RICORSO N. 11 DEL 4 FEBBRAIO 2019 (DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA)

Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 4 febbraio 2019.

(GU n. 11 del 13.3.2019)

 

Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro tempore Stefano Bonaccini, autorizzato con deliberazione della giunta regionale 7 gennaio 2019, n. 16 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine del presente atto, dall'avv. prof. Giandomenico Falcon (c.f.

FLCGDM45C06L736E, n. fax 049-8776503, indirizzo PEC giandomenico.falcon@ordineavvocatipadova.it) di Padova e dall'avv. Andrea Manzi (c.f. MNZNDR64T26I804V, n. fax 06-3211370, indirizzo PEC andreamanzi@ordineavvocatiroma.org) di Roma, con domicilio eletto nello studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri, n. 5;   Contro il Presidente del Consiglio dei ministri, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale:   dell'art. 1, comma 1, lettere a), b), d), f), n. 1, i) n. 1, h), o), p), numeri 1 e 2, comma 2, lettera a), comma 6, lettere a), b), c) e d), comma 7, lettere a) e b), comma 8, comma 9; dell'art. 12, comma 1, lettere a), a-bis), a-ter), b), c), d), comma 2, lettera a), numeri 1 e 2, lettera b), c), d), numeri 1 e 2, f), numeri 1, 2 e 5, g), numeri 1 e 2, h), numeri 1 e 2, h-bis), l), m), comma 3, lettera a), comma 4, comma 5, comma 6; dell'art. 13, comma 1, lettera a), n. 2, lettera b), numeri 1 e 2, lettera c); dell'art. 21, comma 1, lettera a); dell'art. 21-bis, commi 1 e 2, decreto-legge del 4 ottobre 2018, n. 113, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita' del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata», come convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 3 dicembre 2018, n. 281;   per violazione degli articoli 2; 3; 5; 10; 11; 32; 34; 35; 97; 114; 117, primo, terzo, quarto e quinto comma; 118; 119, primo comma, e 120 della Costituzione, nonche' dei principi costituzionali che da essi derivano, quale il principio di leale collaborazione.

 

Fatto

 

In data 4 ottobre 2018 veniva emanato il decreto-legge n. 113, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita' del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata».

Il decreto e' stato poi convertito, in data 1° dicembre 2018, nella legge n. 132.

La disciplina innova profondamente molteplici aspetti del diritto dell'immigrazione e dell'accoglienza, incidendo, ai fini che qui interessano, sotto i seguenti profili: soppressione della protezione per motivi umanitari (art. 1); accoglienza di livello locale nel sistema SPRAR (art. 12); iscrizione anagrafica (art. 13); DASPO urbano (art. 21); accordo locali per la prevenzione della criminalita' (art. 21-bis).

Data la complessita' e la specificita' dei singoli temi, e la stretta connessione tra contenuti normativi e i profili di illegittimita' costituzionale, l'illustrazione delle disposizioni impugnate sara' fatta nella parte in diritto.

E' tuttavia impossibile non rilevare e segnalare fin d'ora due indirizzi di fondo della normativa qui impugnata: da un lato l'obiettivo, perseguito nell'art. 1, di ridurre il numero dei migranti legittimamente soggiornanti, attraverso l'eliminazione della clausola generale di accoglienza a chi ne abbia titolo costituzionale o internazionale espressa dal permesso di soggiorno per motivi umanitari; dall'altro l'obiettivo, perseguito dall'art. 13 e dall'art. 12, di ridurre al minimo possibile la relazione tra i migranti richiedenti asilo, il territorio nel quale essi si vengono a trovare e le comunita' in esso insediate.

Questo secondo obiettivo e' perseguito in primo luogo all'art. 13, scindendo il legame giuridico tra la persona e il luogo espresso dalla residenza, sostituita da una mera domiciliazione di singoli atti concernenti la persona, in secondo luogo privando la stessa comunita' territoriale ove il richiedente asilo si trova del compito e della stessa possibilita' di intrattenere con i richiedenti asilo effettivi rapporti di accoglienza: sicche' il migrante, privato di riferimenti territoriali, si trova confinato nella non certo fitta rete dei Centri di prima accoglienza quale mera pratica in attesa di definizione.

Ne risulta una sorta di deterritorializzazione della presenza dei migranti, che inevitabilmente si ripercuote sulle funzioni delle regioni e degli enti locali in diversi ambiti, quali l'assistenza sociale e sanitaria, l'istruzione e la formazione professionale, la tutela del lavoro, l'organizzazione territoriale, l'ordinato svolgimento della vita cittadina.

La Regione Emilia-Romagna ritiene che alcuni elementi del disegno cosi' perseguito attraverso le disposizioni indicate in epigrafe del decreto-legge n. 113 del 2018 contraddicano importanti indicazioni e prescrizioni della Costituzione, e per tale ragione, in quanto esse ridondino sull'esercizio delle sue funzioni, essa propone il presente ricorso, facendo valere i seguenti motivi di

 

Diritto

 

Sulla legittimazione della Regione, a tutela delle attribuzioni proprie, anche unitamente a quelle degli enti locali. Interesse al ricorso.

La circostanza che molte disposizioni del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita' del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata» (convertito con modificazioni dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132), e tra di esse talune delle disposizioni impugnate nel presente ricorso, siano ascrivibili a competenze statali esclusive, quali il diritto di asilo e la condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.), l'immigrazione (art. 117, secondo comma, lettera b, Cost.), oltre che l'anagrafe (art. 117, secondo comma, lettera i, Cost.), e la sicurezza pubblica (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.), suggerisce di premettere ai singoli motivi di censura una dimostrazione generale della legittimazione della Regione a ricorrere a codesta Corte, ai sensi dell'art. 127, secondo comma, Cost., a tutela delle propria sfera di competenza e, con essa, delle attribuzioni degli enti locali incise delle norme qui contestate.

a. La Regione agisce, anzitutto, per salvaguardare l'esercizio di proprie competenze residuali e concorrenti, tra cui quelle in materia di assistenza sociale, di formazione professionale (art. 117, quarto comma, Cost.), di tutela della salute, di tutela del lavoro (art. 117, terzo comma, Cost.). Con riferimento alle norme contenute nell'art. 1 del decreto-legge, che eliminano il permesso di soggiorno per motivi umanitari e privano i soggetti gia' titolari di tale status dei diritti sociali legati ad esso, la Regione ben e' consapevole, naturalmente, della competenza dello Stato a regolare l'immigrazione e l'ingresso e il soggiorno dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea, nonche', specificamente, la condizione giuridica dello straniero e il diritto di asilo.

Ugualmente, con riguardo alle norme in materia di anagrafe (art. 13 del decreto-legge), la Regione ovviamente riconosce pienamente la competenza statale a disciplinare le iscrizioni anagrafiche.

Tali competenze, infatti, sono puntualmente attribuite allo Stato-persona dall'art. 117, secondo comma, lettere a) e b), ed i), e quindi certamente la fonte normativa chiamata a disciplinare tali materie e' la legge dello Stato.

Ma e' proprio in forza di tali competenze esclusive dello Stato, che la legge regionale nella disciplina dei diversi settori materiali - quali la tutela della salute, la assistenza sociale, l'istruzione - si trova condizionata, in questi e negli altri ambiti di propria competenza, a rispettare e sviluppare le scelte contenute nella legislazione statale. La quale legislazione statale, contenuta principalmente nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», che costituisce il compendio normativa sul quale principalmente interviene il decreto-legge, e' espressamente qualificata come normazione di principio per le regioni dall'art. 1, comma 4, dello stesso decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale disposizione del testo unico sull'immigrazione, infatti, sancisce che «nelle materie di competenza legislativa delle regioni, le disposizioni del presente testo unico costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione» e che «per le materie di competenza delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, esse hanno il valore di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica».

In forza di tale clausola le disposizioni del decreto-legge immesse nel testo unico con la tecnica della novella partecipano della stessa qualificazione.

Inoltre, proprio guardando alla vigente disciplina del fenomeno migratorio, codesta ecc.ma Corte ha osservato che «la stessa legge statale disciplina la materia dell'immigrazione e la condizione giuridica degli stranieri proprio prevedendo che una serie di attivita' pertinenti la disciplina del fenomeno migratorio e degli effetti sociali di quest'ultimo vengano esercitate dallo Stato in stretto coordinamento con le regioni, ed affida alcune competenze direttamente a queste ultime; cio' secondo criteri che tengono ragionevolmente conto del fatto che l'intervento pubblico non si limita al doveroso controllo dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri ambiti, dall'assistenza all'istruzione, dalla salute all'abitazione, materie che intersecano ex Costituzione, competenze dello Stato con altre regionali, in forma esclusiva o concorrente».

Non a caso, gia' sul piano del riparto costituzionale, la presenza di interessi e di competenze regionali anche all'interno della competenza esclusiva sulla immigrazione e' oggetto di espresso riconoscimento nell'art. 118, terzo comma, Cost., a mente del quale «la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell'art. 117».

La Regione lamenta quindi che, nel regolare oggetti di propria competenza, lo Stato abbia dettato norme che a suo avviso sono, nelle parti contestate, incostituzionali per le ragioni che saranno illustrate nei singoli motivi di censura, e rileva che tali norme costringono l'azione regionale in una cornice normativa illegittima, condizionando e viziando conseguentemente gli stessi atti legislativi ed amministrativi adottati dall'ente regionale nel rispetto di quella cornice. Tale lesione e' ad avviso della Regione evidente - e non richiederebbe dunque specifica illustrazione - con riferimento alle disposizioni dell'art. 1 del decreto-legge che privano i soggetti oggi titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari di specifici diritti, quali il godimento dell'assistenza sanitaria in condizione di parita' con i cittadini italiani, il diritto allo studio, il diritto al lavoro e alla formazione professionale (sezione I, motivo 1.3).

Appare chiara, infatti, l'interferenza di queste norme sulle funzioni in atto svolte dalla Regioni - in punto di tutela della salute, di istruzione e di diritto allo studio, di avviamento e di formazione professionale e di tutela del lavoro - e quindi la lesione indiretta ovvero la ridondanza, in quanto le posizioni soggettive eliminate in capo alle persone titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari hanno natura di diritti o di interessi pretensivi conformati dalla legislazione regionale e azionabili, sulla base di tale legislazione, nei confronti della Regione, degli enti strumentali della Regione o degli enti locali.

Ugualmente, risulta evidente la lesione delle competenze regionali in relazione alle norme contenute nell'art. 12 del decreto-legge relative alla assistenza ai richiedenti asilo, che investe la materia regionale della assistenza sociale e che incide su competenze amministrative oggi esercitate dai comuni ai sensi dell'art. 118, primo comma, Cost.

Ma se l'interferenza sussiste chiaramente con riferimento a singoli diritti o prestazioni nominalmente individuati dal legislatore del decreto-legge, a maggior ragione tale interferenza e' determinata (i) dalle norme generali che pretendono di eliminare pro futuro, e in ipotesi anche con valenza retroattiva, lo status di soggiornante legale dello straniero che sia accolto sul territorio nazionale in esecuzione di obblighi costituzionali o internazionali, al di fuori dei casi speciali previsti dal decreto-legge (sezione I); (ii) dalle norme che impediscono la registrazione della residenza dei richiedenti asilo (sezione III).

Con riferimento alla prima ipotesi, l'apparente privazione dello status di straniero regolarmente soggiornante - cioe' di straniero munito di quella particolare autorizzazione di polizia che e' il permesso di soggiorno - con riferimento a persone aventi diritto a protezione umanitaria per obbligo costituzionale o internazionale, fa si' che tali soggetti, comunque presenti nel territorio regionale, si trovino privati di una serie indeterminata di diritti civili, dei quali invece, ai sensi dell'art. 1, comma 2, del testo unico sull'immigrazione gode lo straniero autorizzato al soggiorno.

Tale disposizione, infatti, prevede che «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente testo unico dispongano diversamente», dove i diritti civili sono comprensivi anche dei diritti di prestazione, taluni del quali sono poi specificati nelle disposizioni contenute nel titolo III e V del testo unico sull'immigrazione. Norme siffatte, in ragione del rilievo generale e sistematico che rivestono, hanno anche l'attitudine, come codesta Corte ha precisato nella sentenza n. 432 del 2005, a fungere da «paradigma sulla cui falsariga calibrare l[o] ... scrutinio di ragionevolezza» per le scelte del legislatore regionale.

Quanto alla seconda ipotesi, concernente la residenza anagrafica, la preclusione, o comunque la limitazione della possibilita' di ottenerla per i richiedenti asilo fa si' che questa categoria di persone, egualmente presenti sul territorio della Regione e dei suoi Comuni, si trovino impedite nel godimento di quei servizi per i quali proprio la residenza costituisce presupposto essenziale, in tutte le ipotesi cioe' nelle quali, secondo l'insegnamento di codesta ecc.ma Corte essa rappresenta il criterio non irragionevole di attribuzione del beneficio, e in particolare di alcune provvidenze regionali (sentenza n. 432 del 2005, piu' volte ripresa, da ultimo nella sentenza n. 107 del 2018).

b. La Regione agisce altresi' a tutela delle attribuzioni degli enti locali, e segnatamente dei comuni, che esercitano funzioni in materia di assistenza ai richiedenti asilo, ai sensi dell'art. 118, primo comma, Cost., oltre ad altre funzioni di assistenza e di integrazione sociale degli stranieri, attribuite dalla legge regionale (l'art. 5, comma 5, della legge regionale 4 marzo 2004, n. 5, «Norme per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati», sancisce che «in attuazione dei principi di cui al comma primo dell'art. 118 della Costituzione, compete ai comuni l'esercizio di ogni ulteriore funzione concernente l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati»), e alle funzioni in materia di anagrafe, conferite dalla legge statale.

In ordine a tale legittimazione della Regione a proporre impugnazioni anche a tutela della autonomia comunale, si osserva che la giurisprudenza costituzionale l'ha riconosciuta, a partire dal 2004, sul rilievo che «la stretta connessione ... tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (sentenza n. 196 del 2004).

Successivamente, con la sentenza n. 298 del 2009, codesta Corte costituzionale ha ulteriormente confermato la legittimazione delle Regione a far valere competenze degli enti locali, con l'affermazione netta per cui queste «sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale». Richiamato il principio per cui la suddetta legittimazione sussiste in capo alle regioni, in quanto «la stretta connessione, in particolare [..] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali», la Corte ha precisato che l'affermazione si riferisce, «in modo evidente, a tutte le attribuzioni costituzionali delle regioni e degli enti locali e prescinde, percio', dal titolo di competenza legislativa esclusivo, concorrente o residuale eventualmente invocabile nella fattispecie» e che «in particolare, non richiede, quale condizione necessaria per la denuncia da parte della regione di un vulnus delle competenze locali, che sia dedotta la violazione delle attribuzioni legislative regionali».

Tali affermazioni sono state da ultimo riprese e ribadite dalla sentenza n. 220 del 2013, in cui codesta ecc.ma Corte ripete che «la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che "le regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale" (ex plurimis, sentenze n. 311 del 2012, n. 298 del 2009, n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004)».

Sul piano ordinamentale, tale legittimazione straordinaria della Regione e' nota al legislatore statale, visto che l'art. 32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, novellato dall'art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003, prevede appunto che la questione di legittimita' costituzionale in via principale possa essere promossa dal presidente della giunta, previa deliberazione della giunta regionale, «anche su proposta del Consiglio delle autonomie locali», proposta che logicamente ha ad oggetto la reazione contro possibili lesioni della autonomia degli enti locali.

Nel presente caso, le norme che incidono sulle attribuzioni degli enti locali sono principalmente quelle in materia di accoglienza dei richiedenti asilo (contenute nell'art. 12 del decreto-legge ed illustrate nella sezione II del ricorso) e quelle in materia di anagrafe (art. 13 del decreto-legge, oggetto della sezione III del ricorso), le quali, per quanto attribuite dalla legge statale al sindaco e all'apparato amministrativo del comune, sono pur sempre funzioni che spettano ai comuni ai sensi dell'art. 118, primo comma, Cost., in connessione con l'art. 5 Cost., in forza della loro funzione di comunita' amministrativa di base.

Evidente e' dunque l'interesse dei comuni ad ottenere che le funzioni da essi esercitate per effetto di vincoli costituzionali (articoli 118, primo comma, e 5 Cost.) concretizzati da leggi regionali e statali, non siano guidate da leggi illegittime.

Tale interesse, innanzi a codesta Corte costituzionale, e' tutelato attraverso il potere di azione riconosciuto alla regione dall'art. 127, secondo comma, Cost., tanto piu' se le stesse norme contestate comportano lesioni indirette di attribuzioni regionali, come sopra illustrato.

c. La Regione Emilia-Romagna ritiene di avere un interesse immediato e concreto alla presente impugnazione giacche' essa ha dettato, fin dalla legge regionale 24 marzo 2004, n. 5, recante «Norme per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati.

