RICORSO N. 35 DEL 6 MARZO 2020 (DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI)

Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 6 marzo 2020.

(GU n. 17 del 22.4.2020)

 

Ricorso per la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio attualmente in carica, rappresentata e difesa per mandato ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, via dei Portoghesi 12, ricorrente;   Contro la Regione Liguria, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, resistente;   Per la dichiarazione di incostituzionalita' degli articoli 2 comma l, 3 commi l e 2, 4 commi l, 2 e 3 della legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 recante «Disciplina per il riutilizzo di locali accessori, di pertinenza di fabbricati e di immobili non utilizzati», pubblicata nel Bollettino Ufficiale regionale n. 19 del 31 dicembre 2019.

Il Consiglio regionale della Liguria ha approvato il 24 dicembre 2019 la legge n. 30 che in sei articoli si occupa del riutilizzo di locali accessori e pertinenziali dei fabbricati, nonche' degli immobili anche diroccati che non risultino utilizzati da almeno cinque anni dalla sua entrata in vigore, per destinarli ad uso residenziale, turistico ricettivo, produttivo, commerciale, rurale e per servizi.

Si tratta in sostanza di una normativa che si propone di restituire a funzioni di sviluppo economico edifici o parti di edifici, creando opportunita' di riuso che non comporti consumo di suolo.

Tale normativa tuttavia, ad avviso della Presidenza del Consiglio dei ministri si pone in contrasto con i principi costituzionali sotto svariati profili, e deve pertanto essere impugnata per i seguenti

 

Motivi

 

1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma l, della legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

La norma in questione prevede che il riutilizzo per le finalita' di legge dei locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati, puo' essere realizzato attraverso interventi sino alla ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001. Inoltre, l'intervento consistente nel mero mutamento di destinazione d'uso senza opere e' soggetto alla segnalazione certificata di inizio attivita' (SCIA) ai sensi dell'art. 13-bis della legge regionale della Liguria n. 16/2008.

La norma regionale richiamata (intitolata «Disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso senza opere») a sua volta stabilisce che i cambi di destinazione d'uso non comportanti opere edilizie sono soggetti a presentazione di segnalazione certificata di inizio attivita' (SCIA) ai sensi dell'art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Secondo l'interpretazione che la giurisprudenza amministrativa e penale pacificamente da' della normativa statale che regola la materia, il cambio di destinazione d'uso da cantina/garage a civile abitazione, in quanto comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra, rientra tra gli interventi edilizi per i quali e' necessario il rilascio del permesso di costruire.

Tale necessita' non viene meno ne' si attenua per il fatto che l'attuale legislazione prevede, accanto al permesso di costruire vero e proprio la SCIA alternativa al permesso di costruire. La distinzione tra SCIA e SCIA alternativa al permesso di costruire emerge con ogni evidenza, se si considera che la seconda disegna un procedimento aggravato (articoli 22 e 23 testo unico n. 380/2001).

Come noto, le norme del testo unico dell'edilizia sono considerate espressione di principi fondamentali dettati dallo Stato nella materia edilizia, che come tali devono valere su tutto il territorio nazionale.

Nella fattispecie, e' indubbio che la norma qui censurata (anzi, l'intera legge) interviene a regolare una materia, il governo del territorio, che e' di competenza regionale; ma trattasi di competenza legislativa concorrente che deve - in quanto tale - rispettare i principi fondamentali dettati dallo Stato.

E' evidente come gli interventi edilizi, quanto a titoli abilitativi, non possano ricevere una disciplina diversa da regione a regione; pertanto, la trasformazione della destinazione d'uso di un bene che comporta il passaggio da una categoria urbanistica ad un'altra non puo' essere sottoposta qui a SCIA semplice e la' a permesso di costruire o a SCIA rinforzata.

La norma di cui all'art. 2,. comma l, della legge regionale in questione non rispetta il limite imposto dall'art. 117, comma 3, della Costituzione ed e' pertanto illegittima.

