno indotto parte della dottrina a sostenere la natura provvedimentale - amministrativa degli atti di assegnazione e revoca degli incarichi dirigenziali, in entrambi gli ordinamenti.

Ci si è chiesti, infatti, quale sia la tutela del dirigente a fronte di scelte che in realtà non risultano essere effettivamente paritetiche (non potendo il dirigente incidere né sull’an, né sul contenuto dell’atto), ma si atteggiano come atti propriamente autoritativi e discrezionali; a fronte di simili atti è indubbio che il dirigente pretermesso o revocato vanti una posizione di interesse legittimo al rispetto delle norme che li regolamentano, e pur sempre li procedimentalizzano. Si è detto, inoltre, che in ogni caso una simile ricostruzione non possa essere negata per il conferimento degli incarichi più elevati di dirigente generale o segretario generale, rientranti nella sfera di c.d. “alta organizzazione”, trattandosi di “linee fondamentali di organizzazione degli uffici” e di “individuazione degli uffici di maggiore rilevanza”, che rimangono nell’alveo pubblicistico[12].

A mio avviso occorre, invece, superare definitivamente la remora secondo cui non sarebbe possibile richiamarsi unicamente ai principi ed alle regole contrattualistiche.

Occorre avere il coraggio di uscire da quella “cittadella fortificata” che tradizionalmente ha costituito il modello di pubblico impiego, soprattutto per la classe dirigente.

E’ certamente vero che nell’impiego pubblico “l’instaurazione del rapporto non fa nascere soltanto un rapporto sinallagmatico rientrante nello schema do ut facies, ma ha anche la valenza dell’investitura di una pubblica funzione”[13]; siffatto potere-dovere costituisce però, a mio avviso, solo un connotato tipico dell’oggetto del rapporto contrattuale e della tipologia e della natura della prestazione da eseguire da parte del dirigente pubblico, e poco incide sulla natura delle posizioni giuridiche soggettive individuabili in capo allo stesso.

Concordo, quindi, pienamente con la tesi secondo cui anche gli atti di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali sono stati ormai ricondotti nell’ambito esclusivo degli atti privatistici, rientrando proprio fra quegli atti di micro organizzazione o di gestione dei rapporti di lavoro previsti dall’art. art. 5 del dlgs 165/01, e la devoluzione espressa e specifica delle relative controversie al G.O. (ex art. 63 dlgs 165/01) ne sarebbe la conferma[14].

In particolare, per quanto riguarda la dirigenza nelle amministrazioni statali, la combinazione e l’integrazione sussistente fra il provvedimento di nomina del dirigente ed il contratto può spiegarsi ugualmente facendo ricorso ai soli istituti giuridici privatistici: il conferimento dell’incarico dirigenziale ha la funzione di semplice proposta negoziale, destinata ad essere accettata dal designato tramite la stipula del contratto, ovvero ha natura di atto meramente dichiarativo , collocato rispetto alla stipula del contratto in una posizione, non complementare di pari valore, bensì solo accessoria e subordinata. Il provvedimento di nomina vale, cioè, solo ad individuare la persona prescelta, la quale, anteriormente a tale designazione, non può vantare alcuna posizione giuridica qualificata, se non una mera aspettativa di fatto. In altre parole, non è tanto il contratto che accede al provvedimento di nomina (al solo fine di definire gli aspetti di dettaglio), bensì quest’ultimo ad esserne un atto prodromico e funzionale.

E’ nel contratto, e solo nel contratto, che si realizza l’incontro delle volontà delle due parti interagenti. E’ solo ed unicamente il contratto che lega effettivamente l’amministrazione al dirigente: il provvedimento di nomina vale solo ad estrinsecare la volontà della P.A. di procedere alla stipula del contratto con quel determinato soggetto, così designato.

La medesima soluzione si può adottare relativamente agli enti locali, in quanto anche in tale ambito al provvedimento motivato di nomina deve sempre seguire la stipula di un contratto con il dirigente designato, sebbene la normativa di riferimento non ne faccia menzione espressa.