Modifiche alle leggi regionali 21 febbraio 1990, n. 14 e 12 marzo 2003, n. 2», specifiche norme a favore delle persone straniere presenti nella regione e funzionali alla effettiva garanzia dei loro diritti sociali, norme che hanno superato il controllo di costituzionalita' (sollecitato dal Governo sull'intera legge) con la sentenza n. 300 del 2005.

L'art. 1 di tale legge impegna la regione, nell'esercizio delle proprie competenze, a concorrere «alla tutela dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e degli apolidi, presenti nel proprio territorio, riconoscendo loro i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti» (comma 1); dichiara che «la legislazione regionale si ispira alla garanzia della pari opportunita' di accesso ai servizi, al riconoscimento ed alla valorizzazione della parita' di genere ed al principio di indirizzare l'azione amministrativa, nel territorio della regione, al fine di rendere effettivo l'esercizio dei diritti» (comma 3); finalizza le politiche della regione e degli enti locali alla rimozione degli ostacoli al pieno inserimento sociale, culturale e politico (comma 4); a tale scopo, indirizza la regione a strutturare il sistema di tutela e promozione sociale degli immigrati alle finalita', tra l'altro, della rimozione degli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale, allo scopo di garantire per i cittadini stranieri immigrati pari opportunita' di accesso all'abitazione, al lavoro, all'istruzione ed alla formazione professionale, alla conoscenza delle opportunita' connesse all'avvio di attivita' autonome ed imprenditoriali, alle prestazioni sanitarie ed assistenziali, e della rimozione delle eventuali condizioni di marginalita' sociale (comma 5).

Tali norme sono a loro volta la proiezione giuridico-normativa di principi programmatici contenuti nello Statuto regionale approvato con legge regionale 31 marzo 2005, n. 13, «Statuto della Regione Emilia-Romagna», il quale, all'art. 2, comma 1, lettera f), indica tra gli obiettivi che debbono ispirare l'azione regionale «il godimento dei diritti sociali degli immigrati, degli stranieri profughi rifugiati ed apolidi, assicurando, nell'ambito delle facolta' che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti».

Per quanto proprio tale disposizione non sia stata intesa - al pari di altri enunciati programmatici degli statuti regionali di seconda generazione, considerati dalle sentenze numeri 372 e 378 del 2004 - come espressione di una vera e propria norma giuridica, essa risulta pur sempre rilevante nel qualificare la regione come «ente esponenziale della collettivita' regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative», in quanto espressiva dei convincimenti «delle diverse sensibilita' politiche presenti nella comunita' regionale al momento dell'approvazione dello statuto».

E una volta che tali convincimenti si siano tradotti in norme giuridiche, quali sono certamente quelle contenute nella legge regionale n. 5 del 2004, diviene certo l'interesse della regione a contestare una serie di norme che impediscono o ostacolano il perseguimento delle finalita' che l'ente si e' dato.

I. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 1, DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018.

La presente sezione comprende i motivi di ricorso in cui la Regione: a) censura le norme, contenute nell'art. 1 del decreto-legge n. 113 del 2018, che sopprimono il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendolo con il permesso di soggiorno per «casi speciali» che non comprendono tutte le ipotesi risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato (motivo 1.1); b) in subordine alla censura precedente, censura la disposizione che tipizza in modo eccessivamente restrittivo il caso speciale di cui all'art. 20-bis, riferito all'ipotesi in cui il rientro e il soggiorno dello straniero nel paese di origine non possano avvenire in ogni caso (motivo 1.2), e le disposizioni che escludono dai casi speciali della violenza domestica e dello sfruttamento lavorativo la menzione dei motivi umanitari; c) censura le norme che privano i titolari del permesso di soggiorno per motivi umanitari di una serie di diritti di cui essi godono (I.3.e 1.4); d) censura le norme contenute nei commi 8 e 9, e nella parte in cui siano intese nel senso di impedire il rinnovo o il rilascio del titolo a soggetti cui l'esigenza di protezione umanitaria sia gia' stata riconosciuta (I.5) e comunque ove interpretate nel senso che determinino l'applicazione retroattiva delle nuove norme recate dal decreto-legge alle domande di protezione umanitaria presentate da soggetti che hanno fatto ingresso nel territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del decreto-legge (motivo 1.6).

I.1. Illegittimita' costituzionale delle norme che sopprimono la menzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, per violazione dell'art. 117, primo comma, 10, 3 e 97, secondo comma, 2 e 3 Cost., ridondante in lesione delle competenze regionali e comunali, garantite dall'art. 117, terzo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, Cost.

La Regione impugna, anzitutto, le norme contenute nel decreto-legge n. 113 del 2018, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 132 del 2018, che sopprimono nel Testo unico dell'immigrazione e nel relativo regolamento di attuazione, nonche' in altri atti normativi (d.lgs. n. 25 del 2008 e decreto del Presidente della Repubblica n. 21 del 2015), tutti i riferimenti relativi al permesso di soggiorno per motivi umanitari, rilasciato in presenza di obblighi costituzionali o internazionali: protezione che era ricostruita come la «forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia» (Cassazione, sez. I, sentenza n. 4455 del 2018).

A seguito delle modifiche apportate dal decreto-legge qui impugnato, la menzione di tale titolo di soggiorno gia' contenuta nel Testo unico della immigrazione e' sostituita con il riferimento alle diverse ipotesi di permesso di soggiorno in «casi speciali», che tuttavia, essendo circoscritti e tassativi, non sono suscettibili di assicurare la copertura dell'intero campo degli obblighi internazionali e costituzionali.

La sostituzione che qui si censura risulta, in particolare: dall'art. 1, comma 1, lettera b), nella parte in cui sostituisce l'art. 5, comma 6, del testo unico sull'immigrazione, sopprimendo le parole «salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari e' rilasciato dal questore secondo le modalita' previste nel regolamento di attuazione»; dall'art. 1, comma 2, nella parte in cui, alla lettera a), modifica il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, eliminando nell'art. 32, comma 3, la previsione generale per cui nei casi in cui la commissione territoriale non accolga la domanda di protezione internazionale ma ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, essa trasmette gli atti al questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, previsione ora sostituita da altra che consente tale possibilita' solo se ricorrono i presupposti di cui all'art. 19, commi 1 e 1.1 del testo unico sull'immigrazione; dall'art. 1, comma 6, nella parte in cui - lettere a) e b) - abroga le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, recante il regolamento di attuazione del testo unico sull'immigrazione, che attribuivano al questore la competenza a rilasciare (art. 11, comma 1, lettera c-ter, del regolamento) o a rinnovare (art. 13, comma 1, del regolamento) il permesso di soggiorno per motivi umanitari; dall'art. 1, comma 7, lettere a) e b) nella parte in cui modifica il decreto del Presidente della Repubblica 12 gennaio 2015, n. 21, abrogandone l'art. 6, comma 2 e sopprimendo nell'art. 14, comma 4, le parole da «, ovvero se ritiene che sussistono» fino alla fine del comma, con cio' eliminando la previsione per cui se la Commissione territoriale rigetta la domanda di protezione internazionale ma ritiene che sussistano gravi motivi di carattere umanitario essa trasmette gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno di durata biennale ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto, e la previsione per cui la commissione nazionale, se sussistono condizioni previste dal decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, riconosce uno status di protezione internazionale diverso da quello di cui dichiara la cessazione o la revoca, ovvero se ritiene che sussistono gravi motivi di carattere umanitario trasmette gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno di durata biennale ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto.

I «casi speciali» divenuti ora rilevanti e tassativi in forza delle disposizioni sopra indicati sono previsti nell'art. 18 del t.u. imm., per motivi di protezione sociale; nell'art. 18-bis, per le vittime di violenza domestica; nell'art. 22, comma 12-quater, per particolare sfruttamento lavorativo; all'art. 19, comma 2, lettera d-bis), per cure mediche di particolare gravita'; nell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo n. 25 del 2008, per protezione speciale, nei limiti stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del t.u. imm., in applicazione del principio di non refoulement per rischio di persecuzione e di tortura; nell'art. 20-bis del t.u. imm., per contingente ed eccezionale calamita' naturale.

Tali casi danno luogo a specifiche problematiche, su parte delle quali ci si soffermera' in quanto diano luogo a particolari questioni di legittimita' costituzionale. In primo luogo, tuttavia, ad avviso della ricorrente Regione l'abrogazione della clausola generale e la sua sostituzione con i predetti casi speciali risulta in se' stessa costituzionalmente illegittima in quanto una clausola elastica ed aperta, che rinvia appunto alla sussistenza di obblighi costituzionali o internazionali, non e' sostituibile con la previsione di casi tassativi, i quali comunque, in ragione della loro stessa struttura e conformazione, non sono in grado di garantire la copertura dell'intera area di accoglienza dovuta in esecuzione dei predetti obblighi.

Che tali impegni internazionali e costituzionali continuino giuridicamente ad esistere, in ogni caso, non puo' esser dubbio, come del resto e' stato evidenziato anche dal Presidente della Repubblica nella nota formale con cui ha accompagnato l'emanazione del decreto-legge, nella quale si e' rilevato che «restano "fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato", pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall'art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall'Italia».

Del resto, ne' il decreto-legge, ne' la sua legge di conversione avrebbero la forza di eliminare obblighi costituzionali o anche solo internazionali, imposti all'osservanza del legislatore ordinario dall'art. 117, primo comma, Cost.

Se dunque non e' in discussione la perdurante sussistenza degli obblighi costituzionali e internazionali in materia di soggiorno dello straniero, e' altresi' vero che l'abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, gia' previsto dal testo unico, determina la violazione di quegli stessi obblighi, in quanto cancella proprio le norme che davano attuazione, sul piano amministrativo, ai doveri di accoglienza gravanti sullo Stato in forza della Costituzione, di consuetudini internazionali o di trattati.

Dunque, la violazione costituzionale - e in particolare dell'art. 117, primo comma, Cost., che enuncia come limite alla funzione legislativa dello Stato (e delle regioni) la Costituzione e i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali - e' patente.

Si noti che non varrebbe obiettare che tale abrogazione ripristina la situazione normativa in atto prima dell'entrata in vigore della legge 6 marzo 1998, n. 40, «Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», poi rifusa nel decreto legislativo n. 286 del 1998, legge cui si deve la introduzione della disciplina in materia di permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Invero, prima della legge n. 40 del 1998, la giurisprudenza della Corte di cassazione era pervenuta ad affermare l'applicabilita' diretta dell'art. 10, terzo comma, Cost., pur in assenza di una disciplina attuativa.

Tuttavia, in seguito alla entrata in vigore della legge n. 40 del 1998 e delle norme nazionali di recepimento della direttiva cd. «qualifiche» 2004/83/CE del Consiglio, modificata dalla direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio (contenute nel decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, modificato dal decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 18) e della direttiva «procedure» 2005/85/CE del Consiglio (contenute nel decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, poi modificato dal decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, in attuazione delle successive direttive 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, e 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio), la giurisprudenza di legittimita' ha ritenuto il sistema esaustivo in termini di disciplina positiva, sul rilievo che tali discipline apprestavano una tutela completa alle persone straniere che nel nostro Paese richiedevano asilo, protezione sussidiaria ovvero protezione umanitaria imposta da obblighi costituzionali o internazionali: tale ultima forma di protezione, se aveva fondamento direttamente negli obblighi costituzionali o internazionali, trovava la strumentazione amministrativa nelle norme, ora abrogate, sul permesso di soggiorno per motivi umanitari contenute nel testo unico sull'immigrazione e quella processuale nelle norme, parimenti abrogate, dei decreti legislativi n. 251 del 2007 e n. 142 del 2015, che prevedevano il potere delle commissioni territoriali di rilasciare tale titolo ed il potere del giudice civile, e per esso delle sezioni specializzate per l'immigrazione dei tribunali, di trasmettere gli atti a tali organi amministrativi se ravvisava i presupposti per la protezione umanitaria.

Ora, sembra evidente che l'espressa volonta' legislativa - manifestata dalla sistematica abrogazione della menzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari nei testi normativi - di non consentire piu' il rilascio di tale titolo di soggiorno pur in presenza di obblighi costituzionali od internazionali sia suscettibile di impedire l'applicazione in via diretta delle disposizioni costituzionali, e segnatamente dell'art. 10, terzo comma, Cost.

Infatti, se prima non vi era una specifica disciplina legislativa della materia oggetto della disposizione costituzionale, la quale risultava quindi aperta all'applicazione diretta secondo le regole generali, ora l'interposizione di un legislatore che ha dichiaratamente tipizzato, in modo che esso prospetta come esaustivo, le ipotesi di permesso di soggiorno in caso speciale, appare non consentire il superamento di tale limitazione in via amministrativa e giurisprudenziale.

Cosi', per quanto - come ha ammonito il Presidente della Repubblica - gli obblighi costituzionali e internazionali non possano essere scalfiti da una decisione del legislatore ordinario e quindi permangono, e' anche vero che a fronte della volonta' del legislatore, obiettivata in una fonte primaria, di non consentire piu' il rilascio di un titolo di soggiorno in esecuzione di obblighi costituzionali ed internazionali amministrazione e giudice si trovano ostacolati nella diretta applicazione della norma costituzionale, in forza della soggezione dell'amministrazione (art. 97, secondo comma, Cost.) e del giudice (art. 101, primo comma, Cost.) alla legge, senza il previo intervento demolitorio di codesta Corte costituzionale.

In ogni caso, ad avviso della Regione, il regresso ad una situazione di applicazione diretta delle norme costituzionali, e in particolare dell'art. 10, terzo comma, Cost., in luogo della disciplina attuativa esplicitamente richiesta da tale disposizione («secondo le condizioni stabilite dalla legge»), comporterebbe comunque un vulnus della Costituzione, in quanto una disciplina costituzionalmente necessaria, qual e' quella di attuazione dell'art. 10, secondo e terzo comma, Cost., non puo' essere abrogata senza contestuale sostituzione con altra disciplina equivalente e succedanea.

Nel presente caso, invece, non vi e' stata tale contestuale abrogazione e sostituzione, giacche' i nuovi casi speciali - che in parte specificano quelli gia' previsti dal testo unico - certamente non coprono l'intera area di obbligo costituzionale e internazionale prima protetta dalla previsione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

L'unica fattispecie veramente nuova, quella relativo al permesso di soggiorno per «contingente ed eccezionale calamita'» naturale, prevista dal nuovo art. 20-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, e' formulata in modo estremamente limitativo e percio' non idoneo a dare copertura giuridica a tutti i casi in cui la protezione e' richiesta da obblighi internazionali o costituzionali (su cio' si veda anche la censura sviluppata, in subordine, ai punti 1.2 e 1.3 del presente ricorso).

Per contro, come ha osservato la giurisprudenza di legittimita', e' connaturata alla protezione umanitaria, proprio per il suo carattere residuale rispetto alla protezione internazionale e a quella sussidiaria, il suo dispiegarsi attraverso una fattispecie aperta.

In proposito, la recente sentenza della Corte di cassazione, sez. I, n. 4455 del 2018, dopo aver osservato - con riferimento alla disciplina allora vigente - che i motivi umanitari «non vengono tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore, cosicche' costituiscono un catalogo aperto (Cass. n. 26566/2013), pur essendo tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilita' attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un'esigenza qualificabile come umanitaria, cioe' concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (cfr. Cassazione, sez. un. , 19393/2009, par. 3), ha chiarito che tale mancata tipizzazione corrisponde alla logica della tutela residuale: «la protezione umanitaria costituisce una delle forme di attuazione dell'asilo costituzionale (art. 10 Cost., comma 3), secondo il costante orientamento di questa Corte (Cass. 10686 del 2012; 16362 del 2016), unitamente al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria, evidenziandosi anche in questa funzione il carattere aperto e non integralmente tipizzabile delle condizioni per il suo riconoscimento, coerentemente con la configurazione ampia del diritto d'asilo contenuto nella norma costituzionale, espressamente riferita all'impedimento nell'esercizio delle liberta' democratiche, ovvero ad una formula dai contorni non agevolmente definiti e tutt'ora oggetto di ampio dibattito».

Per tali motivi la Regione ritiene che le norme impugnate nel presente motivo contrastino, anzitutto, con l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto dichiarano - in modo che sembra persino intenzionale - la volonta' del legislatore di non ritenersi vincolato all'adempimento di obblighi costituzionali ed internazionali per quanto riguarda gli stranieri bisognosi di protezione umanitaria.

Appare poi specificamente leso l'art. 10 della Costituzione, nel secondo comma, con riferimento agli obblighi internazionali di protezione dello straniero sanciti da convenzioni internazionali, e nel terzo comma, con riferimento agli obblighi di protezione in capo alla Repubblica nei confronti dello straniero al quale sia impedito nel suo paese «l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

Tali obblighi, infatti, sono «disattivati» dalle norme impugnate.