2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma l, della legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

La disposizione in rubrica prevede che il riutilizzo per i fini di legge di locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati, nonche' di immobili non utilizzati, anche diroccati, e' ammesso in deroga alla disciplina dei vigenti strumenti e piani urbanistici comunali, nonche' alla disciplina del vigente piano territoriale di coordinamento paesistico regionale, approvato ai sensi della legge regionale 22 agosto 1984, n. 39 (Disciplina dei piani territoriali di coordinamento) e successive modificazioni ed integrazioni.

Questa possibilita' di riutilizzo si pone in contrasto - anche in questo caso - con le norme statali in materia edilizia, considerando che l'art. 14 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 consente il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici solo per edifici ed impianti di interesse pubblico previa deliberazione del Consiglio comunale, comunque nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attivita' edilizia.

La stessa norma statale consente il permesso di costruire in deroga alle destinazioni d'uso per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, ma anche qui previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l'interesse pubblico, e a condizione che il mutamento di destinazione d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall'art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 20l, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni.

E in ogni caso, la deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, puo' riguardare esclusivamente i limiti di densita' edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, nonche', nei casi di cui al comma l-bis, le destinazioni d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444.

Se questa e' la disciplina statale, il legislatore non puo' discostarsene dettando una regola diversa, piu' lasca e piu' permissiva, perche' anche in questo caso - come s'e' detto per la norma censurata con il precedente motivo - la competenza legislativa concorrente incide nella materia dei titoli abilitativi in modo difforme dalla regola generale, che non puo' ammettere per sua natura differenziazioni territoriali.

L'art. 3, comma l, della legge regionale n. 30/2019 e' pertanto illegittimo per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

3) Illegittimita' costituzionale, sotto altro profilo, dell'art. 3, commi l e 4, della legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 9 e dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

La disciplina dettata da tali norme incentiva in maniera generalizzata gli interventi su una pluralita' di fabbricati, anche vetusti, disseminati su tutto il territorio regionale. Oggetto della legge sono, quindi, anche gli immobili di interesse culturale e paesaggistico, sottoposti a tutela ai sensi della Parte II e della Parte III del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

Non e' infatti prevista alcuna eccezione in favore di tali beni agli articoli 3 o 4 della stessa legge, ove si prevedono, rispettivamente, le deroghe e gli ambiti di esclusione e, in tale ultimo caso, si demanda, peraltro, esclusivamente al Consiglio comunale la possibilita' di stabilire alcune limitate eccezioni all'indiscriminata applicazione su tutto il territorio regionale della disciplina introdotta.

Conseguentemente, la legge regionale invade la competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s ), della Costituzione - rispetto al quale le previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio costituiscono norme interposte - e si pone anche in contrasto con il principio fondamentale della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione di cui all'art. 9 della Costituzione.

Il riutilizzo e' consentito anche in deroga ai vigenti strumenti urbanistici (art. 3, comma 1) e non e' prevista alcuna eccezione in relazione ai beni sottoposti a tutela ai sensi della Parte II del codice di settore. Conseguentemente, la legge incide direttamente sul regime di tali beni, in quanto incentiva gli interventi di modifica di immobili potenzialmente, per la loro vetusta', di interesse culturale.

Al riguardo, deve tenersi presente che, ai sensi dell'art. 20, comma l, del codice di settore «I beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione». Anche la modifica della destinazione d'uso di tali beni - incentivata indiscriminatamente dalla legge regionale in esame - presenta pertanto una diretta rilevanza ai fini della tutela. In ogni caso, e' del tutto estranea alle attribuzioni regionali la disciplina delle possibilita' di «riutilizzo» di beni culturali sottoposti a tutela, essendo tale disciplina rimessa esclusivamente allo Stato.

E' nota la costante giurisprudenza costituzionale, che ha posto una precisa linea di distinzione tra le competenze legislative statali e regionali, riservando allo Stato la competenza tutte le volte in cui oggetto della disciplina sia un bene tutelato, anche avendo riguardo al «supporto materiale» inciso dalla normativa.