In ogni caso, qualora non dovesse essere stipulato alcun contratto, non può comunque escludersi la sussistenza di atti di natura privatistica, in quanto il provvedimento di nomina, nonostante la definizione formale, potrebbe essere assimilato ad un atto unilaterale recettizio, ex art. 1324 c.c..: il dirigente designato potrebbe, infatti, pur sempre rifiutare l’incarico assegnatogli, recuperandosi così in tal modo quello spazio negoziale in cui si realizza comunque l’incontro delle volontà dei soggetti interessati. E la possibilità di una risoluzione consensuale, prevista dall’art. 17 del CCNL, sembra essere una conferma dell’esistenza di un rapporto convenzionale fra ente e dirigente (senza considerare poi l’obbligo per gli enti locali di adeguare la propria disciplina ai principi del capo relativo alla dirigenza statale, posto sia dall’art. 27 del dlgs 165/01, sia dall’art. 13 CCNL).

L’individuazione dell’atto in termini di “provvedimento” può poi trovare una giustificazione - a mio avviso - nel fatto che con tale dicitura tradizionalmente si designa l’atto tipico attraverso il quale l’amministrazione pubblica manifesta la sua volontà e si impegna in maniera corrispondente.

Ne consegue che, anche per gli atti di assegnazione e revoca degli incarichi dirigenziali, sia nelle amministrazioni statali che in quelle locali, non può trovare applicazione la legge 241/’90, né permane alcun potere di autotutela in capo all’amministrazione, la quale pertanto deve agire con i poteri e le capacità, ma anche con i limiti ed i vincoli, di qualsiasi altro datore di lavoro privato.

Il dirigente pubblico, così come ogni altro dipendente, non rimane privo di tutela, ma ha le stesse garanzie di ogni altro lavoratore privato: in definitiva, le sue doglianze sono limitate all’eventuale ricorrenza dei medesimi vizi che vengono in rilievo nei rapporti contrattuali privatistici.

In particolare, relativamente alla motivazione degli atti di nomina e revoca degli incarichi, i dirigenti pretermessi (o revocati), pur se non potranno più lamentare in via generale l’inosservanza dell’art. 3 della L. 241/’90, potranno comunque censurare il difetto di motivazione qualora sussista un’espressa disposizione di legge che prescriva simile obbligo. In tal caso non ricorrerà il vizio di matrice amministrativistica di illegittimità dell’atto per violazione di legge, bensì il vizio privatistico di invalidità – nullità per violazione di una norma imperativa (o sussisterà una violazione del contratto collettivo, che eventualmente contempli siffatto obbligo); se poi l’obbligo di motivare l’atto sia stato per ipotesi convenuto in un contratto individuale fra la singola pubblica amministrazione e il dirigente designato, si potrà far valere anche un inadempimento contrattuale,.

Qualora dovesse mancare, invece, una norma di legge (o la previsione contrattuale), soccorrono pur sempre le regole generali di correttezza e buona fede. Infatti, a mio parere, in forza dei principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., la P.A. deve sempre rendere manifeste le motivazioni della propria determinazione ogni qual volta si tratta di effettuare una valutazione discrezionale delle posizioni dei singoli dipendenti, ivi compresi i dirigenti, onde consentire il controllo del rispetto delle norme contrattuali e di legge e far così comprendere all’interessato i motivi della decisione, non potendo mai le scelte datoriali caratterizzarsi per arbitrio o irragionevolezza.

 

8. La legge 145/02 e i pericoli di un ritorno al passato.

In verità, la ricostruzione che ho appena delineato risulta oggi messa in discussione dalla l. 145/02 che, operando un riordino generale della dirigenza statale, ha modificato significativamente il precedente art. 19 del dlgs 165/01, qualificando espressamente l’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale quale “provvedimento” amministrativo, cui il contratto individuale accede ai soli fini della mera definizione del trattamento economico. In tal caso, l’individuazione dell’atto in termini di “provvedimento” sembra andare oltre una mera definizione formale per rivestire, invece, caratteri di valenza sostanziale. Infatti, invertendo i termini del rapporto sussistente tra elemento pubblicistico ed elemento negoziale, si è attribuito al “provvedimento” di conferimento dell’incarico il compito di individuare l’oggetto dello stesso incarico, gli obiettivi da conseguire, nonché la sua durata, mentre al contratto che vi accede si è limitato il compito alla mera definizione degli aspetti economici del rapporto già instaurato per via amministrativa.

Ciò potrebbe indurre a ritenere che, se il Legislatore è intervenuto specificamente sul punto in questione, e con siffatte modalità, probabilmente è stato animato dalla volontà di recuperare maggiori ambiti di operatività per l’esercizio del potere unilaterale ed autoritativo delle amministrazioni pubbliche, riducendo, al contempo, lo spazio negoziale di azione.  