Violato e' altresi' il principio di ragionevolezza e di buon andamento della amministrazione (con quest'ultima lesione che si verifica anche in capo alla amministrazione regionale e degli enti locali), perche' il rifiuto di considerare autorizzato il soggiorno di persona che abbia comunque titolo per permanere sul territorio nazionale in forza di un obbligo costituzionale o internazionale dello Stato comporta una intrinseca contraddizione delle qualificazioni giuridiche, generatrice di irregolarita' e di cattiva azione amministrativa.

Si noti infatti che, oltre alla proiezione nel futuro degli effetti delle disposizioni in questione, gia' oggi le norme impugnate pongono in posizione di irregolarita' una serie di persone che si trovano gia' sul territorio nazionale - e quindi, per quanto qui di interesse, sul territorio regionale e dei comuni della Regione - e in relazione ai quali sussiste un obbligo costituzionale o internazionale che ne impedisce l'allontanamento.

Cio' crea nella popolazione regionale un gruppo di persone a condizione giuridica irrimediabilmente degradata, che lo Stato ha l'obbligo di non allontanare, ma che tuttavia non sono autorizzate a soggiornare e sono pertanto menomati anche nella loro possibilita' di accesso ai servizi essenziali, anche e in gran parte regionali.

Tale situazione appare contrastante anche con i principi di inviolabilita' della persona umana, nei suoi diritti fondamentali e nella sua dignita', principio radicati negli articoli 2 e 3, primo comma, della Costituzione.

Infatti, forse allo scopo di esercitare una pressione di fatto verso l'allontanamento, in ipotesi nelle quali lo Stato non puo' legittimamente disporlo a causa dei vincoli costituzionali o internazionali, le norme impugnate privano persone che hanno titolo alla protezione dei loro diritti fondamentali, a partire dallo stesso diritto alla protezione umanitaria che, secondo la ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimita', ha natura di diritto soggettivo perfetto, radicato negli articoli 2 e 10, terzo comma, Cost.

Vale anche la pena di ricordare che la Corte di cassazione, a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 4674 del 1997 ha sempre riconosciuto che la situazione giuridica soggettiva dello straniero richiedente asilo ha consistenza di diritto soggettivo e tale conclusione e' stata estesa dalla sentenza delle Sezioni unite n. 19393 del 2009 alla pretesa al rilascio di permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell'art. 5, comma 6, del testo unico sull'immigrazione, «in ragione dell'identita' di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali, la cui giurisdizione spetta, in mancanza di una norma espressa che disponga diversamente, all'autorita' giurisdizionale ordinaria» (cosi' Sezioni unite, sentenza 30 marzo 2018, n. 8044, con rinvio alla sentenza n. 19393 del 2009; tra le piu' recenti, si vedano poi le sentenze delle Sezioni unite 29 gennaio 2019, n. 2442; 12 dicembre 2018, n. 3217; 11 dicembre 2018, n. 32044; 28 novembre 2018, n. 30758).

La Regione ritiene di aver dimostrato la propria legittimazione nella premessa al presente ricorso, alla quale rinvia per le considerazioni piu' generali.

In relazione al presente motivo essa aggiunge che l'effetto delle norme impugnate, descritto sopra, si riflette sull'esercizio delle competenze regionali (e comunali) in una pluralita' di materie.

Le persone che hanno un diritto costituzionale o convenzionale alla protezione umanitaria ma che le norme impugnate mirano a lasciare prive di formale autorizzazione al soggiorno vengono conseguentemente private anche di ogni forma di cittadinanza amministrativa e quindi entrano in contatto con l'amministrazione regionale soltanto nella forma della emergenza assistenziale e non in quella, scelta dalla legislazione regionale (v. la legge regionale n. 5 del 2004), della integrazione sociale. Si ponga mente, per fare soltanto qualche esempio, alla tutela della salute, che a tali persone puo' essere assicurata soltanto attraverso i presidi di pronto soccorso e non nelle forme di tutela integrata (medicina di base, prevenzione) che corrispondono anche all'interesse della collettivita', ai sensi dell'art. 32, primo comma, Cost.; oppure alla esclusione dall'attivita' lavorativa e dalla relativa formazione professionale, che trasforma tali persone in individui non auto-sufficienti, che necessariamente si trovano a fare affidamento per la propria sopravvivenza alla solidarieta' della comunita' regionale, nelle forme private o attraverso quelle pubbliche della assistenza sociale.

I.2. In subordine. Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera h), del decreto-legge, nella parte in cui limita la possibilita' di rilascio del permesso di soggiorno per i casi in cui il rientro e la permanenza dello straniero nel Paese di origine in condizioni di sicurezza non possano avvenire per calamita' in cui versa il Paese, alle ipotesi di calamita' «contingente ed eccezionale», in quanto tale limitazione esclude ipotesi in cui e' doverosa per obbligo costituzionale o internazionale la protezione umanitaria, per violazione dell'art. 117, primo comma, 10, 2 e 3 Cost., ridondante in lesione delle competenze regionali e comunali, garantite dall'art. 117, terzo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, Cost. Illegittimita' costituzionale per irragionevole disparita' di trattamento.

Nella non creduta ipotesi che la sostituzione della clausola generale di protezione umanitaria con un elenco esaustivo di casi speciali dovesse essere ritenuta conforme a Costituzione, le ragioni che fondano la precedente censura potrebbero comunque trovare parziale soddisfacimento mediante l'accoglimento di una diversa censura, relativa alla formulazione normativa del caso speciale di cui al neointrodotto art. 20-bis del testo unico sull'immigrazione.

L'art. 1, comma 1, lettera h), del decreto-legge inserisce dopo l'art. 20 del d.lgs n. 286 del 1998 il seguente art. 20-bis (Permesso di soggiorno per calamita'), che al comma 1 prevede che «fermo quanto previsto dall'art. 20, quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamita' che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza, il questore rilascia un permesso di soggiorno per calamita'», e al comma 2, stabilisce che «il permesso di soggiorno rilasciato a norma del presente articolo ha la durata di sei mesi, ed e' rinnovabile per un periodo ulteriore di sei mesi se permangono le condizioni di eccezionale calamita' di cui al comma 1; il permesso e' valido solo nel territorio nazionale e consente di svolgere attivita' lavorativa, ma non puo' essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro».

Non vi sarebbe ovviamente ragione di contestare la formulazione limitativa di uno specifico caso di protezione umanitaria, qualora permanesse la previsione residuale e a fattispecie aperta della protezione umanitaria richiesta da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato.

In assenza di tale previsione, il nuovo art. 20-bis del testo unico sull'immigrazione potrebbe fungere esso stesso da appoggio per la concessione della protezione umanitaria.

Tuttavia, nei termini in cui la disposizione e' redatta, mediante il riferimento alla situazione «di contingente ed eccezionale calamita'», essa esclude l'ipotesi in cui la situazione «che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza» sia dovuta a ragioni diverse da una calamita' contingente ed eccezionale (ad esempio perche' la situazione calamitosa e' strutturale).

Tale esclusione, in relazione ai casi in cui la protezione umanitaria sia dovuta in osservanza di obblighi costituzionali o internazionale, e' illegittima in riferimento agli articoli 2, 3, 10, secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost., per le ragioni esposte al motivo precedente, mediante le quali si e' argomentata l'illegittimita' delle norme legislative che negano protezione quando questa e' dovuta in ragioni di un dovere costituzionale e internazionale (vincolante, sul piano interno, per effetto dell'art. 117, primo comma, e 10, secondo comma, Cost.).

Si fa inoltre rinvio alle considerazioni svolte nel motivo che precede anche per la dimostrazione della ridondanza sulle competenze regionali e degli enti locali.

Nel presente motivo la Regione deduce anche la violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza, perche' la separata menzione della «contingente ed eccezionale calamita'» quale necessario presupposto legittimante che autorizza il rilascio di un titolo di soggiorno in favore di persona che comunque non possa rientrare e permanere nel suo paese in condizione di sicurezza si traduce in una limitazione arbitraria di una esigenza di protezione che la norma stessa riconosce e dichiara. Ne' tale restrizione puo' essere giustificata in nome dell'intento di limitare il numero di persone ammesse a soggiornare, perche' tale limitazione deve comunque avvenire nel rispetto dei vincoli costituzionali e internazionali.

Si aggiunga, per completezza, che una pronuncia diretta a rimuovere nell'art. 20-bis, commi 1 e 2, la predetta limitazione non puo' ritenersi preclusa dal rispetto della discrezionalita' del legislatore, in quando ricomprendere nell'ambito della protezione prevista dalla norma impugnata soggetti che comunque hanno un titolo «opponibile» al legislatore, in quanto fondato su obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, costituisce atto legalmente dovuto, in relazione al quale non vi puo' essere dunque «discrezionalita'».

I.3. Illegittimita' costituzionale dell'art 1, comma 1, lettera f), n. 1), e comma 1, lettera i), n. 1), nella parte in cui eliminano il riferimento gia' in essi contenuto all'art. 5, comma 6, del testo unico, nel testo vigente prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 113 del 2018, e cioe' ai «motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», ove tale soppressione sia intesa nel senso di precludere il rilascio del permesso di soggiorno in favore dei soggetti comunque meritevoli del permesso di soggiorno in esecuzione di obblighi internazionali e costituzionali, anche se non rientranti nelle circostanze specificamente previste dalle norme sul caso speciale, ma comunque collegati alla medesima area di protezione, per violazione degli articoli 3, 10, secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost.

In collegamento con le censure svolte al punto precedente, la ricorrente Regione ritiene costituzionalmente illegittima l'eliminazione del riferimento ai «motivi umanitari» operata dall'art. 1, comma 1, lettera f) n. 1) e lettera i), n. 1), con riguardo, rispettivamente, ai due casi speciali del permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica (art. 18-bis) e per particolare sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater), in relazione a due specifici ed autonomi profili.

I.3.1. In primo luogo, le norme qui impugnate sopprimono il rinvio all'art. 5, comma 6, del testo unico, che prima delle modifiche operate dallo stesso decreto-legge n. 113 del 2018 conteneva il riferimento alla possibilita' di rilascio del titolo di soggiorno per motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano.

Una volta abrogata tale previsione gia' contenuta nell'art. 5, comma 6, il rinvio alla disposizione novellata, la quale ora fa parola solo di rifiuto e revoca di permesso di soggiorno e non di un rilascio, non avrebbe avuto piu' senso di essere.

Ciononostante, l'accoglimento dell'impugnazione proposta dalla Regione al punto I.1 avrebbe l'effetto di reintrodurre il permesso di soggiorno per motivi umanitari, e in questa ipotesi l'abrogazione del rinvio risulterebbe affetto da invalidita' consequenziale, perche' verrebbe a mancare il presupposto logico-giuridico che ha determinato l'abrogazione di tale rinvio, che tornerebbe ora necessario per coerenza sistematica, data la riconosciuta riconducibilita' di tali permessi speciali allo stesso genus dei permessi umanitari.

I.3.2. Qualora invece l'abrogazione della elastica clausola residuale relativa al permesso per motivi umanitari fosse invece reputata non incostituzionale, le esigenze di protezione umanitaria, imposte dalla Costituzione o dagli obblighi internazionali, dovrebbero necessariamente passare tutte attraverso la previsione dei casi speciali.

In tale evenienza, per le ragioni che si sono argomentate al precedente punto I.2, la loro formulazione dovrebbe essere sufficientemente elastica e aperta, e tale esito si impone anche con riferimento ai casi di cui all'art. 18-bis e 22, comma 12-quater.

Tale riduzione a legittimita' puo' essere ottenuta, senza operazioni creative o manipolative, semplicemente colpendo la norma abrogatrice, nella parte in cui eliminando il rinvio all'art. 5, comma 6, del testo unico, elimina in realta' il rinvio ai «motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» e dunque ripristinando le due norme nel loro significato vigente prima delle modifiche portate dal decreto-legge impugnato, tramite reintroduzione del rinvio nei termini sopra esplicitati (cioe' non come rinvio ai sensi dell'art. 5, comma 6, ma con rinvio ai motivi di carattere umanitario risultanti da obblighi costituzionali o internazionali).

Per il merito, in relazione al presente motivo si rinvia integralmente alle considerazioni svolte supra, al punto I.2, anche in punto di ridondanza della lesione.

Si aggiunge che in relazione ai permessi speciali per particolare sfruttamento lavorativo e per le vittime di violenza domestica esistono precisi obblighi internazionali di protezione sanciti, nel primo caso, dalle Convenzioni OIL sui lavoratori migranti, e nel secondo dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, dell'11 maggio del 2011, ratificata e resa esecutiva con legge n. 77 del 2013, la quale al Capitolo VII (art. 59-61), intitolato «Migrazione ed asilo», sancisce specifici e puntuali obblighi di accoglienza, anche con riferimento al diritto di asilo.

Tali obblighi internazionali possono essere violati - e con essi l'art. 10, secondo comma, e l'art. 117, primo comma, Cost. - in presenza di una formulazione delle norme relative ai questi permessi di soggiorno in casi speciali che nelle loro formulazioni specifiche siano limitative rispetto all'ambito di protezione previsto in tali convenzioni, senza che sia piu' possibile, tramite il riferimento aperto ai motivi umanitari collegati o obblighi internazionali o costituzionale, il rispetto e l'attuazione degli obblighi di protezione sanciti dalla richiamata convenzione.

Tale violazione, inoltre, condiziona le attivita' della Regione in materia di integrazione sociale, espressamente indirizzate, tra l'altro, al contrasto ai fenomeni che comportano per i cittadini stranieri situazioni di violenza o di grave sfruttamento e in particolare attenzione ai processi di inserimento sociale rivolti alle donne (art. 1 della legge regionale n. 5 del 2004).

I.4. Illegittimita' costituzionale delle norme sui permessi di soggiorno nei casi speciali tipizzati che, nel prevedere condizioni favorevoli per i titolari del permesso, non comprendono tra i beneficiari coloro ai quali il permesso di soggiorno debba comunque essere assegnato in forza di cogenti ragioni internazionali o costituzionali, e comunque i soggetti gia' titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari, per violazione dell'art. 3, primo e secondo comma Cost. (primo e secondo profilo) e per violazione del principio dell'affidamento (secondo profilo).

La Regione denuncia altresi' - per un primo profilo in via consequenziale rispetto alla censura svolta nel motivo I.1 e per un secondo profilo in via autonoma - tutte quelle norme del decreto-legge che, sopprimendo all'interno del testo unico dell'immigrazione ogni riferimento al permesso di soggiorno per motivi umanitari, hanno per conseguenza di privare i soggetti in possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitario di una serie di diritti civili o sociali, quali ad esempio il diritto alla formazione professionale, al lavoro, all'accesso alle prestazioni sanitarie in condizione di parita' con i cittadini.

Si tratta, in particolare, delle seguenti disposizioni contenute nell'art. 1 del decreto-legge n. 113 del 2018, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 132 del 2018: il comma 1, lettera a), secondo cui all'art. 4-bis, al comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole «per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari,» sono sostituite dalle seguenti: «per protezione sussidiaria, per i motivi di cui all'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25,»», nella parte in cui - in relazione all'accordo di integrazione - elimina dall'eccezione per cui la perdita integrale dei crediti determina la revoca del permesso di soggiorno e l'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato la menzione del caso dello straniero titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari; il comma 1, lettera b), n. 1), secondo cui all'art. 5, comma 2-ter, al secondo periodo, decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole «per motivi umanitari» sono sostituite dalle seguenti: «per cure mediche nonche' dei permessi di soggiorno di cui agli articoli 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis, e del permesso di soggiorno rilasciato ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25»», nella parte in cui - in relazione al contributo di 200 euro richiesto per il rilascio del permesso di soggiorno - esclude dalla esenzione lo straniero titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari; il comma 1, lettera d), secondo cui all'art. 10-bis, comma 6, del decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole "di cui all'art. 5, comma 6, del presente testo unico," sono sostituite dalle seguenti: "di cui all'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, nonche' nelle ipotesi di cui agli articoli 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, 42-bis del presente testo unico e nelle ipotesi di cui all'art. 10 della legge 7 aprile 2017, n. 47,", nella parte in cui non prevede che anche il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari determini la pronuncia di non luogo a procedere prevista per il caso in cui sia stata acquisita "acquisita la comunicazione del riconoscimento della protezione internazionale di cui al decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, ovvero del rilascio del permesso di soggiorno nelle ipotesi di cui all'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, nonche' nelle ipotesi di cui agli articoli 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, 42-bis del presente testo unico e nelle ipotesi di cui all'art. 10 della legge 7 aprile 2017, n. 47"»; il comma 1, lettera o), secondo cui all'art. 34, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole "per asilo politico, per asilo umanitario," sono sostituite dalle seguenti: "per asilo, per protezione sussidiaria, per casi speciali, per protezione speciale, per cure mediche ai sensi dell'art. 19, comma 2, lettera d-bis),"», nella parte in cui non prevede che gli stranieri regolarmente soggiornanti o che abbiano chiesto il rinnovo del titolo di soggiorno per asilo umanitario hanno l'obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale e hanno parita' di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all'obbligo contributivo, all'assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e alla sua validita' temporale; il comma 1, lettera p) [indicata nella delibera di giunta come lettera «l»), per errore materiale riconoscibile in quanto e' stato riportato il contenuto della disposizione], n. 1) e n. 2), secondo cui all'art. 39 del decreto legislativo n. 286 del 1998, «1) al comma 5, le parole "per motivi umanitari, o per motivi religiosi" sono sostituite dalle seguenti: "per motivi religiosi, per i motivi di cui agli articoli 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis, nonche' ai titolari del permesso di soggiorno rilasciato ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25;"; 2) al comma 5-quinquies, lettera a), le parole "o per motivi umanitari" sono sostituite dalle seguenti: ", per cure mediche ovvero sono titolari dei permessi di soggiorno di cui agli articoli 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis, nonche' del permesso di soggiorno rilasciato ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25", nelle parte in cui: al numero 1), non include gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitari tra gli stranieri cui e' comunque consentito l'accesso ai corsi di istruzione tecnica superiore o di formazione superiore e alle scuole di specializzazione delle universita', a parita' di condizioni con gli studenti italiani, ai sensi dell'art. 39, comma 5, del testo unico; al numero 2), non prevede piu' l'inapplicabilita' a tali soggetti del comma 5-quater dell'art. 39 del testo unico sull'immigrazione, in materia di revoca del permesso di soggiorno; il comma 6, lettera c), [indicato nella delibera di Giunta come comma 5, lettera c), per errore materiale riconoscibile in quanto e' stato riportato il contenuto della disposizione], che abroga nell'art. 14, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica n 394 del 1999, Regolamento di attuazione del testo unico sull'immigrazione parole «, per motivi umanitari», in quanto tale disposizione sia intesa nel senso di non consentire l'attivita' lavorativa a titolare a coloro che siano comunque meritevoli di permesso di soggiorno in esecuzione di obblighi internazionali e costituzionali e di non consentire la conversione di tale titolo di soggiorno in permesso di lavoro.