In particolare, gia' con la sentenza n. 9 del 2004 la Corte ha evidenziato come rientri tra le attivita' costituenti tutela, riservata in via esclusiva allo Stato, quella diretta «a conservare i beni culturali e ambientali», ossia volta «principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale».

Non spetta, pertanto, alla regione dettare una disciplina volta a incentivare il «riutilizzo», anche con cambio di destinazione d'uso, di immobili sottoposti a tutela ai sensi della Parte II del codice dei beni culturali e del paesaggio.

Da cio' discende l'illegittimita' della legge regionale in esame nella parte in cui, all'art. 3, nel disciplinare le deroghe, mantiene salva solo una parte del PTRC regionale, senza prevedere un'analoga clausola di salvaguardia a favore del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e all'art. 4, demanda unicamente ai Comuni, nei casi ivi indicati, la limitazione dell'ambito di applicazione della disciplina introdotta dalla stessa legge, senza parimenti escludere dall' ambito applicativo della legge i beni sottoposti a tutela ai sensi della Parte II dei beni culturali e del paesaggio.

E', inoltre, violato l'art. 9 della Costituzione, in considerazione del potenziale pregiudizio ai beni tutelati derivante dagli interventi incentivati dalla legge regionale.

Sotto altro profilo, e con specifico riferimento al paesaggio, la disciplina introdotta dalla legge regionale in esame, destinata a consentire in modo indiscriminato, in relazione all'intero territorio regionale, il «riutilizzo» di immobili, anche sottoposti a vincolo paesaggistico, comporta il sostanziale svuotamento della funzione propria del piano paesaggistico.

Nel disegno delineato dagli articoli 135, 143 e 145 del codice dei beni culturali e del paesaggio spetta infatti a quest'ultimo strumento di dettare, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni d'uso (e cioe' i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e di stabilire la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonche' le condizioni delle eventuali trasformazioni.

La disciplina introdotta dalla legge regionale impugnata avrebbe, percio', dovuto prevedere la propria applicazione, in relazione ai beni paesaggistici, esclusivamente nei casi e con le modalita' previamente determinati dal piano paesaggistico in corso di elaborazione congiunta con il Ministero per i beni le attivita' culturali o eventualmente fissati d'intesa con quest'ultimo e destinati a confluire nel futuro piano. Cio' allo scopo di evitare che, in sede di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, le singole trasformazioni vengano valutate in modo parcellizzato, e non nell'ambito della considerazione complessiva del contesto tutelato specificamente demandata al piano paesaggistico, secondo la scelta operata al riguardo dal legislatore nazionale.

La Corte costituzionale ha, infatti, da tempo affermato l'esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte costituzionale n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «e' assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale» (Corte costituzionale, n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).

Conseguentemente, e' da ritenere costituzionalmente illegittima la norma in rubrica che, nel disciplinare le deroghe e prevedere le clausole di salvaguardia, non prevede analoga clausola in favore del piano paesaggistico o di uno specifico stralcio di esso nonche' l'art. 4 il quale demanda l'eventuale esclusione dell'applicazione della disciplina introdotta dalla stessa legge unicamente ai comuni, «in relazione a specifiche esigenze di tutela paesaggistica», e nelle sole fattispecie ivi indicate (ossia «limitatamente al riutilizzo di locali contigui alla strada pubblica» e, in questi casi, unicamente con riferimento al «riutilizzo per l'uso residenziale dei locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati»), senza subordinare l'applicazione della medesima normativa alla previa introduzione di un'apposita disciplina d'uso dei beni paesaggistici tutelati, elaborata d'intesa con il Ministero per i beni e le attivita' culturali, ai sensi degli articoli 135, comma l, e 143, comma 2, del codice di settore.

Anche per questo aspetto, la disposizione qui censurata si pone in contrasto con la potesta' legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

E', inoltre, violato l'art. 9 della Costituzione - il quale pone la tutela del paesaggio quale interesse primario e assoluto (cfr. Corte costituzionale n. 367 del 2017) - in considerazione del potenziale pregiudizio ai beni tutelati derivante dagli interventi incentivati dalla legge regionale.

