RICORSO N. 27 DEL 2 MARZO 2020 (DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI)

Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 2 marzo 2020.

(GU n. 15 del 8.4.2020)

 

Ricorso ai sensi dell'art. 127 Cost. del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12;   Contro la Regione del Veneto, in persona del Presidente in carica per l'impugnazione della legge regionale del Veneto 23 dicembre 2019, n. 51, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto n. 150 del 27 dicembre 2019, recante «Nuove disposizioni per il recupero dei sottotetti a fini abitativi», in relazione:   all'art. 1, comma 1°;   all'art. 2, commi 1°, 2° e 3°;   all'art. 3.

La legge regionale del Veneto n. 51 del 2019 ha la finalita', enunciata nel suo art. 1, comma 1°, di promuovere «il recupero dei sottotetti a fini abitativi con l'obiettivo di contenere il consumo di suolo attraverso un piu' efficace riutilizzo dei volumi esistenti e la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, favorendo la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici, nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e morfologiche degli edifici nonche' delle prescrizioni igienico-sanitarie riguardanti le condizioni di abitabilita'», fatto «salvo quanto previsto all'art. 2».

Tale art. 2, rubricato «Condizioni e limiti di applicazione», nei suoi primi tre commi dispone quanto segue:   «1. Il recupero dei sottotetti consentito purche' risultino legittimamente realizzati alla data del 6 aprile 2019. Il regolamento edilizio comunale determina le condizioni e i limiti per il recupero a fini abitativi dei sottotetti, fermo restando il rispetto dei seguenti parametri:   a) l'altezza utile media di 2,40 metri per i locali adibiti ad abitazione, di 2,20 metri per i Comuni montani disciplinati ai sensi della legge regionale 28 settembre 2012, n. 40 «Norme in materia di unioni montane» e di 2,20 metri per i locali adibiti a servizi, quali corridoi, disimpegni, ripostigli e bagni. L'altezza utile media sara' calcolata dividendo il volume utile della parte del sottotetto la cui altezza superi 1,60 metri, ridotto a 1,40 metri per i comuni montani, per la relativa superficie utile; gli eventuali spazi di altezza inferiore ai minimi devono essere chiusi mediante opere murarie o arredi fissi e ne puo' essere consentito l'uso come spazio di servizio destinato a guardaroba e a ripostiglio. Per i locali con soffitto a volta, l'altezza media e' calcolata come media aritmetica tra l'altezza dell'imposta e quella del colmo misurata con una tolleranza fino al 5 per cento;   b) il rapporto illuminante deve essere pari o superiore a un sedicesimo;   c) i progetti di recupero devono prevedere idonee opere di isolamento termico anche ai fini del contenimento di consumi energetici che devono essere conformi alle prescrizioni tecniche ed energetiche ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 «Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell'edilizia»;   d) il recupero dei sottotetti e' consentito esclusivamente per l'ampliamento delle unita' abitative esistenti e non puo' determinare un aumento del numero delle stesse.

2. Gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei sottotetti, devono avvenire senza alcuna modificazione della sagoma dell'edificio esistente, delle altezze di colmo e di gronda nonche' delle linee di pendenza delle falde, fatta salva la necessita' di inspessire verso l'esterno le falde di copertura per garantire i requisiti di rendimento energetico. il regolamento edilizio comunale determina le tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione al fine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell'edificio sul quale si intende intervenire.

3. Fatte salve le diverse previsioni del piano regolatore comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi degli articoli 13 e 17 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 «Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio» e della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 «Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137», nel regolamento edilizio puo' essere prevista la ulteriore esclusione di determinate tipologie edilizie dal recupero a fini abitativi dei sottotetti con deliberazione del Consiglio comunale. In particolare sono esclusi interventi ricadenti in aree soggette a regime di inedificabilita' sulla base di pianificazioni territoriali sovraordinate, in aree a pericolosita' idraulica o idrogeologica i cui piani precludano interventi di ampliamento volumetrico o di superficie».

Il successivo art. 3, intitolato «Titolo abilitativo e contributo di costruzione», stabilisce quanto segue:   «1. Gli interventi diretti al recupero dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia».

2. Gli interventi previsti dal comma 1 sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di attivita' (SCIA), ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, e comportano la corresponsione di un contributo commisurato agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ed al costo di costruzione di cui all'art. 16 del medesimo decreto, calcolati sulla volumetria resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione.