I.4.1. Ove fosse accolta la questione prospettata nel motivo I.1 di ricorso, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, rilasciato in esecuzione di obblighi costituzionali o internazionali, tornerebbe ad essere un titolo di soggiorno previsto dall'ordinamento legislativo, per effetto della reviviscenza delle norme abrogate dalle norme denunciate come incostituzionali proprio per il loro effetto abrogativo in relazione a disposizione costituzionalmente necessaria.

In tale ipotesi sarebbe del tutto irragionevole e arbitrario escludere, in violazione dell'art. 3, primo comma, Cost., tali stranieri regolarmente soggiornanti dai diritti e benefici cui godono, in linea generale, gli stranieri cui e' riconosciuta ora la protezione nei casi speciali, i quali altro non sono - in tale prospettiva - che casi particolari di protezione umanitaria (in tali termini i casi speciali gia' previsti dal testo unico sono descritti dalla giurisprudenza di legittimita').

Di qui la violazione del principio generale di eguaglianza di cui al primo comma dell'art. 3 Cost., che impone di trattare in modo eguale situazioni eguali, ma anche la violazione del principio di eguaglianza sostanziale, sancito dall'art. 3, secondo comma, Cost., in quando tali diritti vengono negati proprio in capo a soggetti bisognosi di protezione e nei fatti ostacolati nell'esercizio dei propri diritti e delle proprie liberta'.

Tali violazioni ridondano sulle funzioni regionali, come ad esempio le funzioni in materia di tutela della salute (art. 1, comma 2, lettera o), di istruzione o di formazione professionale (art. 1, comma 1, lettera p), di tutela del lavoro (art. 1, comma 6, lettera c), e piu' in generale sui compiti di integrazione sociale dei non cittadini che la Regione Emilia-Romagna, nell'esercizio delle proprie competenze residuali ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., ha esercitato con la legge regionale n. 5 del 2004, incentrando tali interventi sulla valorizzazione e sul godimento effettivo dei diritti sociali, in linea con il programma di cui all'art. 3, secondo comma, Cost.

I.4.2. Per un diverso profilo, e qui indipendentemente dalla questione relativa alla legittimita' della eliminazione pro futuro del permesso per motivi umanitari, talune delle predette modifiche al testo unico sull'immigrazione, essendo immediatamente applicabili, possono avere l'effetto di eliminare, in capo a coloro che sono titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ancora in corso di validita', i diritti di status di cui godevano in ragione di tale autorizzazione al soggiorno.

Ad avviso della Regione ricorrente, tale aberrante conseguenza va esclusa gia' in via interpretativa in forza del canone della interpretazione adeguatrice, in quanto la privazione di diritti non si giustifica ne' sul piano della eguaglianza, trattandosi di persone che godono di un titolo di soggiorno dello stesso genere di quello rilasciato nei casi speciali; ne' sul piano dell'affidamento, in quanto soggetti che attualmente sono regolarmente residenti e che fino all'entrata in vigore delle norme contestate svolgevano determinate attivita' o godevano di determinati diritti si troverebbero improvvisamente impediti nello svolgimento di tali attivita' e privati della titolarita' di quei diritti.

Tuttavia, per completezza di difesa deve essere prospettata l'ipotesi che esse debbano essere interpretate nel senso che loro applicazione immediata ha l'effetto di sottrarre a tali persone -che sono membri legittimi della comunita' regionale - una serie di facolta' e di diritti a prestazioni erogate dalla Regione o degli enti locali, quali le prestazioni in materia di tutela del lavoro, di istruzione, di formazione e di avviamento professionale e le prestazioni sanitarie, ecc.

In questo caso, ad avviso della Regione tali norme risulterebbero illegittime per violazione dell'art. 3 e dell'art. 2 Cost., in ragione della privazione di uno status legittimamente acquisito - con violazione della tutela dell'affidamento - e con incisione di diritti fondamentali della persona, quali il diritto al lavoro e alla formazione professionale di cui all'art. 35 Cost., il diritto all'istruzione, garantito dall'art. 34 Cost. a tutti, il diritto alla salute, protetto dall'art. 32 Cost.

I.5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 8 e 9, per violazione degli articoli 2 e 10, terzo comma, dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della tutela dell'affidamento e per disparita' di trattamento, nonche' dell'alt 117, primo comma, Cost., in relazione ai principi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento sanciti dal diritto europeo.

L'art. 1 contiene, ai commi 8 e 9 del decreto-legge, disposizioni dirette a regolare il passaggio tra la precedente disciplina e il nuovo regime.

In particolare, il comma 8 stabilisce che «fermo restando i casi di conversione, ai titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari gia' riconosciuto ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, in corso di validita' alla data di entrata in vigore del presente decreto, e' rilasciato, alla scadenza, un permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, come modificato dal presente decreto, previa valutazione della competente Commissione territoriale sulla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».

Il comma 9 per parte sua prevede che «nei procedimenti in corso, alla data di entrata in vigore del presente decreto, per i quali la Commissione territoriale non ha accolto la domanda di protezione internazionale e ha ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario allo straniero e' rilasciato un permesso di soggiorno recante la dicitura "casi speciali" ai sensi del presente comma, della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato. Alla scadenza del permesso di soggiorno di cui al presente comma, si applicano le disposizioni di cui al comma 8».

Ad avviso della ricorrente Regione il comma 8 e' illegittimo ove non consenta il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in costanza delle condizioni che lo hanno reso giuridicamente dovuto. Il comma 9, a sua volta, potrebbe essere illegittimo ove si ritenesse dovuta una interpretazione restrittiva del riferimento, che esso contiene, alla dicitura «casi speciali».

Di seguito sono meglio illustrate tali affermazioni.

I.5.1. Quanto al comma 8, che la Regione ritiene illegittimo ove non consenta il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in costanza delle condizioni che lo hanno reso giuridicamente dovuto, va ricordato che nel motivo svolto al punto I.1 del presente ricorso la Regione ha contestato l'abrogazione pro futuro delle norme del testo unico e del regolamento di attuazione, nonche' quelle contenute in altri atti normativi, che consentivano il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Ove tale censura fosse accolta, la disposizione del comma 8, che presuppone la scomparsa di quel tipo di permesso, risulterebbe corrispondentemente modificata.

Nel presente motivo la Regione osserva che, anche nella denegata ipotesi che tale abrogazione sia ritenuta legittima, la disposizione del comma 8 ammette bensi', alla scadenza del permesso umanitario, il rilascio di un altro permesso di soggiorno, ma soltanto ove sussistano «i presupposti di cui all'art. 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», cioe' ove lo straniero possa essere oggetto, nel paese di origine, di tortura o di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.

Ne risulterebbe che ove tali presupposti non sussistano, l'interessato non potrebbe avere rinnovato il permesso di soggiorno, e dunque perderebbe la protezione umanitaria, pur sussistendo ancora gli obblighi costituzionali o internazionale che ne avevano, a suo tempo, giustificato il rilascio.

Se si considera che la protezione umanitaria e' nel diritto vivente della Cassazione ricostruita come uno status, tutelato dal diritto di cui all'art. 10, terzo comma, Cost. ed oggetto di un accertamento (ad opera della amministrazione o, in caso di contestazione, del giudice ordinario), la soppressione di tale status, una volta che questo sia stato acquisito ed addirittura accertato, non puo' correlarsi ad una mera scelta del legislatore, dipendente da una mutata valutazione dei presupposti giuridici in relazione ai quali tale protezione, in futuro, potra' essere concessa.

Per questo motivo la Regione denuncia la legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 8, nella parte in cui non consenta il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari in presenza di obblighi costituzionali o internazionali di protezione, per contrasto con gli articoli 2 e 10, terzo comma, Cost., con l'art. 3 Cost., in relazione ai principi di affidamento e di certezza del diritto, ed anche con l'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i principi di affidamento giuridico e di certezza del diritto prescritti dal diritto europeo, applicabile alla disciplina della protezione internazionale ed umanitaria.

I.5.2. Il comma 9 e' censurato, come sopra anticipato, per scrupolo di difesa.

Esso infatti dispone che, ove nel corso di un procedimento non ancora concluso la Commissione territoriale non abbia accolto la domanda di protezione internazionale ma abbia ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario, allo straniero sia «rilasciato un permesso di soggiorno recante la dicitura "casi speciali" ai sensi del presente comma, della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato».

Ad avviso della Regione, tale disposizione va intesa nel senso che, nell'ipotesi considerata, il permesso denominato «casi speciali» vada rilasciato e prescindere dalla circostanza che sia in effetti ed in concreto riscontrabile che ricorrono i presupposti definiti nella specifica descrizione di uno dei casi speciali previsti nel testo unico sull'immigrazione.

In altre parole, la Regione ritiene che il senso proprio della disposizione sia quello di consentire comunque il rilascio del titolo di soggiorno e che la menzione dei «casi speciali» sia solo nominalistica, attenendo alla mera dicitura che compare sul permesso.

Tuttavia, qualora la disposizione fosse interpretata diversamente, come diretta a permettere il rilascio del titolo solo ove il questore verifichi la presenza dei requisiti oggi previsti per i casi speciali, essa sarebbe illegittima, in un certo senso, nella sua stessa definizione, perche' vieterebbe il rilascio del permesso di soggiorno in casi nei quali la stessa Commissione ha ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario.

A tale illegittimita' per intrinseca contraddittorieta' e irragionevolezza e quindi per violazione dell'art. 3, primo comma, Cost., si sommano le ragioni di incostituzionalita' descritte al precedente punto n. I.5.1 con riferimento alla soppressione di uno status gia' sussistente e gia' accertato.

Anche in relazione alle censure qui svolte si riscontra la ridondanza sulle competenze regionali e degli enti locali, dal momento che le norme incidono su soggetti che sono gia' presenti sul territorio regionale e che sono inseriti nei programmi di protezione e di assistenza previsti dalla legislazione regionale sulla accoglienza e sulla integrazione degli stranieri, gestiti dalla Regione e dagli enti locali.

I.6. Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 8 e 9, ove interpretati nel senso di determinare la applicazione retroattiva delle nuove norme recate dal decreto-legge alle domande di protezione umanitaria presentate da soggetti che avevano fatto ingresso nel territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, per violazione degli articoli 2 e 10, terzo comma, dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della tutela dell'affidamento e per disparita' di trattamento, nonche' dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai principi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento sanciti dal diritto europeo.

Infine, la Regione contesta l'art. 1, commi 8 e 9, il cui contenuto e' stato descritto sopra, ove intesi (in particolare il comma 9) nel senso di determinare la applicazione retroattiva delle nuove norme recate dal decreto-legge alle domande di protezione umanitaria presentate da soggetti che avevano fatto ingresso nel territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del decreto-legge.

Tale censura e' proposta in via subordinata e tuzioristica rispetto alla questione prospettata al punto I.1.

Subordinata, in quanto l'accoglimento della questione proposta in principalita' nel punto I.1 renderebbe ultronea le presente censura, o meglio travolgerebbe in via consequenziale o renderebbe comunque inapplicabili le due disposizioni, che hanno senso soltanto come norme sul passaggio dalla previsione del permesso umanitario ai permessi speciali.

Tuzioristica, perche' la Regione ritiene - in linea con la giurisprudenza di merito, con la posizione assunta dalla Procura generale della Cassazione nelle conclusioni scritte del 15 gennaio 2019 e con la dottrina prevalente intervenuta a commento della novella - in primo luogo che tali norme non riguardino espressamente la questione della disciplina applicabile alle domande proposte da persone presenti sul territorio nazionale gia' prima della entrata in vigore e, in secondo luogo, che ragioni sia sistematiche, sia di ordine costituzionale, impediscano comunque di considerare la nuova disciplina come retroattiva, cioe' applicabile all'accertamento di una status gia' acquisito al momento di ingresso sul territorio della Repubblica.

Infatti, una volta ricostruita - secondo lo stabile orientamento della Corte di cassazione - la protezione umanitaria come status, protetto dal diritto di cui all'art. 10, terzo comma, Cost. ed oggetto di un accertamento, la applicazione della disciplina vigente al momento di acquisizione dello status con la maturazione del relativo diritto, cioe' al momento dell'ingresso sul territorio nazionale corrisponde da un lato alle regole generali scolpite nell'art. 11 disp. prel. c.c., dall'altro all'esigenza di evitare una esegesi incostituzionali della disposizione.

Per l'ipotesi in cui si dovesse ritenere invece che dalle disposizioni impugnate debba trarsi una volonta' legislativa nel senso della applicazione retroattiva, la Regione contesta la legittimita' costituzionale di tale norma, per contrasto con gli articoli 2 e 10, terzo comma, Cost., con l'art. 3 Cost., in relazione ai principi di affidamento e di certezza del diritto, nonche' con l'art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli stessi principi di affidamento e di certezza del diritto sanciti dal diritto europeo, vertendosi in un campo regolato anche dal diritto dell'Unione, in quanto la nuova norma avrebbe una efficacia radicalmente estintiva di un diritto gia' sorto, diritto per di piu' dotato di copertura costituzionale negli articoli 2 e 10, terzo comma, Cost.

Si evidenzia, altresi', la violazione del principio di eguaglianza e quindi la violazione dell'art. 3, primo comma, Cost., per la disparita' di trattamento tra coloro che, entrati prima del 5 ottobre 2018, abbiano gia' visto la propria domanda esaminata e trattata dalla Commissione con il riconoscimento della sussistenza dei motivi umanitari e coloro che tale esame non abbiano ancora avuto, non esistendo ragione per una differente disciplina correlata a fattori casuali, del tutto indipendenti dal soggetto che ne subisce gli effetti sfavorevoli e dipendenti, invece, dalla mera organizzazione amministrativa.

Anche in relazione a questa censura, la Regione evidenzia come la lesione denunciata ridondi sull'esercizio delle proprie competenze e di quelle degli enti locali, trattandosi di persone gia' presenti sul territorio regionale e quindi integrate nel sistema di assistenza e di protezione sociale apprestato dalla rete regionale, i quali per effetto della interpretazione qui contestata come incostituzionale ne verrebbero esclusi.

II. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 12, DECRETO-LEGGE 113 DEL 2018.

II.1. Il quadro dell'accoglienza e le modifiche introdotte dall'art. 12 del cd. decreto sicurezza.

L'art. 12 del cd. decreto sicurezza (decreto-legge n. 113 del 2018, come convertito con la legge n. 132 del 2018) contiene un insieme di disposizioni rivolte ad eliminare il sistema SPRAR quale circuito di accoglienza aperto ai richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza (assieme ai loro familiari, nonche' ai soggetti particolarmente vulnerabili e ai titolari di protezione umanitaria).