4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 2 e 3, della legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 32 e dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

La norma prevede al comma 2 che l'altezza interna dei locali destinati alla permanenza di persone non puo' essere inferiore a 2,40 metri, e che qualora i locali da recuperare presentino altezze interne diverse tra loro, si considera l'altezza media.

Al comma 3 essa dispone che il rispetto dei parametri di aeroilluminazione e dell'altezza minima interna e' assicurato anche con opere edilizie che possono interessare i prospetti del fabbricato o mediante l'installazione di impianti e attrezzature tecnologiche.

Le disposizioni in questione si pongono in contrasto, in particolare, con il disposto di cui al decreto ministeriale 5 luglio 1975 «Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienicosanitari principali dei locali d'abitazione», il quale all'art. l stabilisce che:   l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione e' fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli (comma 1);   nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare puo' essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2);   le altezze minime previste nel primo e secondo comma possono essere derogate entro i limiti gia' esistenti e documentati per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di comunita' montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie quando l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo meritevoli di conservazione ed a condizione che la richiesta di deroga sia accompagnata da un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative atte a garantire, comunque, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio, ottenibili prevedendo una maggiore superficie dell'alloggio e dei vani abitabili ovvero la possibilita' di una adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali e dall'impiego di mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3).

Lo stesso DM all'art. 5 prevede inoltre che: «Tutti i locali degli alloggi, eccettuati quelli destinati a servizi igienici, disimpegni, corridoi, vani-scala e ripostigli debbono fruire di illuminazione naturale diretta, adeguata alla destinazione d'uso.

Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della finestra deve essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore luce diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata apribile non dovra' essere inferiore a 1/8 della superficie del pavimento.

Per gli edifici compresi nell'edilizia pubblica residenziale occorre assicurare, sulla base di quanto sopra disposto e dei risultati e sperimentazioni razionali, l'adozione di dimensioni unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi.».

Le disposizioni regionali in questione non sono coerenti, inoltre, con la disciplina contenuta nel decreto ministeriale 26 giugno 2015 «Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici», allegato l, punto 2.3 «Prescrizioni», n. 4, laddove si prevede che « ... nel caso di installazione di impianti termici dotati di pannelli radianti a pavimento o a soffitto e nel caso di intervento di isolamento dall'interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste al primo e al secondo comma, del decreto ministeriale 5 luglio 1975, possono essere derogate, fino a un massimo di 10 centimetri. Resta fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000 sul livello del mare puo' essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55...».

La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che le norme in tema di altezza minima ed aereoilluminazione, seppur previste da un decreto ministeriale (e quindi da norme di carattere regolamentare) costituiscono diretta attuazione degli articoli 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, n. 126. Secondo i principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 256/1996) le norme in materia di salubrita' ai fini dell'abitabilita' degli edifici non sono derogabili quando i relativi requisiti sono fissati da disposizioni legislative e quindi costituiscono limiti invalicabili nel rilascio dell'abitabilita'. In altri termini, le norme anche regolamentari che attengono direttamente alla salubrita' e vivibilita' degli ambienti, sono dirette a tutelare condizioni protette direttamente da norme primarie e costituzionali (cosi' Cons. Stato, IV, sentenza n. 1997/2004 ). In questi casi, cioe', la norma secondaria concretizza il generico imperativo della norma primaria sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in direzione di una tutela della salute e sicurezza degli ambienti. La verifica dell'abitabilita' non puo' prescinderne.

Del resto, come riconosce il giudice amministrativo con ragionamento senz'altro da condividere, una diversa interpretazione che giungesse a sostenere la derogabilita' dei requisiti minimi di salubrita', per il sol fatto di essere fissati con norma regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, oltre che con l'art. 32 della stessa.