3. I comuni possono deliberare l'applicazione di una maggiorazione, nella misura massima del venti per cento del contributo di costruzione dovuto, da destinare preferibilmente alla realizzazione di interventi di riqualificazione urbana, di arredo urbana e di valorizzazione del patrimonio comunale di edilizia residenziale.

4. Gli interventi di recupero dei sottotetti restano subordinati al reperimento degli spazi per parcheggi pertinenziali in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione soggetta alla ristrutturazione, salvo quanto disposto dal comma 4 dell'art. 2»   Nella seduta del 21 febbraio 2010, il Consiglio dei ministri ha deliberato di impugnare la legge regionale in esame, in relazione ai suoi articoli 1, comma 1°, 2, commi 1°, 2 ° e 3° e 3, ritenendo che tali disposizioni «violano gli articoli 3 e 97 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, l'art. 32 della Costituzione, che riconosce la tutela [del]la salute come fondamentale diritto dell'individuo, in contrasto altresi' con la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio di cui all'art. 117, secondo comma lettera s) della Costituzione, e [con i] principi fondamentali in materia di governo del territorio e tutela della salute, e quindi con il terzo comma dell'art. 117 della Costituzione».

Il Presidente del Consiglio dei ministri propone, pertanto, ricorso ai sensi dell'art. 127 Cost. per i seguenti

 

Motivi

 

1) Violazione degli articoli 3 e 32 della Costituzione. In relazione all'art. 117, comma terzo, violazione di principi fondamentali nelle materie, di legislazione concorrente, della «tutela della salute» e del «governo del territorio».

Le disposizioni dell'art. 1, comma 1° e dell'art. 2, comma 1°, della legge regionale si pongono in contrasto con il disposto del decreto del Ministro della Sanita' del 5 luglio 1975 e s.m.i., recante «Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione», il quale, all'art. 1, stabilisce che:   l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione e' fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli (comma 1°);   nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare puo' essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2°);   le altezze minime previste nel primo e secondo comma possono essere derogate entro i limiti gia' esistenti e documentati per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di comunita' montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie quando l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo meritevoli di conservazione ed a condizione che la richiesta di deroga sia accompagnata da un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative atte a garantire, comunque, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio, ottenibili prevedendo una maggiore superficie dell'alloggio e dei vani abitabili ovvero la possibilita' di una adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali e dall'impiego di mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3°).

Il medesimo decreto ministeriale 5 luglio 1975, all'art. 5, prevede, poi, quanto segue:   «Tutti i locali degli alloggi, eccettuati quelli destinati a servizi igienici, disimpegni, corridoi, vani-scala e ripostigli debbono fruire di illuminazione naturale diretta, adeguata alla destinazione d'uso.

Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della finestra deve essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore luce diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata apribile non dovra' essere inferiore a 1/8 della superficie del pavimento.

Per gli edifici compresi nell'edilizia pubblica residenziale occorre assicurare, sulla base di quanto sopra disposto e dei risultati e sperimentazioni razionali, l'adozione di dimensioni unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi».

Ne' le disposizioni regionali in questione appaiono coerenti con la disciplina contenuta nel decreto del Ministro dello sviluppo economico del 26 giugno 2015, recante «Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici» che, all'Allegato 1, punto 2.3 («Prescrizioni»), n. 4, stabilisce che «nel caso di installazione di impianti termici dotati di pannelli radianti a pavimento o a soffitto e nel caso di intervento di isolamento dall'interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste al primo e al secondo comma, del decreto ministeriale 5 luglio 1975, possono essere derogate, fino a un massimo di 10 centimetri. Resta fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000 sul livello del mare puo' essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55».

Le disposizioni del decreto ministeriale 5 luglio 1975 costituiscono diretta attuazione della normativa nazionale in materia di igiene e di suolo pubblico negli aggregati urbani.