Questo risultato e' ottenuto in via generalizzata trasformando, mediante l'art. 12, comma 4, decreto-legge n. 113 del 2018, i riferimenti al «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati» ovvero «Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati» di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, abbreviato appunto in SPRAR, in riferimenti al «Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati» (successivamente abbreviato in SIPROIMI dalla circolare ministeriale del 18 dicembre 2018, n. 83774), privato di parte essenziale delle competenze gia' assegnate agli SPRAR, e in particolare dell'assistenza ai richiedenti asilo in generale.

In altre parole, il sistema strutturato attraverso l'apporto degli enti locali, che in precedenza accoglieva i soggetti in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione internazionale o di asilo (appunto i richiedenti protezione o asilo) viene convertito, tramite la modifica degli atti normativi che lo prevedevano (ossia il decreto-legge n. 416 del 1989 e la legge n. 142 del 2015, attuativo della cd. «direttiva accoglienza» 2013/33/UE) in un sistema volto invece all'accoglienza dei soli titolari di protezione - quindi di soggetti che hanno gia' visto riconosciuto il proprio diritto - e dei minori stranieri non accompagnati, i quali, com'e' ovvio, godono di un trattamento piu' favorevole in virtu' della loro particolare protezione.

Le altre persone che precedentemente usufruivano dell'accoglienza - fatti salvi i rifugiati, gia' prima astrattamente ammessi negli SPRAR, ma non i titolari della protezione umanitaria, che e' stata semplicemente soppressa - vengono invece ora concentrate nei centri a gestione governativa, ossia i Centri di prima accoglienza - CPA, che in precedenza erano deputati, come prima ancora i Centri di accoglienza per i richiedenti asilo - CARA, alla sola accoglienza necessaria a definire la domanda di protezione e gli esami medici) e, ove questi siano insufficienti, nei Centri di accoglienza straordinari - CAS.

Questa sezione del presente ricorso e' rivolta a contestare la legittimita' costituzionale della sottrazione agli enti territoriali dell'accoglienza ai richiedenti asilo e delle risorse destinate ad essa, in quanto tale sottrazione priva le Regioni e gli enti locali di una parte delle funzioni che ad essi spettano.

In questa prospettiva, si procede di seguito ad illustrare il regime precedente e le modifiche apportate dal decreto-legge n. 113 del 2018, le quali singolarmente e nel loro insieme - comprese le modifiche dipendenti dall'abolizione del regime dello SPRAR in se', che vengono altresi' impugnate - realizzano la sottrazione la cui legittimita' costituzionale si contesta, e che costituiscono dunque oggetto della presente impugnazione.

Alla costruzione del sistema SPRAR per l'accoglienza dei richiedenti protezione si e' addivenuti formalizzando un sistema che, per lungo tempo, si e' basato sulle organizzazioni del terzo settore, appoggiate il piu' delle volte proprio dagli enti locali (cfr. A. Annoni, Autonomie e obblighi di accoglienza dei richiedenti asilo, in Diritti e autonomie territoriali, a cura di A. Morelli e L. Trucco, Torino, 2014, 200).

Sennonche' i limiti di tale sistema divennero presto evidenti nei momenti di crisi migratoria, e si evidenzio' la necessita' di costituire una migliore rete di assistenza per i soggetti richiedenti protezione o asilo, verso il quale spingevano alcune decisioni prese in sede europea.

Il Consiglio dell'Unione europea, infatti, ha istituito, con la decisione 2000/596/CE, il Fondo europeo per i rifugiati, attraverso il quale finanziare le azioni degli Stati membri in materia di accoglienza, che ha portato, a livello interno, al Programma nazionale asilo - PNA (v. ancora A. Annoni, Autonomie, cit., 201).

Dalla consolidazione di tale sistema e' nato lo SPRAR, istituito con la legge n. 189 del 2002 (che ha introdotto, tra gli altri, gli articoli 1-sexies e 1-septies all'interno del decreto-legge n. 416 del 1989), il cui servizio centrale e' affidato all'ANCI, e il cui fulcro, pertanto, e' pacificamente l'apparato comunale italiano, che viene finanziato ancora oggi dal fondo statale parte dei cui introiti sono dovuti al contributo dei fondi europei: infatti alla decisione del 2002 aveva fatto seguito nel 2004 l'analoga decisione 2004/904/CE per gli anni 2005-2010, seguita dalla decisione 573/2007/CE per gli anni 2008-2013, cui si e' infine sostituito, nel 2014, il Fondo asilo, migrazione e integrazione, istituito dal Regolamento del Parlamento europeo 2014/516/UE per il periodo 2014-2020, tuttora operativo.

Anche al livello nazionale l'assetto originario e' stato confermato attraverso i vari atti normativi che si sono succeduti, sostanzialmente aggiornando il sistema SPRAR versato nel decreto-legge n. 416 del 1989, fino al decreto legislativo n. 142 del 2015, attuativo della direttiva 2013/33/UE e sistematicamente connesso al decreto n. 416.

Nel sistema previgente al decreto-legge n. 113 del 2018 si era riconosciuto che «gli enti locali che prestano servizi finalizzati all'accoglienza dei richiedenti asilo e alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria possono accogliere nell'ambito dei servizi medesimi il richiedente asilo privo di mezzi di sussistenza» (come disponeva l'art. 1-sexies della legge n. 416 del 1989) e si era previsto che «il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualita' di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) predisposte dagli enti locali ai sensi dell'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, e finanziate dal Fondo di cui all'art. 1-septies del medesimo decreto anche in deroga al limite dell'80 per cento di cui al comma 2 del medesimo art. 1-sexies» (art. 14, comma 1, decreto legislativo n. 142 del 2015, che veniva cosi' a completare il sistema).

In tale prospettiva, quindi, gli enti locali predisponevano un sistema di accoglienza generalizzato, entro il quale i richiedenti in generale, ma evidentemente tra essi soprattutto i soggetti bisognosi (indigenti, soggetti vulnerabili e minori), potevano trovare ospitalita'.

Tale era la cd. «seconda accoglienza», che costituiva il passaggio successivo rispetto alla cd. «prima accoglienza» - articolata essenzialmente nei CPA - che avveniva subito dopo l'espletamento delle operazioni di cd. «primissima accoglienza», ossia quella espletata nell'immediatezza dell'arrivo (principalmente dopo il soccorso in mare o lo sbarco) con le prime operazioni di riconoscimento e identificazione e allo svolgimento degli esami medici di prima necessita', finalizzate a distinguere i richiedenti protezione o asilo dai cd. «migranti economici», i quali ultimi, anche oggi, non sono ammessi sul territorio nazionale.

Gia' nella «prima fase», presso i CPA, il richiedente diventava appunto tale presentando la propria istanza di protezione, e con cio' acquistava uno status maggiormente definito, che gli consentiva - nel sistema previgente - di accedere alla cd. «seconda accoglienza» presso gli SPRAR, cioe' al Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati, che si inquadrava nel piu' ampio contesto europeo, entro il quale adempiva a quanto prescritto dalla direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, attuata proprio attraverso il decreto legislativo n. 142 del 2015 in materia di protezione dei richiedenti.

Dopo le modifiche apportate dall'art. 12, comma 1, lettera a) e dal comma 2, lettera f), n. 2, decreto-legge n. 113 del 2018, invece, i due articoli sopra citati - che costituivano il fulcro del sistema SPRAR - nelle parti rilevanti, risultano cosi' formulati:   Art. 1-sexies, comma 1, legge n. 416 del 1989: «Gli enti locali che prestano servizi di accoglienza per i titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, che beneficiano del sostegno finanziario di cui al comma 2, possono accogliere nell'ambito dei medesimi servizi anche i titolari dei permessi di soggiorno di cui agli articoli 19, comma 2, lettera d-bis), 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, qualora non accedano a sistemi di protezione specificamente dedicati».

Art. 14, comma 1, decreto legislativo n. 142 del 2015: «Il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualita' di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del presente decreto».

In conseguenza di cio', quindi, mentre il sistema ex SPRAR, oggi rinominato SIPROIMI, viene riservato ai titolari di una forma di protezione - comprese quelle ricadenti nella protezione speciale, sostituitasi in parte a quella umanitaria precedentemente esistente - e ai minori stranieri non accompagnati, l'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale o speciale e delle loro famiglie viene interamente fatta rifluire nei centri a gestione statale, ossia nei CPA e, ove questi non siano in grado di rispondere alle esigenze che si pongono nella pratica - e cioe' ove siano sovraffollati come capita costantemente nell'esperienza pratica -, nei CAS (Centri di accoglienza straordinaria).

In altre parole, il sistema di cd. «seconda accoglienza» per i richiedenti asilo viene integralmente (e anche letteralmente, a opera dell'art. 12, comma 2, lettera b del decreto, che incide sull'art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 142 del 2015) soppresso, e tutto il carico che veniva gestito attraverso di esso risulta riversato sul sistema di «prima accoglienza», deputato ora a svolgere sia funzioni di prima identificazione e assistenza, sia funzioni di accoglienza vera e propria accollandosi anche l'accoglienza ai richiedenti precedentemente svolta presso gli SPRAR.

Posto questo quadro di insieme, relativo all'impostazione di fondo del sistema dell'accoglienza, il cd. decreto sicurezza fa seguire una serie di modifiche - al di la' di quelle, che qui pure si impugnano consequenzialmente, che operano al solo fine di armonizzare le disposizioni che facevano richiamo al sistema SPRAR, completando cosi' il sistema della riforma - rivolte all'eliminazione del sistema SPRAR in quanto tale, ossia all'eliminazione dell'accoglienza locale dei richiedenti, riservando detta accoglienza locale esclusivamente ai titolari.

In primo luogo, premesso che nel sistema novellato il finanziamento delle funzioni locali risulta destinato, in forza dell'art. 12, comma 1, lettera a-bis), al nuovo sistema SIPROIMI, risulta in ogni caso ridotto il ruolo spettante alla Conferenza unificata.

Mentre infatti in precedenza «il Ministro dell'interno, con proprio decreto» provvedeva a ripartire i fondi «sentita la Conferenza unificata»- e quindi la partecipazione della Conferenza verteva proprio e direttamente sulla loro distribuzione - secondo la formulazione attuale la Conferenza concorre solo al decreto ministeriale con cui «sono definiti i criteri e le modalita' per la presentazione da parte degli enti locali delle domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti finalizzati all'accoglienza dei soggetti di cui al comma 1», mentre e' solo «il Ministro dell'interno, con proprio decreto», che «provvede all'ammissione al finanziamento dei progetti presentati dagli enti locali» (cosi' art. 1-sexies, decreto-legge n. 416 del 1989, nuova formulazione).

Con cio', l'apporto della Conferenza unificata viene spostato dalla concreta decisione sullo stanziamento dei fondi al ben piu' limitato compito di concorrere alla determinazione di criteri e modalita' per la presentazione delle domande.

Una ulteriore modifica di grande rilievo, derivante dall'eliminazione dell'accoglienza SPRAR per i richiedenti asilo, viene apportata all'art. 14, decreto legislativo n. 142 del 2015, il quale assicurava ai richiedenti privi di mezzi l'accoglienza all'interno delle strutture dello SPRAR, e che ora (in ragione della modifica apportata dall'art. 12, comma 2, lettera f) all'art. 14, decreto legislativo n. 142 del 2015) si riferisce invece «alle misure di accoglienza del presente decreto», e cioe' a quelle previste dagli articoli 9 e 11, relativi ai CPA e ai CAS, ossia a quella prima accoglienza che si contrapponeva, nel sistema precedente, alla seconda accoglienza SPRAR.

A cio' si aggiunge la modifica operata dall'art. 12, comma 2, lettera h), numeri 1 e 2, all'art. 17, decreto legislativo n. 142 del 2015, rubricato «Accoglienza di persone portatrici di esigenze particolari».

Nel sistema previgente, all'accoglienza di soggetti particolarmente problematici e vulnerabili - quali vittime della tratta di esseri umani, malati o che hanno subito forme di grave violenza - accedevano al sistema di accoglienza predisposto presso gli SPRAR, quale sistema «protetto» e certamente piu' idoneo alla collocazione di tali soggetti.

Venuto meno il sistema SPRAR, anche le persone con esigenze particolari vengono collocate presso i CPA - sia pure, secondo la norma, appositamente attrezzati -, dove prima sarebbero rimasti solamente in «prima accoglienza», o presso i CAS.

In sintesi, mentre nell'articolazione precedente il decreto-legge n. 416 del 1989 e il decreto legislativo n. 142 del 2015 ammettevano nel sistema SPRAR, a gestione degli enti locali, tutti i richiedenti, e tra questi anche quelli indigenti con le loro famiglie, quelli con esigenze particolari e ovviamente i minori non accompagnati, nonche' i rifugiati e i titolari di protezione umanitaria il sistema previsto dal decreto-legge n. 113 del 2018 configura la seguente distribuzione:   il sistema SIPROIMI, ancora gestito dagli enti locali, accoglie i titolari di protezione internazionale o speciale e i minori non accompagnati (anche richiedenti);   il sistema statale, basato su CPA e CAS, accoglie invece i richiedenti protezione indigenti di cui all'art. 14, decreto legislativo n. 142 del 2015, nonche' quelli portatori di esigenze particolari di cui all'art. 17 (che godono di non perspicui «servizi speciali di accoglienza», peraltro indeterminati temporalmente, laddove il comma 4, oggi abrogato, prevedeva l'accoglienza nel sistema SPRAR, assicurata anche dal decreto ministeriale previsto dall'art. 14, comma 2, ora abrogato, presso le strutture predisposte secondo l'art. 9, comma 5, decreto legislativo n. 142 del 2015 previgente), raggruppandoli assieme ai soggetti che usufruiscono delle misure di prima accoglienza, delineate dall'art. 9, comma 1, e dall'art. 11, decreto legislativo n. 142 del 2015.

Alla soppressione generale dell'accoglienza locale di lungo termine si affianca l'eliminazione dei servizi connessi, che in precedenza venivano erogati da parte degli enti locali.

In primo luogo, si evidenzia che all'art. 19, comma 3, decreto legislativo n. 142 del 2015, attraverso l'art. 12, comma 2, lettera h-bis), decreto-legge n. 113 del 2018, e' stata apportata una modifica riguardante la copertura delle spese per l'accoglienza dei minori non accompagnati che, per quanto rivolta in primo luogo a tenere indenni i comuni, potrebbe essere intesa come limitativa della loro liberta' di spesa nel campo dell'assistenza.

I minori non accompagnati, infatti, dovrebbero essere accolti, in linea di principio, da «strutture governative di prima accoglienza a loro destinate» (cosi' art. 19, comma 1, decreto legislativo n. 142 del 2015) per il tempo necessario all'identificazione (comunque non oltre 30 giorni), per poi transitare nel nuovo sistema SIPROIMI, dove dovrebbero ricevere accoglienza stabile.

Ove tali strutture non siano disponibili, tuttavia, il comma 3 prevede, oggi come nella versione previgente, che «l'assistenza e l'accoglienza del minore sono temporaneamente assicurate dalla pubblica autorita' del comune in cui il minore si trova».

Nella versione novellata, tuttavia, e' stata aggiunta una clausola di salvaguardia finanziaria, che recita «e comunque senza alcuna spesa o onere a carico del comune interessato all'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati»: clausola, questa, che - nel contesto restrittivo della nuova normativa - potrebbe essere intesa come preclusiva di un'autonoma capacita' di spesa comunale per politiche di integrazione di tali minori.

Inoltre, l'art. 12, comma 2, lettera l), abrogando l'art. 22, comma 3, del decreto legislativo n. 142 del 2015, il quale disponeva che «i richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell'art. 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell'ente locale dedicato all'accoglienza del richiedente», appare escludere - o per lo meno la modifica puo' essere letta nel senso che sia escluso - che gli enti locali o le regioni possano comunque attivare (anche non disponendo piu' dell'accoglienza) attivita' di formazione a favore dei richiedenti.

Analogamente, la modifica apportata ad opera dell'art. 12, comma 2, lettera m), all'art. 22-bis, commi 1 e 3, del decreto legislativo n. 142 del 2015 ha l'effetto potenziale di escludere la possibilita', per gli enti locali, le regioni e le province autonome, di attuare progetti volti all'implementazione dell'impiego, da finanziare con risorse europee.

Sono anche qui rilevanti, ancorche' consequenziali rispetto all'abolizione dell'accoglienza per i richiedenti asilo presso il sistema SPRAR e alle situazioni transitorie che ne derivano, le modifiche introdotte dall'art. 12, commi 3, 5 e 6, decreto-legge n. 113 del 2018.

Il comma 3, infatti, intervenendo sull'art. 4, comma 5, decreto legislativo n. 25 del 2008 (attuativo della c.d. direttiva procedure), elimina il legame tra la competenza della Commissione territoriale deputata alla valutazione della domanda di protezione internazionale e la residenza del richiedente presso le strutture dello SPRAR, per l'evidente motivo che tale sistema non esiste piu' se non per chi e' gia' titolare della protezione, che ovviamente non deve piu' adire la Commissione.