Alla luce della giurisprudenza sopra richiamata le disposizioni regionali in rubrica ledono sia l'art. 32 della Costituzione (per contrasto con i parametri interposti rappresentati dalle citate disposizioni del decreto ministeriale 5 luglio 1975) che l'art. 117, comma 3, della stessa Costituzione perche' non rispettano il limite dei principi fondamentali dettati dallo Stato a tutela della salute e del governo del territorio.

5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 3, della legge regionale 24 dicembre 2019, n. 30 per violazione dell'art. 3 della Costituzione.

La norma in rubrica presenta ulteriori vizi di legittimita' costituzionale per il fatto che ai suoi sensi le disposizioni della legge in esame si applicano non solo agli immobili esistenti (presumibilmente corrispondenti ad immobili legittimamente realizzati o regolarmente legittimati alla data di entrata in vigore della legge medesima, ma anche a quelli per la cui costruzione sia gia' stato conseguito il titolo abilitativo edilizio o l'approvazione dell'eventuale programma integrato di intervento richiesto alla data di approvazione della delibera del Consiglio comunale di cui al comma l del medesimo articolo.

In tal modo, la portata derogatoria (gia' di per se' censurabili per i motivi sopra esposti) viene, di fatto, estesa, con valenza retroattiva, ad immobili per la cui costruzione sia gia' stato conseguito il titolo abilitativo edilizio o l'approvazione dell'eventuale programma integrato di intervento.

Atteso che la previsione regionale e' caratterizzata da un indubbio carattere innovativo, con efficacia retroattiva, essa potrebbe rendere legittime condotte che, non considerate tali al momento della loro realizzazione (perche' non conformi agli strumenti urbanistici di riferimento), lo divengono per effetto dell'intervento successivo del legislatore, con l'ulteriore conseguenza di consentire la regolarizzazione ex post di opere che, al momento della loro realizzazione, erano in contrasto con gli strumenti urbanistici di riferimento, dando corpo a un intervento che esula dalle competenze regionali e risulta pertanto illegittimo.

La giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale n. 73 del 2017) non esclude che il legislatore regionale possa dettare norme sia retroattive che di interpretazione autentica, ma esige un'adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata (v. anche Corte costituzionale n. 170 del 2013).

Nella specifica materia urbanistica, le giustificazioni della retroattivita' devono ritenersi recessive rispetto al valore della certezza del diritto, rispetto alla quale assume una peculiare rilevanza l'affidamento che la collettivita' ripone nella sicurezza giuridica (Corte costituzionale n. 209 del 2010). Del resto, pur guardando alla potenziale incidenza delle norme impugnate sui rapporti tra privati, va osservato che le stesse, per quanto prevalentemente di favore rispetto agli interessi dei singoli destinatari, retroagendo nel tempo sacrificano, in linea di principio, le posizioni soggettive dei potenziali controinteressati che facevano affidamento sulla stabilita' dell'assetto normativo vigente all'epoca delle singole condotte.».

A cio', si aggiunga, con specifico riferimento alla prevista approvazione dell'eventuale programma integrato di intervento, che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 232 del 2017, ha precisato che «Ne' alcun rilievo assume la presunta coerenza delle disposizioni impugnate con gli approdi di una parte della giurisprudenza amministrativa (sulla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale), peraltro contraddetta da orientamenti consolidati, espressi anche di recente (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016), «perche' un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe che provenire dal legislatore statale» (sentenza n. 233 del2015).

La norma in esame, quindi, nel prevedere una retroattivita' non giustificata da ragioni costituzionalmente accettabili e contrastando, nell'introdurre comunque misure non legittime, con l'esigenza della certezza giuridica, viola i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento all'art. 3 della Costituzione.

 

P.Q.M.

 

Per tutti gli esposti motivi, la Presidenza del Consiglio dei ministri, come sopra rappresentata e difesa conclude affinche' la Corte costituzionale voglia dichiarare costituzionalmente illegittime le norme della legge regionale ligure n. 30/2019 con il presente ricorso censurate.

Roma, 28 febbraio 2020

L'Avvocato dello Stato: Corsini