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14 marzo 2011
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Ma a Roma non se ne sono accorti (di Romano Pitaro)
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L’attesa è stata fiduciosa, ma inesorabile. Alla fine, però, è stata delusa. Perché? Delle due, l’una: o è stolto, e può essere, chi si pone un quesito del genere, oppure a Roma il “Palazzo” vacilla. Come se avessero smarrito, nel “Palazzo” di pasoliniana memoria, persino la visione d’insieme del Paese. Non più consapevoli dei confini italiani. O non più in grado di controllare la geografia su cui la Repubblica esercita la sua sovranità, e occuparsi, di conseguenza, dei tratti problematici che affiorano nel Paese. Soprattutto in questa parte di Mezzogiorno. Se ormai si guarda con attenzione soltanto a ciò che avviene intorno al “Palazzo” o su di lì, mentre si serrano gli occhi se in Calabria un imprenditore rischia la vita per tenere fede alla sua onestà o un politico si ritrova con la porta sforacchiata dai proiettili, pur non essendo in odore di mafia, tutt’al più di sagrestia e spassionato impegno nel sociale, è segno che la salute di Roma è malferma. Per giunta ora che lo Stato si prepara a festeggiare un compleanno di 150 anni, con tanto di convegnistica, fanfare e retorica a gogò. Se non reagiscono neppure quando in una regione italiana - perché fino a prova contraria la Calabria è ancora Italia - un politico è preso di mira a pistolettate, nel pieno, leale e trasparente impegno antimafia cui è stato delegato dall’Istituzione Regione, che altro deve accadere? Colpiscono, con sette colpi di pistola alla porta della sue segreteria a Cosenza, la serenità umana e l’impegno del presidente della commissione contro la ‘ndrangheta della Regione, ma da Roma non giunge neppure un rigo (uno) di solidarietà. Neanche una telefonata per interposta persona. Come dire: non è successo niente. Per noi, quei colpi di pistola indirizzati a Salvatore Magarò, presidente di un organismo che proprio di ‘ndrangheta si occupa e ha l’ardire, guarda caso, di non essere inerte e compiacente ma attivo ed incisivo, non ci sono stati. Se ne occupino le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria. Lo Stato non intende manifestare la sua vicinanza a chi lo rappresenta in un’area alla cui soglia per l’Italia sembra esserci una targa con su scritto “Hic sunt leones”. Alla larga! Questo è il messaggio che s’intuisce. O peggio: sbrigatevela tra di voi. Già, perché questa dev’essere la ragione che svela cotanta indifferenza: con le “cose” della Calabria, specie se lambiscono in la politica ( e non importa il colore), Roma preferisce tenersi a debita distanza. Così però non va bene. Così, si rischia di buttare con l’acqua sporca anche il bambino. Di non vedere che, nell’inferno chiamato Calabria, non tutto è inferno. Non tutto è mafia. E che se quella parte di non inferno che pure c’è non l’aiuti, come scriveva Italo Calvino, la partita è persa. Credo che il presidente Magarò abbia atteso uno squillo del telefono. Un telegramma, magari con su scritto “Forza e coraggio, siamo con te!” Firmato da una qualche Istituzione. Proveniente da un qualche “Palazzo” di Stato. Niente, silenzio assordante. Passi la distrazione del ministro dell’Interno, Maroni . Può essere compreso: è affaccendato a sperimentare, col disastro del Maghreb alle porte ormai esploso e di cui non s’è punto accorto, il nuovo metodo buonista a scoppio ritardato. Ma caspita, davvero a Roma non c’è un sottosegretario disposto a dire non grazie, questo non lo si pretende, ma perlomeno a riconoscere con un attestato pubblico di solidarietà il buon lavoro contro la mafia messo a punto da Magarò e dal Consiglio regionale di una terra spesso condannata dal sistema mediatico ad essere il capro espiatorio dei mali dell’Italia ? C’è chi invoca , come il mugnaio di Postadam, pur essendo tutt’altro che un mugnaio, un giudice a Berlino che ponga termine alle ingiustizie. E c’è, invece, una regione d’Italia che attende invano la solidarietà di un sottosegretario. A questo siamo arrivati. Ad applicare sistematicamente nei confronti della Calabria la regola cui s’ispirava il gesuita Pintacuda: il sospetto è l’anticamera della verità. Ma è lapalissiano che, se non si cambia, alla fine di questo percorso, non c’è da attendersi alcunché di buono.
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