La stessa circolare 31.7.2002 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funzione pubblica, si è espressa nel senso che “nel nuovo assetto normativo della dirigenza, l’atto di conferimento dell’incarico assume connotazione provvedimentale, ponendosi come determinazione conclusiva di un apposito procedimento amministrativo, nel quale si manifesta l’interesse pubblico correlato al perseguimento degli obiettivi definiti dall’organo di indirizzo politico-amministrativo. La legge qualifica espressamente l’atto di assegnazione delle funzioni dirigenziali come provvedimento, ponendo in rilievo il carattere unilaterale della determinazione……..Ne deriva che l’attività riguardante il conferimento degli incarichi, anche in mancanza di apposita disciplina di dettaglio, è assoggettata ai principi generali del procedimento amministrativo, con particolare riguardo alle regole partecipative ed all’obbligo dell’amministrazione di comunicare l’avvio del procedimento ai soggetti destinatari dell’atto conclusivo”.

E’ intuitivo come si rimetta in discussione il problema dell’individuazione della natura giuridica dell’assegnazione e della revoca degli incarichi dirigenziali, e della conseguente posizione soggettiva dei dirigenti destinatari degli atti, nonchè dell’identificazione degli strumenti di tutela a loro disposizione.

Inoltre, a seguito dell’entrata in vigore della l. 145/02, il problema se la disciplina valevole per i dirigenti statali si applichi (e in che limiti e secondo quali modalità) anche per i dirigenti delle autonomie locali, si pone in maniera più pregnante rispetto al passato, in cui tutto sommato le discipline previste dal TUEL e dal dlgs 165/01 (e dal CCNL della dirigenza del comparto) si presentavano piuttosto omogenee.

Infatti, la l. 145/02 per alcuni aspetti si pone in stridente contrasto con la disciplina della dirigenza degli enti locali.

Pongo due esempi che mi appaiono significativi: innanzitutto, la l. 145/02 non prevede l’obbligo di rispettare, sempre e comunque, una durata minima per gli incarichi dirigenziali, a differenza di quanto prescritto per gli incarichi dei dirigenti delle autonomie locali che, si è visto, non possono avere una durata inferiore a due anni, secondo quanto dispone l’art. 13 CCNL, -area dirigenza-comparto autonomie locali. Inoltre, la l. 145/02 propone un meccanismo ed un “livello” di spoyl sistem sconosciuto nelle autonomie locali.

La soluzione della questione non è agevole e riveste una grande rilevanza, in quanto condiziona l’individuazione della concreta disciplina applicabile: è, infatti, intuitivo come si ponga il problema se anche gli incarichi dei dirigenti delle autonomie locali possano essere assegnati per una durata inferiore a due anni ovvero se sia possibile estendere anche negli enti locali il sistema dello spoyl sistem.

 

9. Considerazioni conclusive

Come avevo anticipato in apertura del presente elaborato, la tematica affrontata è vasta e complessa e i recenti interventi normativi sembrano mettere nuovamente in dubbio quelle poche certezze giuridiche che faticosamente erano state raggiunte dalla giurisprudenza. Sembra che vi sia un ritorno di moda di quei principi amministrativi che si pensavano ormai definitivamente tramontati: sotto questo profilo, aumenta l’interesse verso quelle pronunce giurisprudenziali che, quale voce minoritaria, continuavano pur in vigenza del dlgs 165/01 a richiamarsi alla legge 241/’90 quale baluardo normativo a difesa dei dirigenti.

E’ pertanto auspicabile un “ravvedimento operoso” del Legislatore, teso a fare chiarezza su una materia che del resto riveste grande importanza per il raggiungimento di quelle stesse finalità sottese all’intera riforma del pubblico impiego.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Nel testo del dlgs 165/01, (nella versione antecedente alla L. 145/02, che di recente è intervenuta a riordinare la materia della dirigenza statale), l’assegnazione degli incarichi per i dirigenti statali è disciplinata dal II comma dell’art. 19 del dlgs 165/01 il quale, in aderenza alla nuova filosofia che ispira il rapporto tra amministrazione e dirigenza, disponeva testualmente che: “tutti gli incarichi di direzione degli uffici delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti a tempo determinato, secondo le disposizioni del presente articolo. Gli incarichi hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo. Sono definiti contrattualmente, per ciascun incarico, l’oggetto, gli obiettivi da conseguire, la durata dell’incarico, salvo i casi di revoca di cui all’art. 21, nonché il corrispondente trattamento economico”.