Al riguardo, vale richiamare le considerazioni contenute nella sentenza n. 1997 del 2014 della Sezione IV del Consiglio di Stato, secondo la quale «le norme in tema di altezza minima ed aereo illuminazione (...), seppur previste dal decreto del Ministro della Sanita' del 5 luglio 1975 (e quindi da norme di carattere regolamentare) costituiscono diretta attuazione degli articoli 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, n. 126. Il carattere secondario della fonte non toglie che esse attengano direttamente alla salubrita' e vivibilita' degli ambienti, ossia a condizioni tutelate direttamente da norme primarie e costituzionali. In questi casi, cioe', la norma secondaria concretizza il generico imperativo della norma primaria sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in direzione di una tutela della salute e sicurezza degli ambienti. La verifica dell'abitabilita' non puo' prescinderne. Del resto, una diversa interpretazione che giungesse a sostenere la derogabilita' dei requisiti minimi di salubrita', per il sol fatto di essere fissati con norma regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, oltre che con l'art. 32 della stessa». (1)   Queste condivisibili considerazioni del Consiglio di Stato si attagliano, mutatis mutandis, anche alle disposizioni regionali oggetto del presente motivo di ricorso, che contengono una disciplina a regime per il recupero dei sottotetti a fini abitativi (tanto e' vero che all'art. 5, comma 3, si dispone che «Le volumetrie dei sottotetti recuperate ai sensi della presente legge non sono computabili ai fini dell'applicazione degli articoli 6 e 7 della legge regionale 4 aprile 2019, n 14»).

Queste disposizioni violano, dunque, l'art. 3 e l'art. 32 della Costituzione in quanto si discostano, senza che emerga una ragionevole giustificazione, dai parametri individuati dallo Stato con il decreto ministeriale del 5 luglio 1975.

Le disposizioni in questione si pongono altresi' in contrasto con i principi fondamentali nelle materie della tutela della salute e del governo del territorio, stabiliti nel medesimo decreto ministeriale, cui - per le ragioni sopra indicate - puo' essere attribuita efficacia precettiva e inderogabile, tale da costituire efficace fonte di delimitazione della concorrente competenza regionale, cosi' come e' stato ripetutamente affermato, in un ambito di regolazione contiguo a quello qui in esame, con riferimento alla disciplina contenuta nel decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, in materia di limiti inderogabili di densita' edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati (si confronti, per tutte, la sentenza n. 134 del 2014).

2) Violazione dell'art. 9 della Costituzione. In relazione all'art. 117, comma secondo, lettera 2), Cost. violazione della potesta' legislativa esclusiva dello Stato nella materia della «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Violazione del principio di leale collaborazione.

La disposizione di cui all'art. 2, comma 2, della legge regionale impone, opportunamente, che il recupero dei sottotetti avvenga senza alcuna modificazione della sagoma dell'edificio esistente, delle altezze di colmo e di gronda, nonche' delle linee di pendenza delle falde, fatta eccezione per l'ispessimento delle falde al fine di garantire i requisiti di rendimento energetico. Sono escluse, pertanto, le modificazioni piu' significative dell'aspetto esteriore degli edifici che potrebbero derivare dal recupero in questione e avere rilevanza paesaggistica.

Va tuttavia osservato che il recupero dei sottotetti puo' rendere necessaria l'apertura di finestre a raso e la creazione di abbaini o di altre tipologie di aperture, onde assicurare i requisiti illuminotecnici e di aerazione, ai fini dell'abitabilita' dei locali sottotetto.

Al riguardo, la norma regionale in esame demanda al regolamento edilizio comunale la determinazione delle «tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesistici, monumentali e ambientali dell'edificio sul quale si intende intervenire».

Inoltre, al comma 3°, con riguardo alla tutela monumentale di competenza statale, vengono fatte salve le diverse disposizioni della Parte II del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Per quanto concerne la tutela paesaggistica, la clausola di salvezza viene invece riferita alle «diverse previsioni del piano regolatore comunale per gli edifici soggetti a tutela ai sensi degli articoli 13 e 17 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 - "Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio"», dunque ai soli contenuti del piano regolatore comunale.

Ora, anche l'introduzione di aperture nei tetti puo' rivestire una rilevanza paesaggistica, in particolare nell'ambito dei centri storici o dell'edilizia storica extraurbana.

La determinazione delle «tipologie di apertura nelle falde e ogni altra condizione alfine di rispettare gli aspetti paesaggistici» non puo', pertanto, essere demandata, per gli ambiti territoriali sottoposti a tutela paesaggistica, ai regolamenti edilizi o ai piani urbanistici comunali, ma deve essere regolata necessariamente dal Piano paesaggistico, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, o dalla disciplina d'uso dei beni paesaggistici, di cui agli articoli 140, 141 e 141-bis del medesimo Codice.