Il comma 5, per parte sua, provvede a regolare il tempo di permanenza residuo dei richiedenti asilo nel sistema di protezione, dal momento che essi devono essere ospitati, nel nuovo impianto normativo, non piu' presso gli SPRAR, dai quali pertanto escono, ma presso le strutture governative: secondo il tenore della disposizione, «i richiedenti asilo presenti nel Sistema di protezione di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, alla data di entrata in vigore del presente decreto, rimangono in accoglienza fino alla scadenza del progetto in corso, gia' finanziato», di fatto espellendoli dal tipo di accoglienza di cui hanno precedentemente goduto. Il comma 6, che si ricollega invece all'abolizione della protezione umanitaria gia' trattata in ordine all'art. 1 del decreto oggetto della presente impugnazione, sancisce che «i titolari di protezione umanitaria presenti nel Sistema di protezione di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, alla data di entrata in vigore del presente decreto, rimangono in accoglienza fino alla scadenza del periodo temporale previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del medesimo Sistema di protezione e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza», praticamente espellendo i soggetti muniti di protezione umanitaria dai centri dello (ex) SPRAR mediante la delimitazione del tempo di loro ulteriore permanenza presso i centri malgrado l'eventuale perdurare del permesso per motivi umanitari.

Alle disposizioni sin qui elencate si affiancano - e sono oggetto anch'esse della presente impugnazione - tutte quelle modifiche che sono consequenziali rispetto all'eliminazione del sistema SPRAR cosi' come vigente sino all'entrata in vigore della normativa qui impugnata, ossia:   1. Le modifiche ulteriori rispetto a quelle gia' illustrate apportate dall'art. 12, comma 1, decreto-legge n. 113 del 2018 all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, e segnatamente:   la disposizione della lettera a-ter), con la quale viene abrogato il comma 3 dell'art. 1-sexies, che stabiliva il contenuto del decreto ministeriale di cui al comma 2 previgente, sulla destinazione dei finanziamenti per il sistema dell'accoglienza dei richiedenti asilo e dei minori non accompagnati;   le disposizioni delle lettere b) e c), con le quali, rispettivamente: al comma 4 del predetto art. 1-sexies (relativo all'attivazione da parte del Ministero dell'interno di «un servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano i servizi di accoglienza di cui al comma 1», servizio gestito attualmente dall'ANCI, ormai dedicato ai servizi per i titolari e non piu' per i richiedenti) le parole da «del richiedente asilo» fino a «di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286,» sono sostituite da «dei soggetti di cui al comma 1» (escludendo cosi' dai servizi supportati a favore degli enti locali da parte del sistema centrale l'accoglienza ai richiedenti asilo e la tutela dei titolari di protezione umanitaria); al comma 5 del predetto articolo, alla lettera a), le parole «dei richiedenti asilo, dei rifugiati e degli stranieri con permesso umanitario» sono sostituite da «dei soggetti di cui al comma 1» (cancellando cosi' il riferimento al monitoraggio della presenza nel territorio di richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione umanitaria, sostituendolo con il monitoraggio della presenza dei soli titolari di protezione); la disposizione della lettera d), con la quale la rubrica del predetto articolo e' sostituita dalla seguente: «Art. 1-sexies.

Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati», eliminando il riferimento all'accoglienza di richiedenti, ai rifugiati e ai titolari di protezione umanitaria.

2. Le modifiche apportate dall'art. 12, comma 2, modificative del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e precisamente:   la lettera a), numeri 1 e 2 nella parte in cui eliminano i riferimenti all'accoglienza SPRAR di cui all'art. 14, decreto legislativo n. 142 del 2015 previgente dall'art. 5, commi 2 e 5, del medesimo decreto n. 142 del 2015, sopprimendo altresi' la domiciliazione del richiedente presso i centri di cui all'art. 14 ai fini del procedimento di esame della domanda di protezione, ed eliminando i poteri prefettizi connessi alle strutture dello SPRAR; la lettera c), con la quale si abroga l'art. 9, comma 5, del decreto legislativo n. 142 del 2015, che disponeva il trasferimento a richiesta dei richiedenti che avessero i requisiti di assenza di mezzi di sussistenza presso le strutture di cui all'art. 14 previgente (SPRAR), con una scelta legata anche alla presenza di particolari esigenze ex art. 17; la lettera d), numeri 1 e 2, con i quali, in conseguenza dell'eliminazione del sistema SPRAR precedentemente in vigore, i riferimenti alle strutture di cui all'art. 14 vengono eliminati dall'art. 11, commi 1 e 3, decreto legislativo n. 142 del 2015, dedicati alle regole di permanenza presso i Centri di accoglienza straordinari; la lettera f), numeri 1 e 5, con i quali: si elimina dall'art. 14, comma 1, decreto legislativo n. 142 del 2015 il riferimento al sistema SPRAR come precedentemente vigente, destinando i richiedenti che formalizzano la propria domanda di protezione, e che risultino privi di mezzi, all'accoglienza di cui agli articoli 9 e 11 del decreto e si modifica la rubrica dell'articolo per espungerne il riferimento al previgente sistema SPRAR; la lettera g), numeri 1 e 2, nella parte in cui abrogano i commi 1 e 2 dell'art. 15, decreto legislativo n. 142 del 2015, che prevedevano la procedura di accesso all'accoglienza SPRAR per il richiedente e per i propri familiari in stato di indigenza e modificano la rubrica dell'art. 15 per espungerne il riferimento al sistema SPRAR; la lettera h), numeri 1 e 2, i quali rispettivamente: abrogano l'art. 17, comma 4, decreto legislativo n. 142 del 2015, eliminando il riferimento alle strutture di cui all'art. 14 del medesimo decreto e sopprimendo pertanto il riferimento all'attivazione presso tali strutture dei «servizi speciali di accoglienza per i richiedenti portatori di esigenze particolari, individuati con il decreto del Ministro dell'interno di cui all'art. 14, comma 2, che tengono conto delle misure assistenziali da garantire alla persona in relazione alle sue specifiche esigenze»; sostituiscono, al comma 6, le parole «ai sensi dei commi 3 e 4» con «ai sensi del comma 3» per espungerne il riferimento al sistema SPRAR;   3. Le modifiche apportate dall'art. 12, comma 4, al decreto legislativo n. 142 del 2015, secondo cui «Le definizioni di "Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati" ovvero di "Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati" di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, ovunque presenti, in disposizioni di legge o di regolamento, si intendono sostituite dalla seguente: "Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati" di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, e successive modificazioni», eliminando il sistema SPRAR dall'ordinamento per come precedentemente configurato, escludendone segnatamente i richiedenti asilo.

II.2. Le competenze regionali e le funzioni locali in materia di immigrazione.

Si sono gia' esposte nella premessa generale le ragioni in forza delle quali la ricorrente Regione Emilia-Romagna ritiene di essere legittimata a prospettare tale illegittimita' a codesta ecc.ma Corte costituzionale, in ragione della sua ridondanza sulle funzioni proprie e degli enti locali le cui ragioni essa e' ugualmente legittimata a rappresentare.

Sia tuttavia consentito aggiungere qualche piu' specifica considerazione, in relazione alle funzioni assistenziali connesse alla materia dell'immigrazione, in quanto esse sono centrali per la valutazione della legittimita' costituzionale delle restrizioni introdotte dall'art. 12.

E' noto infatti che, mentre la materia dell'immigrazione e dell'asilo e' di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lettere a e b), le attivita' di assistenza sono invece riconducibili a una competenza di carattere regionale, la quale emerge da molteplici riferimenti normativi (e la partecipazione emerge in modo specifico dall'art. 118, terzo comma, Cost., che prevede un coordinamento con le regioni proprio nella materia di cui all'art. 117, comma secondo, lettera b). In primo luogo, infatti, il decreto legislativo n. 286 del 1998 (T.U. immigrazione) riconosce in molteplici punti le competenze regionali e degli enti locali, ponendo principi fondamentali (art. 1, comma 4), prevedendo forme di coordinamento con le regioni (art. 2-bis) anche a fini programmatici (art. 3), nonche' specifiche competenze in materia di istruzione ed educazione interculturale (art. 38), centri di accoglienza (art. 40), integrazione sociale (art. 42).

Come e' stato riconosciuto da codesta Corte, il testo unico opera, in sintesi, «prevedendo che una serie di attivita' pertinenti la disciplina del fenomeno migratorio e degli effetti sociali di quest'ultimo vengano esercitate dallo Stato in stretto coordinamento con le Regioni, ed affida alcune competenze direttamente a queste ultime». Cio' perche' tale articolato tiene «ragionevolmente conto del fatto che l'intervento pubblico non si limita al doveroso controllo dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri ambiti, dall'assistenza all'istruzione, dalla salute all'abitazione, materie che intersecano ex Costituzione, competenze dello Stato con altre regionali, in forma esclusiva o concorrente» (sentenza n. 300 del 2005, punto 5 in diritto).

Del resto, la competenza regionale in materia di immigrazione - e la correlativa competenza degli enti locali che nella regione ricadono - e' stata poi nuovamente riconosciuta con la sentenza n. 156 del 2006.

Una volta delineato il quadro emergente dal testo unico, codesta Corte ha riconosciuto la legittimita' costituzionale della disciplina contestata, emanata in quell'occasione dalla Regione Friuli-Venezia Giulia: regione a statuto speciale le cui competenze sono tuttavia, per il profilo che qui interessa, corrispondenti a quelle delle regioni a statuto ordinario, qual e' la Regione ricorrente.

Particolarmente rilevante e' la questione che si poneva rispetto all'art. 16, comma 3, legge della Regione Friuli-Venezia Giulia del 4 marzo 2005, n. 5, il quale prevedeva la prosecuzione dell'assistenza ai minori non accompagnati anche successivamente al raggiungimento della maggiore eta'. In quell'occasione codesta Corte ha stabilito che «l'art. 16 della legge impugnata, quale risulta dalla sua stessa rubrica recante "Interventi per minori stranieri non accompagnati", si pone l'obiettivo di prevedere delle forme di sostegno finalizzate all'inserimento dei minori non accompagnati e, proprio al fine del completo raggiungimento di tali scopi, al comma 3, dispone che tali interventi possono proseguire anche dopo che i beneficiari abbiano raggiunto la maggiore eta'», precisando che «la norma impugnata, quindi, va interpretata nel senso che essa si limita a prevedere l'esercizio di attivita' di assistenza rientranti nelle competenze regionali, senza incidere in alcun modo sulla competenza esclusiva dello Stato in materia di immigrazione» (sentenza n. 156 del 2006, punto 4 in diritto). Ribadendo questo indirizzo, nella sentenza n. 134 del 2010 si e' affermato nuovamente che «deve essere riconosciuta la possibilita' di interventi legislativi delle regioni con riguardo al fenomeno dell'immigrazione, per come previsto dall'art. 1, comma 4, del decreto legislativo n. 286 del 1998 - secondo cui "Nelle materie di competenza legislativa delle regioni, le disposizioni del presente testo unico costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" - tuttavia, tale potesta' legislativa non puo' riguardare aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio o all'assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle regioni (sentenze n. 50 del 2008 e n. 156 del 2006)» (sent. n. 134 del 2010, punto 2 in diritto, il cui tenore e' ribadito in toto dalla sentenza n. 61 del 2011, punto 2.1 in diritto).

Anche nella disciplina successiva al testo unico, peraltro, affiorano richiami alla leale collaborazione e in generale al coinvolgimento regionale e locale (articoli 8 e 16 decreto legislativo n. 142 del 2015).

In sostanza, quindi, codesta Corte ha riconosciuto che esiste una distinzione tra quanto attiene ad asilo e immigrazione, ambito nel quale si esplicano le competenze statali di cui all'art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., e tutto cio' che riguarda invece l'assistenza lato sensu intesa, ossia quanto accade dopo che lo straniero e' stato inquadrato dai competenti organi statali come soggetto che a qualunque titolo permane nel territorio nazionale, e in relazione al quale gli enti territoriali competenti possono e debbono esercitare i propri compiti. E' su questa situazione che si esercita la competenza regionale in materia di accoglienza - ben consacrata, tra gli altri, all'art. 40, comma 1, del decreto legislativo n. 286 del 1998, secondo il quale «le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni e con le associazioni e le organizzazioni di volontariato predispongono centri di accoglienza destinati ad ospitare, anche in strutture ospitanti cittadini italiani o cittadini di altri Paesi dell'Unione europea, stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza»; e tale competenza si ritiene qui lesa dalle disposizioni del decreto-legge n. 113 del 2018 che incidono sul sistema SPRAR, e quindi in particolare da quelle recate dall'art. 12.

Come sopra esposto, infatti, tale articolo rimodula completamente il sistema dell'accoglienza, precludendo - in relazione a soggetti che, in attesa di ulteriori decisioni, legittimamente permangono nel territorio nazionale - l'esercizio delle funzioni assegnate alle regioni, in violazione dell'art. 117, commi terzo e quarto, Cost. Lo stravolgimento della disciplina SPRAR, inoltre, viola le specifiche funzioni attribuite ai comuni (come si e' visto pienamente tutelabili da parte delle regioni), che sono sempre stati i soggetti deputati all'accoglienza diffusa sul territorio, e storicamente hanno sempre svolto tale funzione: l'incisione della funzione di accoglienza dei richiedenti asilo costituisce, pertanto, una violazione degli articoli 5, 114 e 118 Cost.

A tale ampia modifica, peraltro, si accompagna l'esclusione degli enti locali dai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo, costituito parzialmente da fondi europei (art. 1-septies, decreto-legge n. 416 del 1989) volti a finanziare i progetti inerenti all'accoglienza, in violazione dell'art. 117, primo comma, 118 e 120 Cost. e della leale collaborazione.

In sintesi, quindi, la modifica della disciplina dell'accoglienza ridonda rispetto alle competenze regionali, ostacolando o rendendo piu' complesso e piu' dispendioso l'operato della Regione Emilia-Romagna nell'esercizio delle proprie competenze.

II.3. Ragioni e profili di illegittimita' costituzionale.

II.3.1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 1, lettere a), a-ter), b), c) e d), modificativo del decreto-legge n. 416 del 1989; dell'art. 12 comma 2, lettera a), numeri l e 2, b), c), d), numeri 1 e 2, f), numeri 1 e 5, g), numeri 1 e 2, h), numeri 1 e 2, modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015; dell'art. 12, comma 3, lettera a), modificativo del decreto legislativo n. 25 del 2008; dell'art. 12, comma 4.

Come illustrato al punto II.1, l'art. 12, commi 1, 2, 3 e 4, decreto-legge n. 113 del 2018 interviene sul decreto-legge n. 416 del 1989, sul decreto legislativo n. 142 del 2015 e sul decreto legislativo n. 25 del 2008, eliminando il sistema SPRAR e trasformandolo in SIPROIMI, dedicato non piu' ai richiedenti protezione bensi' ai titolari di tale protezione.

In linea con questa scelta, e come sopra analiticamente illustrato, ogni riferimento al sistema SPRAR e' ovunque sostituito con quello al SIPROIMI dall'art. 12, comma 4, e tutte le forme di accoglienza che erano destinate ai centri SPRAR secondo il decreto legislativo n. 142 del 2015 (segnatamente, quella dei richiedenti privi di mezzi sufficienti di cui all'art. 14 e quella dei soggetti vulnerabili di cui all'art. 17), e i finanziamenti vengono dirottati sul nuovo sistema, a esclusione evidentemente di ogni forma di accoglienza territoriale dei richiedenti, eliminando inoltre tutte le forme di monitoraggio e di coordinamento prima esistenti.

Con tutte le norme impugnate, inoltre, vengono eliminati i riferimenti all'accoglienza dei richiedenti nel sistema SPRAR e, per quanto riguarda i soggetti indigenti nonche' quelli particolarmente vulnerabili, vengono sostituiti con riferimenti all'accoglienza nei centri governativi CPA o nei CAS, anche per quanto riguarda l'incardinamento della competenza della Commissione territoriale che decide sulla domanda di protezione.

Le modifiche apportate dal cd. decreto sicurezza risultano - sia per quanto riguarda le disposizioni modificative e soppressive del sistema SPRAR, sia per quanto riguarda quelle che modificano consequenzialmente le disposizioni di richiamo, tutte indicate nella rubrica della presente sezione e tutte impugnate -, ad avviso della ricorrente Regione, costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni.

Conviene precisare, innanzi tutto, che sino a quando la loro domanda non sia stata accolta o respinta, i richiedenti asilo non solo legittimamente permangono nel territorio nazionale, ma non sono soggetti a misure limitative della liberta' personale. Trattandosi di persone normalmente in condizioni di indigenza essi sono accolti in strutture a cio' riservate, e naturalmente sono tenuti a rispettare le regole di accoglienza di tali strutture, il che comporta fisiologicamente talune limitazioni, ma nulla che escluda il godimento di quelle liberta' e di quelle opportunita' che la Costituzione riserva ad ogni persona, nel momento in cui essa entri nel raggio di azione dell'ordinamento italiano. Capovolgendo il punto di vista, i richiedenti asilo fanno parte come ogni altra persona legittimamente presente nel territorio della comunita' in relazione alla quale la Regione e gli enti locali della regione sono chiamati ad esercitare i propri compiti e le proprie funzioni costituzionali.