[2] D’Alessio in “Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” Commentario diretto da Franco Carinci e Massimo D’Antona, vol I, pag. 781. A tal proposito, si è inoltre detto che “L’affidamento a tempo determinato risulta, altresì, l’unico coerente con il già indicato processo circolare (fissazione dell’obiettivo-conferimento dell’incarico-valutazione dell’attività), in cui l’ultimo passaggio, cioè appunto la valutazione dell’attività dirigenziale, si pone nel contempo come momento terminale di accertamento dei risultati ottenuti dal dirigente e come momento iniziale per la conferma al medesimo incarico precedentemente svolto o per l’assegnazione ad altro incarico di diverso pregio. L’affidamento dell’incarico a tempo indeterminato ostacolerebbe in maniera significativa l’attuazione di detto processo” A. Boscati “Incarichi, valutazione e mobilità dei dirigenti. Formazione”in “Icontratti per le aree dirigenziali” – Commentario diretto da F. Carinci e C. D’Orta, ed Giuffrè.

[3] Cons. Stato 17.7.1996 n° 875.

[4] Per tutte, Cons. Stato, 7.6.1996.

[5] L’art. 19 del T.U. 165/01, al comma 7 dispone che “gli incarichi di direzione degli uffici dirigenziali di cui ai comma precedenti sono revocati nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione, disciplinate dall’art. 21, ovvero nel caso di risoluzione consensuale del contratto individuale di cui all’art. 24, comma 2.

[6] Si vedano, a tal proposito, l’art. 109 TUEL e gli art. 13 e 14 CCNL area dirigenza, comparto regioni –autonomie locali, 1999-2001.

[7]A tal riguardo, ricordo che, relativamente alla revoca determinata da ragioni organizzative e produttive, l’art. 13 del CCNL dispone, come visto, che esse debbano essere appunto motivate, e l’articolato procedimento di valutazione previsto dall’art. 14 per la verifica dei risultati ottenuti dai dirigenti induce a ritenere che comunque esso si concluderà sempre con un atto motivato; per il conferimento degli incarichi, l’art. 109 del Testo Unico degli Enti Locali dispone che vengano attribuiti con “provvedimento motivato”. Il dubbio non si limita, ovviamente, all’applicabilità dell’art. 3 della L. 241/’90, ma si estende a tutte le altre disposizioni della normativa: si pensi ad esempio all’art. 7, in caso di mancata comunicazione all’interessato dell’avvio di un qualsivoglia procedimento riguardante il suo rapporto di lavoro

[8] L’art. 2 del dlgs 165/01, I comma, dispone che “le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge, e sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive”.

[9] M. D’Antona,” Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle leggi Bassanini”, in prefazione a “Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” Commentario diretto da Franco Carinci e Massimo D’Antona, II ed., tomo I.

[10] In questo senso Trib. Genova 19 agosto 1999 e Trib. Genova 26 maggio 2000, che, pronunciandosi in particolare sulla revoca di un trasferimento disposto a seguito di errore degli uffici, lo hanno qualificato come nuovo trasferimento, la cui legittimità è correlata ai presupposti dell’art. 2103 c.c..

[11] C. D’Orta, “il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e privato”, in  Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” Commentario diretto da Franco Carinci e Massimo D’Antona, vol I, pag. 770.

[12] D’Orta in “Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e privato”, op. cit.;  D’Alessio “Gli incarichi di funzioni dirigenziali” in Carinci –D’Antona (a cura di) “Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” 2000, 769 s.s. In giurisprudenza la tesi è condivisa da TAR Puglia, Lecce, sez. I, 6.2.1999 n° 271; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 21.1.1999; Trib. Potenza 16.11.1999 (ord.).

[13] Come, all’indomani della riforma sul pubblico impiego aveva ritenuto lo stesso Consiglio di Stato, nel parere del 31 agosto 1992 n° 146 sul disegno governativo di legge delega.

[14] Per tutti Zoppoli, “La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche”, in N. leggi civ. comm., 1999, 1165; Nello stesso senso Sordi, “I confini della giurisdizione ordinaria nelle controversie di pubblico impiego”, in Arg. dir. lav., 1999, 179. In giurisprudenza la tesi è condivisa da TAR Sicilia, Catania, 17.5.1999 n°1034/ord.; Trib. Bari, 12.7.1999 (ord.); Trib. Milano, 11.4.2000 (ord.); Trib. Catania 9.5.2000(ord.); Trib. Nocera Inferiore 30.3.2000 (ord.); Trib. Vicenza ord. 23.8.1999; Tribunale di Teramo, ord. 9.5.200.