Per tale ragione le citate disposizioni regionali invadono la sfera di competenza esclusiva riservata allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, e pregiudica l'interesse costituzionale alla tutela del paesaggio, tutelato dall'art. 9 della Costituzione, che costituisce valore primario e assoluto (si veda la sentenza n. 367 del 2007 della Corte).

Gia' con la sentenza n. 9 del 2004 la Corte aveva chiarito come rientri tra le attivita' costituenti tutela, riservata in via esclusiva allo Stato, quella diretta «a conservare i beni culturali e ambientali», ossia diretta «principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale».

Questa riserva di competenza statale sulla tutela dei beni culturali si giustifica anche in ragione della «peculiarita' del patrimonio storico-artistico italiano, formato in grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese sono espressione e testimonianza. Essi vanno considerati nel loro complesso come un tutt'uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato».

In termini piu' generali, la Corte ha precisato che sul territorio vengono a trovarsi di fronte - tra gli altri - «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007, cit.).

Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi. Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformita' normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul «paesaggio (...) della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che e' di per se' un valore costituzionale» (sentenza n. 367 del 2007), e sulla sua tutela (sentenza n. 309 del 2011).

Le disposizioni contrastano anche con la scelta del legislatore statale di rimettere alla pianificazione la disciplina d'uso dei beni paesaggistici (c.d. vestizione dei vincoli), ai fini dell'autorizzazione degli interventi: scelta, questa, esplicitata negli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturale e del paesaggio, costituenti norme interposte rispetto al parametro costituzionale di cui agli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s) della Costituzione.

Al riguardo, occorre tenere presente che la parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio delinea un sistema organico di tutela paesaggistica, inserendo i tradizionali strumenti del provvedimento impositivo del vincolo e dell'autorizzazione paesaggistica nel quadro della pianificazione paesaggistica del territorio, che deve essere elaborata concordemente da Stato e Regione.

Tale pianificazione concordata prevede, per ciascuna area tutelata, le c.d. prescrizioni d'uso (e cioe' i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e stabilisce la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonche' le condizioni delle eventuali trasformazioni.

Il legislatore nazionale, nell'esercizio della potesta' legislativa esclusiva in materia, ha assegnato al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145, comma 3, del Codice di settore stabiliscono, infatti, l'inderogabilita' delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonche' l'immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte cost. n. 180 del 2008).

Si tratta di una scelta di principio la cui validita' e importanza e' gia' stata affermata piu' volte dalla Corte, in occasione dell'impugnazione di leggi regionali che intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agii strumenti di pianificazione dei Comuni e delle Regioni, eludendo la necessaria condivisione delle scelte attraverso uno strumento di pianificazione sovracomunale, definito d'intesa tra lo Stato e a Regione.

La Corte ha, infatti, affermato l'esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (sent. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «e' assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto delta legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale» (sent. n. 182 del 2006; cfr. anche sent. n. 272 del 2009).

La legge regionale in esame, e in particolare l'art. 2, commi 2° e 3°, confliggono dunque con la normativa statale, laddove affida esclusivamente agli strumenti urbanistici la disciplina che regola, per i beni paesaggistici, le possibili trasformazioni delle coperture degli edifici potenzialmente anche molto rilevanti.

Basti pensare, in proposito, all'eventualita' della diffusa introduzione di finestre a raso o abbaini sulle coperture delle unita' edilizie che compongono il tessuto dei centri storici tutelati sotto il profilo paesaggistico.

Questo profilo di illegittimita' non viene meno per il fatto che la disciplina regionale non esclude la necessita' di munirsi, per gli interventi relativi a beni tutelati, anche dei l'autorizzazione paesaggistica, in quanto la normativa regionale comunque consente, a monte e in astratto, possibili ampie trasformazioni degli immobili e quindi del contesto tutelato, a scapito della sua «conservazione» e «integrita'».

Viene pertanto compromessa la possibilita' di una valutazione complessiva della trasformazione del contesto tutelato, quale dovrebbe avvenire nell'ambito del Piano paesaggistico, adottato previa intesa con lo Stato e attualmente in itinere, rimettendo alla Soprintendenza una (mera) valutazione caso per caso degli interventi.

La norma regionale, peraltro, cosi' come configurata si presta anche a ingenerare possibili equivoci nell'utenza, essendo suscettibile di indurre l'erronea aspettativa di una valutazione favorevole anche in sede paesaggistica nel caso di interventi in linea con i regolamenti edilizi o i piani regolatori comunali, con l'ulteriore rischio di incrementare il contenzioso.