In questa prospettiva, l'accentramento in sedi ed istituzioni statali delle funzioni di accoglienza dei richiedenti asilo inevitabilmente compromette la facolta' delle regioni di disciplinare le forme dell'assistenza ai richiedenti asilo, ivi compresa l'istituzione di strutture idonee e l'individuazione delle funzioni degli enti locali nella materia, ulteriori a quelle eventualmente individuate dallo Stato come funzioni fondamentali.

Si noti che la competenza della Regione nella materia, a completamento ed integrazione della disciplina statale, e' stata esercitata con la legge regionale n. 5 del 2004, come si e' sopra compiutamente esposto.

Inoltre, le disposizioni statali qui impugnate sottraggono agli enti locali della Regione Emilia-Romagna e in generale una funzione loro propria inerente a una competenza pacificamente regionale, quella in materia di assistenza ad una particolare categoria di persone, bisognose di accoglienza.

Gli enti locali, come si e' evidenziato, hanno sempre avuto una funzione primaria nell'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: funzione che e' stata finalmente istituzionalizzata con la legge n. 189 del 2002.

In particolare, oltre alla ripartizione di competenze tra i differenti livelli di governo sancita dal testo unico sull'immigrazione che la giurisprudenza di codesta Corte ha piu' volte posto in evidenza, anche altre disposizioni prevedono forme intense di coordinamento, quali il Tavolo di coordinamento nazionale e i Tavoli regionali (cfr. art. 8, decreto legislativo n. 142 del 2015 e art. 29, comma 3, decreto legislativo n. 281 del 2007, che prevede che il Tavolo sia «composto da rappresentanti del Ministero dell'interno, dell'Ufficio del Ministro per l'integrazione, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, delle regioni, dell'Unione delle province d'Italia (UPI) e dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), ed e' integrato, in sede di programmazione delle misure di cui alla presente disposizione, con un rappresentante del Ministro delegato alle pari opportunita', un rappresentante dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), un rappresentante, della Commissione nazionale per il diritto di asilo e, a seconda delle materie trattate, con rappresentanti delle altre amministrazioni o altri soggetti interessati»). L'integrazione, peraltro, e' incoraggiata anche a livello di normativa europea, la' dove si sottolinea, nella direttiva 2013/33/UE, che «e' opportuno incoraggiare un appropriato coordinamento tra le autorita' competenti per quanto riguarda l'accoglienza dei richiedenti, e pertanto promuovere relazioni armoniose tra le comunita' locali e i centri di accoglienza».

Del resto, tutte le funzioni amministrative relative alla presenza delle persone sul proprio territorio spettano pacificamente ai comuni, in particolare per quel che concerne i servizi alla persona. E' evidente pertanto che la funzione della «seconda accoglienza» era correttamente allocata a livello comunale secondo l'art. 118, primo comma, Cost., fermo restando che i comuni, in ogni caso, secondo l'art. 14, comma 27, lettera g), decreto-legge n. 78 del 2010, hanno tra le loro funzioni fondamentali la «progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali».

La funzione essenziale dei comuni nel sistema SPRAR e' infine attestata dall'art. 1-sexies, comma 4, decreto-legge n. 416 del 1989, che - anche nella versione innovata dal cd. decreto sicurezza -prevede l'affidamento all'ANCI del servizio centrale prima SPRAR e oggi SIPROIMI.

La violazione della sussidiarieta' e la privazione di funzioni fondamentali dei comuni risultano dunque evidenti, come evidente e' la violazione delle competenze regionali in materia di accoglienza.

Ne' varrebbe obiettare che, come risulta da quanto esposto, fino ad ora le funzioni comunali in materia di accoglienza dei richiedenti asilo erano in gran parte disciplinate dalla legge dello Stato, che sarebbe dunque perfettamente legittimata a togliere funzioni che da essa dipendono. Un conto, infatti, e' ammettere la competenza statale a dettare una disciplina di funzioni storicamente comunali, come quelle di assistenza, in forza della connessione con una materia di competenza statale, quale l'immigrazione; e un conto del tutto diverso e' che lo Stato possa accentrare a se' stesso tali funzioni, privandone sia la Regione che gli enti locali, che ne sono costituzionalmente titolari.

Si noti peraltro che, per quanto riguarda specificamente la Regione Emilia-Romagna, la competenza costituzionalmente garantitale e' stata esercitata con la gia' ricordata legge regionale n. 5 del 2004, che attribuisce appunto ai comuni emiliani rilevantissime funzioni (art. 5), e in particolare una competenza generale secondo cui, «in attuazione dei principi di cui al comma primo dell'art. 118 della Costituzione Sito esterno, compete ai comuni l'esercizio di ogni ulteriore funzione concernente l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati» (art. 5, comma 2).

La soppressione del sistema SPRAR in relazione ai richiedenti asilo, che ridonda sulle competenze regionali nei termini indicati, inoltre, risulta del tutto irragionevole, in violazione dell'art. 3 Cost., nonche' del principio di sussidiarieta', mettendo inoltre a repentaglio basilari diritti riconosciuti a tutti dall'art. 2 Cost.

Sotto il primo profilo, l'eliminazione della distinzione tra misure di prima e di seconda accoglienza ha introdotto una contraddizione radicale all'interno del decreto legislativo n. 142 del 2015, che rende irrazionale l'intera organizzazione del sistema dell'accoglienza.

Come si e' accennato, infatti, i richiedenti asilo o protezione internazionale privi di adeguati mezzi di sussistenza sono accolti, nella versione novellata del citato decreto, presso i CPA, secondo l'art. 14 nella nuova formulazione: «il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualita' di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del presente decreto», ossia quella presso i CPA e, ove questi non siano in grado di assicurare posti liberi, presso i CAS.

Di conseguenza, in corrispondenza con l'abrogazione della distinzione tra prima e seconda accoglienza, i CPA divengono strutture di accoglienza di lungo termine per i richiedenti asilo privi di mezzi.

Ora, nel decreto legislativo n. 142 del 2015, tuttavia, permangono le disposizioni che connotavano il sistema dei CPA come prima accoglienza (a partire dall'art. 9, comma 1, che li identifica idonei «per le esigenze di prima accoglienza») di carattere provvisorio, disponendo, ad esempio, all'art. 9, comma 4, che «il richiedente e' accolto per il tempo necessario, all'espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda ed all'avvio della procedura di esame della medesima domanda, nonche' all'accertamento delle condizioni di salute diretto anche a verificare, fin dal momento dell'ingresso nelle strutture di accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilita' ai fini di cui all'art. 17, comma 3».

Risulta dunque dalla stessa testuale formulazione della normativa di riferimento che le strutture denominate CPA erano e sono del tutto impreparate a offrire un'accoglienza di lungo termine, essendo state viceversa ed essendo tuttora previste come strutture che si limitano alla prima (e breve) accoglienza.

Per tali motivi, l'innovazione normativa risulta del tutto irragionevole nell'affidare a centri deputati esclusivamente alla prima accoglienza, e come tali attrezzati, anche l'assistenza ai richiedenti indigenti e alle loro famiglie per la durata dell'esame della domanda.

Inoltre, la soppressione del sistema SPRAR e' ulteriormente irragionevole in quanto sopprime un sistema di accoglienza notoriamente ben funzionante in favore di un'irrazionale concentrazione di tutti i richiedenti protezione presso strutture governative (CPA o CAS), con palese violazione del principio di sussidiarieta' e con la prospettiva di sicure violazioni dei diritti umani dei soggetti ospitati, anche essendo notorio che, nei centri statali, «le condizioni di accoglienza non soltanto risultano peggiori rispetto a quelle assicurate nelle strutture SPRAR, ma sotto diversi profili si pongono addirittura al di sotto degli standard imposti dalle norme europee» (cosi' A. Annoni, Autonomie, cit., 203), ragion per cui l'Italia ha subito anche una procedura di infrazione in sede europea ex art. 258 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (n. 2012/2189).

Per la stessa ragione e' violato il principio di sussidiarieta', dal momento che l'assodato buon funzionamento degli SPRAR toglie ogni giustificazione alla concentrazione dell'assistenza ai richiedenti asilo presso rarefatte strutture statali.

Per le stesse ragioni e' violato altresi' il principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.

II.3.2. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 1, lettera a-bis), modificativo del decreto-legge n. 416 del 1989, e dell'art. 12, comma 2, lettera f), n. 2, modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015.

Con l'art. 12, comma 2, lettera a-bis), e comma 2, lettera f), n. 2, decreto-legge n. 113 del 2018, viene riformulata la disciplina dei finanziamenti ai progetti di accoglienza nel sistema SPRAR, ora SIPROIMI.

Quanto all'ultima disposizione (lettera f), n. 2), essa provvede semplicemente ad abrogare il comma 2 dell'art. 14, decreto legislativo n. 142 del 2015, in conseguenza con la sparizione dal sistema dei progetti volti all'accoglienza dei richiedenti privi di mezzi sufficienti di sostentamento presso le strutture degli enti locali, cosi' escludendo l'accoglienza dei richiedenti asilo dal finanziamento pubblico del sistema locale.

Questa disposizione appare illegittima, in primo luogo, per una sorta di invalidita' derivata: se, come la ricorrente Regione ritiene, e' illegittima la sottrazione della funzione al sistema SPRAR, risulta di conseguenza illegittima la soppressione del finanziamento necessario ad esercitare la funzione.

Essa, inoltre, e' illegittima anche in assoluto: se pure fosse legittimo concentrare l'offerta di strutture di accoglienza nel sistema dei CPA e CAS, cio' non significherebbe affatto che la Regione e gli enti locali possano essere privati di qualunque finanziamento inerente a funzioni di assistenza, delle quali esse rimarrebbero comunque responsabili per tutto quanto non sia intrinsecamente collegato alla presenza fisica nelle strutture (si pensi, ad esempio, alle strutture di formazione, di insegnamento della lingua italiana e in generale alle diverse funzioni di integrazione sociale) e comunque anche competenti per quel che riguarda la creazione di strutture diverse dagli ex SPRAR, oggi SIPROIMI, e aperte ai richiedenti, che sono pur sempre soggetti legittimamente soggiornanti.

In altre parole, si contesta il fatto che, eliminando il sistema SPRAR, si preclude l'accesso degli enti locali al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo, composto da: «a) le risorse iscritte nell'unita' previsionale di base 4.1.2.5 "Immigrati, profughi e rifugiati" - capitolo 2359 - dello stato di previsione del Ministero dell'interno per l'anno 2002, gia' destinate agli interventi di cui all'art. 1-sexies e corrispondenti a 5,16 milioni di euro; b) le assegnazioni annuali del Fondo europeo per i rifugiati, ivi comprese quelle gia' attribuite all'Italia per gli anni 2000, 2001 e 2002 ed in via di accreditamento al Fondo di rotazione del Ministero dell'economia e delle finanze; c) i contributi e le donazioni eventualmente disposti da privati, enti o organizzazioni, anche internazionali, e da altri organismi dell'Unione europea» (cosi' l'art. l-septies, comma 1, decreto-legge n. 416 del 1989).

Di conseguenza, eliminando il canale di finanziamento per lo SPRAR relativamente all'accoglienza dei richiedenti, gli enti locali appaiono privati di qualunque via per accedere ai finanziamenti per tale tipologia di servizio, che pure sono competenti assieme alla Regione, a svolgere. La disposizione e' dunque illegittima, per violazione degli articoli 117 e 119 Cost., nella parte in cui priva il sistema regionale e locale di qualunque finanziamento in relazione all'assistenza ai richiedenti asilo e, di conseguenza, con l'art. 117, primo comma, Cost., e con l'art. 11 Cost., dal momento che non permette l'accesso degli enti locali nemmeno ai fondi europei, «diluiti» in quelli nazionali, previsti dal regolamento 2014/516/UE anche per i richiedenti protezione (art. 5, comma 1, lettera b del regolamento).

Inoltre, la lettera a-bis), nella sua nuova formulazione del ruolo della Conferenza unificata all'interno del finanziamento del SIPROIMI, e' altresi' lesiva delle prerogative regionali in materia di accoglienza.

Innanzi tutto, e' anch'essa collegata al venir meno del ruolo del sistema locale di accoglienza, ed e' dunque illegittima per le stesse ragioni.

In subordine, essa sarebbe illegittima anche nel diverso quadro ora disposto, nella parte in cui limita il ruolo della Conferenza unificata.

Nella versione previgente dell'art 1-sexies, decreto-legge n. 416 del 1989, infatti, la Conferenza si pronunciava - senza limiti di tempo - direttamente sulle modalita' di spesa disposte dall'apposito decreto ministeriale, mentre nella versione novellata puo' incidere soltanto sulle modalita' e sui criteri della presentazione delle domande di finanziamento, rimanendo invece integralmente al Ministero la scelta sulla concreta allocazione dei fondi.

Tale sottrazione e' del tutto irragionevole e ingiustificata, in quanto la funzione di assistenza rimane, per assegnazione costituzionale, una funzione regionale e locale, anche se i richiedenti che ne sono destinatari sono ospitati in strutture statali. La riduzione del ruolo della Conferenza viola in primo luogo il principio di leale collaborazione, riconducibile all'art. 120, secondo comma, Cost., in secondo luogo il principio di ragionevolezza e il principio di buon andamento, in quanto priva l'amministrazione del fondo di una sede di coordinamento tra l'autorita' responsabile dei Centri e le autorita' regionali e locali responsabili delle funzioni di benessere.

II.3.3. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 1, lettera h-bis), modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015.

Come gia' accennato nella descrizione delle modifiche apportate dal cd. decreto sicurezza all'art. 19, comma 3, decreto legislativo n. 142 del 2015, i minori non accompagnati, di regola, dovrebbero essere accolti, nel sistema attuale, da «strutture governative di prima accoglienza a loro destinate» (cosi' art. 19, comma 1, decreto legislativo n. 142 del 2015) per il tempo necessario all'identificazione (comunque non oltre 30 giorni), per poi transitare nel nuovo sistema SIPROIMI, presso il quale dovrebbero ricevere accoglienza stabile.

Ove tali strutture non siano disponibili, tuttavia, il comma 3 prevede, oggi come nella versione previgente, che «l'assistenza e l'accoglienza del minore sono temporaneamente assicurate dalla pubblica autorita' del comune in cui il minore si trova».

Nella versione novellata, tuttavia, e' stata aggiunta una clausola di salvaguardia finanziaria, che recita «e comunque senza alcuna spesa o onere a carico del comune interessato all'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati».

Tale aggiunta e' impugnata, con il presente motivo, non nella parte in cui prevede che gli enti locali non siano gravati da tali spese, ma per la sola ipotesi che essa dovesse essere intesa come limitazione della possibilita' dei comuni emiliani, nell'esercizio di funzioni proprie, di finanziare liberamente le proprie attivita'. Ove dovesse essere intesa come includente un profilo restrittivo, la disposizione risulterebbe gravemente lesiva dell'autonomia finanziaria degli enti locali, in spregio agli articoli 118 e 119 Cost., oltreche' essere di ostacolo al buon andamento dell'amministrazione prescritto dall'art. 97 Cost.

II.3.4. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 2, lettera l), modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015.

La lettera l) dell'art. 12, comma 2, decreto-legge n. 113 del 2018 cancella l'art. 22, comma 3, dal decreto legislativo n. 142 del 2015.

Secondo tale comma nella sua versione vigente prima dell'abrogazione, «i richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell'art. 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell'ente locale dedicato all'accoglienza del richiedente».

Tale disposizione e' anch'essa evidentemente collegata alla sottrazione al sistema locale dell'assistenza ai richiedenti asilo, ed e' illegittima per le stesse ragioni, come e' illegittima la corrispondente eliminazione della partecipazione ai fondi destinati all'accoglienza, nei termini sopra esposti.

Ulteriormente, l'abrogazione potrebbe essere intesa addirittura come rivolta ad istituire un divieto posto alla regione e agli enti locali di organizzare attivita' di formazione professionale ai quali i richiedenti asilo possano partecipare.

Se dovesse essere cosi' interpretata, la disposizione risulterebbe ulteriormente illegittima, trattandosi di compiti rientranti nella competenza piena della regione ex art. 117, terzo e quarto comma, Cost. (rispettivamente, tutela del lavoro e formazione professionale), compiti che la Regione ha il dovere di svolgere in relazione a tutti coloro che legittimamente si trovino nel territorio nazionale, in connessione con l'art. 35 Cost.

II.3.5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 2, lettera m), modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015.