Occorre, infine, anche rilevare la violazione del principio di leale collaborazione, atteso che da anni e' in corso con la Regione Veneto il tavolo di copianificazione per l'elaborazione congiunta del Piano paesaggistico regionale, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice, sede istituzionalmente deputata al confronto sulle questioni in esame.

Va ricordato al riguardo che, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, il principio di leale collaborazione «deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni», atteso che la sua elasticita' e la sua adattabilita' lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti (cosi' in particolare, tra le tante, Corte cost. n. 31 del 2006). In particolare, la Corte ha chiarito che «il principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto» (cosi' ancora la sentenza richiamata).

La scelta della Regione del Veneto di assumere iniziative unilaterali, al di fuori del percorso di collaborazione gia' proficuamente avviato con lo Stato, si pone, pertanto, in contrasto anche con il predetto principio.

3) In relazione all'art. 117, comma terzo, violazione di principi fondamentali nella materia del «governo del territorio».

Si e' visto che l'art. 3 della legge regionale impugnata stabilisce, ai commi 1° e 2°, che gli interventi diretti al recupero dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 («Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia») e che tali interventi previsti sono soggetti a segnalazione certificata di inizio di' attivita' (c.d. «SCIA») ai sensi di tale decreto del Presidente della Repubblica, comportando la corresponsione di un contributo commisurata agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e al costo di costruzione di cui all'art. 16 del medesimo decreto, calcolati sulla volumetria, resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione.

Queste previsioni, nell'assoggettare gli interventi diretti al recupero dei sottotetti - correttamente qualificati quali ristrutturazioni edilizie ai sensi dell'art. 3, comma i, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 - a segnalazione certificata di inizio attivita', violano le norme interposte contenute negli articoli 10, comma 1°, lettera c), 23, comma 01, lett. a) e 22, comma 1°, lett. e) del medesimo testo unico dell'edilizia.

Le indicate norme statali, infatti, esigono, per simili tipologie di intervento, il permesso di costruire o la SCIA alternativa al permesso di costruire.

Il mero riferimento operato dalla disposizione regionale in parola alla «segnalazione certificata di inizio di attivita' (SCIA) ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001», considerata anche la genericita' del richiamo al testo unico dell'edilizia, non appare sufficiente a indicare correttamente il titolo richiesto dalla normativa statale ai fini della realizzabilita' dei predetti interventi.

Infatti, come noto, le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 riguardano anche la SCIA di cui all'art. 22 del medesimo testo unico.

Le norme regionali quindi, nella misura in cui violano le disposizioni sopra richiamate del testo unico dell'edilizia, che costituiscono principi fondamentali in materia di governo del territorio, si pongono in contrasto con l'art. 117, terzo comma,della Costituzione.

(1) Nella medesima decisione il Consiglio di Stato, occupandosi della disciplina del condono edilizio, ha chiarito che «puo' sicuramente escludersi un'automatica corrispondenza tra condono ed abitabilita'. Come chiarito da Corte costituzionale n. 256/96, «la disciplina del condono non vale ad escludere ogni obbligo da parte del Comune di accertamento delle condizioni di salubrita' ai fini dell'abitabilita' degli edifici...» «Ne' rileva» - prosegue la Corte - «la circostanza che l'art. 35, ventesimo comma, preveda, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilita' o agibilita' anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purche' non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, poiche' la deroga non riguarda, i requisiti richiesti da disposizioni legislative». Ne deriva che «deve escludersi una automaticita' assoluta nel rilascio del certificato di abitabilita' pur nella piu' semplice forma disciplinata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 425 del 1994 a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilita' siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica n. 425 del 1994), ma, altresi', quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilita' e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela delle acque dall'inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc.»

 

P. Q. M.

 

Alla stregua di quanto precede si confida che codesta Ecc.ma Corte vorra' dichiarare l'illegittimita' dell'art. 1, comma 1°, dell'art. 2, commi 1°, 2° e 3° e dell'art. 3, della legge regionale del Veneto 23 dicembre 2019, n. 51.

Si produrra' copia autentica della deliberazione del Consiglio dei ministri del 21 febbraio 2020, con l'allegata relazione.

Roma, 24 febbraio 2020

L'Avvocato dello Stato: Fiorentino