Nella stessa prospettiva di quanto da ultimo osservato, la Regione Emilia-Romagna impugna in via cautelativa anche l'art. 12, comma 2, lettera m) del cd. decreto sicurezza, nella parte in cui elimina il riferimento ai richiedenti, sostituendolo con i titolari, rispetto alle attivita' previste dal comma 1 dell'art. 22-bis, decreto legislativo n. 142 del 2015, secondo il quale «i prefetti promuovono, d'intesa con i comuni e con le regioni e le province autonome, anche nell'ambito dell'attivita' dei Consigli territoriali per l'immigrazione di cui all'art. 3, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, ogni iniziativa utile all'implementazione dell'impiego di titolari di [precedentemente: richiedenti] protezione internazionale, su base volontaria, in attivita' di utilita' sociale in favore delle collettivita' locali, nel quadro delle disposizioni normative vigenti».

Anche questa disposizione, infatti, si presta a essere interpretata come un divieto rispetto alla possibilita' per comuni, regioni e province autonome di organizzare iniziative utili alla «implementazione dell'impiego», per di piu' in favore delle collettivita' locali, in relazione ai richiedenti asilo: e cosi' intesa sarebbe illegittima di nuovo per violazione delle competenze regionali in materia di formazione professionale e di tutela del lavoro (117, quarto e terzo comma, Cost.), in connessione con gli articoli 4 e 35 Cost.

Inoltre, la modifica introdotta al comma 3 dell'art. 22-bis elimina altresi' i finanziamenti destinati alla predisposizione di iniziative utili alla «implementazione dell'impiego» a favore dei richiedenti, ragion per cui anche a voler interpretare la disposizione diversamente rispetto a un secco divieto, essa corrisponde in ogni caso alla sottrazione dei fondi europei specificamente destinati anche alle iniziative in favore dei richiedenti asilo, e viola pertanto, oltre agli articoli 4 e 35 Cost. gia' richiamati, anche il principio di sussidiarieta' ex art. 118 Cost., l'art. 119 Cost., il principio di leale collaborazione e lo stesso regolamento europeo in materia di finanziamenti alle politiche relative all'immigrazione (2014/516/UE) attraverso l'art. 117, primo comma, Cost.

II.3.6. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 5.

Da quanto sin qui argomentato discende altresi' l'illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 5, decreto legislativo n. 113 del 2018, secondo il quale «i richiedenti asilo presenti nel Sistema di protezione di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, alla data di entrata in vigore del presente decreto, rimangono in accoglienza fino alla scadenza del progetto in corso, gia' finanziato».

La disposizione, ponendo la scadenza del progetto quale limite alla permanenza in accoglienza, espelle in realta' i richiedenti dal sistema dell'accoglienza, aggravandone senza ragione le condizioni di permanenza temporanea nel territorio.

Essa risulta pertanto illegittima non soltanto perche' costituisce la materiale conseguenza dell'abolizione del sistema SPRAR dedicato ai richiedenti, ma altresi' perche' si pone in diretta violazione dei diritti dei soggetti in accoglienza, i quali da un giorno all'altro si ritrovano privi di qualunque tipo di sostegno ed espulsi dal contesto di vita nel quale erano inseriti.

Risultano violati, oltre alle competenze regionali in materia di assistenza, anche ed in particolare, l'art. 3 Cost. per manifesta irragionevolezza e violazione dei diritti quesiti dei richiedenti, i quali si vedono privati dell'accoglienza senza che la loro condizione giuridica o materiale si sia in alcun modo modificata; dell'art. 117, primo comma, e dell'art. 11 Cost., in quanto risulta violato altresi' l'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali in materia di tutela della vita privata e familiare, messe entrambe a repentaglio dall'espulsione dai centri in cui prima si era legittimamente accolti.

L'irragionevolezza, peraltro, e' palese anche all'interno del sistema del cd. decreto sicurezza, poiche' i soggetti che vengono allontanati dai centri SPRAR dovrebbero essere trasferiti nei CPA governativi, cosa che non viene in alcun modo prevista.

Sussiste, inoltre, un ulteriore profilo di illegittimita', relativo alle funzioni regionali e comunali in materia di accoglienza.

L'art. 12, comma 5, decreto-legge n. 113 del 2018, infatti, costringe gli enti locali a espellere i richiedenti asilo dai propri centri, quand'anche le risorse economiche dell'ente oppure quelle fornite dalla Regione nell'ambito delle proprie competenze risultassero perfettamente sufficienti.

Sotto questo profilo, pertanto, risultano invase competenze regionali in materia di accoglienza di cui all'art. 117, terzo e quarto comma, nonche' il principio di sussidiarieta' di cui agli articoli 5, 114 e 118 Cost., anche al comma terzo che prevede forme di coordinamento proprio in materia di immigrazione, e ancora il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost.

II.3.7. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 6.

L'art. 12, comma 6, decreto-legge n. 113 del 2018 dispone che «i titolari di protezione umanitaria presenti nel Sistema di protezione di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, alla data di entrata in vigore del presente decreto, rimangono in accoglienza fino alla scadenza del periodo temporale previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del medesimo Sistema di protezione e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza».

La disposizione, ponendo la scadenza del progetto quale limite alla permanenza in accoglienza, espelle in realta' i titolari di protezione umanitaria dal sistema dell'accoglienza, aggravandone senza ragione le condizioni di permanenza temporanea nel territorio.

Essa risulta pertanto illegittima non soltanto perche' costituisce la materiale conseguenza dell'abolizione del sistema SPRAR dedicato ai richiedenti e ai titolari della protezione umanitaria, ma altresi' perche' si pone in diretta violazione dei diritti dei soggetti in accoglienza, i quali da un giorno all'altro si ritrovano privi di qualunque tipo di sostegno ed espulsi dal contesto di vita nel quale erano inseriti.

Oltre alle competenze regionali in materia di assistenza, risulta violato anche ed in particolare, l'art. 3 Cost. per manifesta irragionevolezza e violazione dei diritti quesiti dei richiedenti, i quali si vedono privati dell'accoglienza senza che la loro condizione giuridica o materiale si sia in alcun modo modificata, e oltretutto vedono ricondotta tale mutazione al momento terminale del progetto di accoglienza, non invece a quello della scadenza del permesso di soggiorno.

Tale scelta e' evidentemente priva di qualsiasi ragione, posto che fino alla scadenza del permesso essi sono titolari e hanno quindi diritto - fatta salva la gia' argomentata illegittimita' dell'abolizione della protezione umanitaria - all'accoglienza presso il SIPROIMI esattamente come i titolari delle forme di protezione sopravvissute al cd. decreto sicurezza.

A tale irragionevolezza si aggiunge il fatto che non risulta emanata alcuna disposizione di attuazione come quella menzionata nel comma impugnato.

Appare evidente, inoltre, la contrarieta' di tale disposizione all'art. 117, primo comma, e dell'art. 11 Cost., in quanto risulta violato altresi' l'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali in materia di tutela della vita privata e familiare, messe entrambe a repentaglio dall'espulsione dai centri in cui prima si era legittimamente accolti.

III. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 13, COMMA 1, LETTERA A), N. 2, COMMA 1, LETTERA B), NUMERI 1 E 2, E COMMA 1, LETTERA C), DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018

III.1. La disciplina dell'iscrizione anagrafica e le modifiche operate dal decreto.

Si contesta in questa sezione la legittimita' costituzionale dell'intervento posto in essere attraverso l'art. 13 del decreto legislativo n. 113 del 2018.

Fino all'emanazione di tale decreto, il permesso di soggiorno rilasciato al soggetto richiedente aveva funzione sia di documento di riconoscimento, sia di titolo per l'iscrizione anagrafica presso i comuni.

Tale secondo aspetto e' stato radicalmente modificato dall'art. 13, comma 1, lettera a), n. 2, mediante il nuovo comma 1-bis dell'art. 4, decreto legislativo n. 142 del 2015. L'articolo modificato risulta pertanto ora cosi' formulato nei suoi primi due commi:   1. Al richiedente e' rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui e' autorizzato a rimanere nel territorio nazionale ai sensi dell'art. 35-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25. Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. (3)   1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell'art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

In altri termini, viene dimezzata la funzione del documento, che vale ai fini del riconoscimento, ma non (piu'), invece, ai fini dell'iscrizione anagrafica presso il Comune.

Alla modifica menzionata si coordina la novella recata dall'art. 13, comma 1, lettera b), numeri 1 e 2, che modificano l'art. 5, commi 3 e 4, decreto legislativo n. 142 del 2015, come segue:   3. L'accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti e' assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2.

4. Il prefetto competente in base al luogo di presentazione della domanda ovvero alla sede della struttura di accoglienza puo' stabilire, con atto scritto e motivato, comunicato al richiedente con le modalita' di cui all'art. 6, comma 5, un luogo di domicilio o un'area geografica ove il richiedente puo' circolare.

I primi due commi prevedono che:   1. Salvo quanto previsto al comma 2, l'obbligo di comunicare alla questura il proprio domicilio o residenza e' assolto dal richiedente tramite dichiarazione da riportare nella domanda di protezione internazionale. Ogni eventuale successivo mutamento del domicilio o residenza e' comunicato dal richiedente alla medesima questura e alla questura competente per il nuovo domicilio o residenza ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno di cui all'art. 4, comma 1.

2. Per il richiedente trattenuto o accolto nei centri o strutture di cui agli articoli 6, 9 e 11, l'indirizzo del centro costituisce il luogo di domicilio valevole agli effetti della notifica e delle comunicazioni degli atti relativi al procedimento di esame della domanda, nonche' di ogni altro atto relativo alle procedure di trattenimento o di accoglienza di cui al presente decreto. L'indirizzo del centro ovvero il diverso domicilio di cui al comma 1 e' comunicato dalla questura alla Commissione territoriale.

In sintesi, i soggetti richiedenti vengono muniti di un documento che, tuttavia, non e' valevole ai fini dell'iscrizione anagrafica, e pertanto non permette di ottenere la residenza, lasciando spazio soltanto per una mera domiciliazione.

Di conseguenza, il richiedente puo' dichiarare un domicilio (o una residenza, specifica la norma, che pero' non potra' avvenire, evidentemente, se il suo unico titolo e' proprio il permesso di soggiorno per richiesta di asilo) al momento della formalizzazione della domanda di protezione, o - come recita il comma 2 - l'obbligo di comunicazione e' assolto direttamente dall'accoglienza presso un centro di espulsione o di accoglienza, luogo che diviene automaticamente il domicilio del richiedente.

Infine, l'art. 13, comma 1, lettera c), abroga l'art. 5-bis del decreto legislativo n. 142 del 2015. Tale articolo recitava:   Art. 5-bis (Iscrizione anagrafica). - 1. Il richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 e' iscritto nell'anagrafe della popolazione residente ai sensi dell'art. 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, ove non iscritto individualmente.

2. E' fatto obbligo al responsabile della convivenza di dare comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti.

3. La comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della revoca delle misure di accoglienza o dell'allontanamento non giustificato del richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con effetto immediato, fermo restando il diritto di essere nuovamente iscritto ai sensi del comma 1.

La disposizione istituiva un collegamento diretto tra l'accoglienza nel sistema SPRAR e l'ufficializzazione di un luogo di residenza, istituendo una procedura semplificata e affidando al responsabile del contro di accoglienza la cura degli adempimenti conseguenti. L'abrogazione sembra confermare che le nuove disposizioni intendono privare i richiedenti del diritto alla residenza.

III.2. Profili di illegittimita' costituzionale.

III.2.1. Illegittimita' costituzionale delle disposizioni impugnate in quanto privano i richiedenti asilo del diritto al riconoscimento del loro luogo di residenza e le autorita' pubbliche, ivi comprese quelle regionali e comunali, di accertare e stabilire la residenza delle persone. In subordine, loro illegittimita' costituzionale per irragionevolezza e violazione del principio di buon andamento.

Secondo l'art. 43, comma secondo, del codice civile «la residenza e' nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale». Il comma primo, invece, definisce il domicilio di una persona come il «luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi».

Si tratta di nozioni di carattere generale, che formano una parte della grammatica del diritto civile. Esse sono valide per tutti, e sono insuscettibili di applicazione differenziata per persone, per luoghi o per situazioni particolari.

La residenza, inoltre, pacificamente corrisponde ad una situazione di fatto: una persona potra' determinarsi a dimorare abitualmente in un luogo o in un altro, ma il luogo ove di fatto egli dimora abitualmente e' il luogo della sua residenza, e la competente autorita' comunale ha il potere ed il dovere di accertarlo anche indipendentemente dall'iniziativa dell'interessato, e persino contro il suo desiderio.

Peraltro, la giurisprudenza di legittimita' da molti anni riconosce che quello all'iscrizione anagrafica e' un diritto soggettivo perfetto, affermando che «l'ordinamento delle anagrafi della popolazione residente (legge 24 dicembre 1954, n. 1228 e relativo regolamento di esecuzione approvato con decreto del Presidente della Repubblica 31 gennaio 1958, n. 136, vigente all'epoca dei fatti, e poi sostituito dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223) configura uno strumento giuridico - amministrativo di documentazione e di conoscenza, che e' predisposto nell'interesse sia della pubblica amministrazione, sia dei singoli individui», cosicche' «sussiste, invero, non soltanto l'interesse dell'amministrazione ad avere una relativa certezza circa la composizione ed i movimenti della popolazione ..., ma anche l'interesse dei privati ad ottenere le certificazioni anagrafiche ad essi necessarie per l'esercizio dei diritti civili e politici e, in generale, per provare la residenza e lo stato di famiglia».

Dal momento che «tutta l'attivita' dell'ufficiale d'anagrafe e' disciplinata dalle norme sopra richiamate in modo vincolato, senza che trovi spazio alcun momento di discrezionalita'», prosegue la Corte di cassazione, «la regolamentazione qui considerata, per la natura vincolata dell'attivita' amministrativa da essa disciplinata e perche' e' dettata nell'interesse diretto della popolazione residente, non contiene norme sull'azione amministrativa, ma e' composta da norme di relazione che disciplinano rapporti intersoggettivi», per cui «tali norme non attribuiscono all'amministrazione alcun potere idoneo a degradare i diritti soggettivi attribuiti ai singoli individui» (cosi' Cassazione Sez. Unite, 19 giugno 2000, n. 449).

In questo indiscutibile contesto deve essere inteso il significato delle nuove disposizioni, secondo le quali: a) il permesso di soggiorno non costituisce (piu') documento idoneo all'iscrizione anagrafica; b) il «luogo di domicilio» acquista nuovo rilievo giuridico a determinati effetti, e viene comunicato alla Commissione territoriale; e' abrogata la norma che prevedeva l'automatica iscrizione dei richiedenti asilo accolti in uno dei centri del sistema SPRAR.

Secondo un'interpretazione radicale, le nuove disposizioni potrebbero essere rivolte non meramente a disciplinare quali documenti debba presentare il richiedente all'anagrafe, escludendone il permesso di soggiorno, o ad eliminare l'obbligo del responsabile del centro di comunicare i nomi delle persone accolte ai fini dell'iscrizione all'anagrafe dei residenti, ma addirittura ad impedire l'identificazione e la qualificazione dei richiedenti asilo come residenti. In altre parole, per essi non varrebbe l'art. 43 del codice civile, ne' conseguentemente il potere e il dovere dei comuni in quanto responsabile dell'anagrafe di accertarne il luogo di residenza. I richiedenti asilo sarebbero, in parole ulteriormente diverse, soggetti privi di residenza, privi di ubicazione fissa e non identificati come tali nella comunita' territoriale nella quale si trovano. Essi avrebbero un domicilio, cioe', a termini del codice, una sede di affari e interessi, ma non un luogo nel quale essi, come persone, siano riconosciuti trovarsi abitualmente.

Non sembra occorrano molte parole per dimostrare l'illegittimita' costituzionale delle disposizioni interessate, ove esse dovessero essere intese nel senso indicato.

Dal lato soggettivo, esse creerebbero delle persone istituzionalmente di serie B, veri fantasmi sociali, privi persino del diritto di essere ufficialmente considerate come residenti in un luogo, con evidente violazione ad un tempo sia dei «diritti inviolabili dell'uomo» (art. 2 Cost.) - primo tra essi il diritto ad essere riconosciuto come esistente in un determinato luogo - sia del principio generale di uguaglianza nel senso piu' classico e primordiale del termine, con riferimento, in questo caso alla discriminazione in base alle «condizioni personali e sociali». Dal lato oggettivo, la creazione di una categoria di persone prive della residenza come identificazione della loro collocazione territoriale priva le comunita' interessate della possibilita' di riconoscere chi ne e' di fatto parte stabile e conseguentemente della possibilita' di utilizzare il luogo di residenza quale presupposto dell'esercizio delle loro funzioni sia normative che ancor piu' amministrative. E' chiaro, infatti, che qualunque funzione pubblica, di vantaggio o di svantaggio, promozionale o repressiva, richiede in primo luogo la precisazione del luogo della residenza delle persone, ed il riconoscimento del loro diritto-dovere di essere qualificate come residenti.

Questa considerazione, si noti, risolve in radice anche il problema della ridondanza della questione di legittimita' qui posta sulle funzioni regionali, essendo - come detto - la determinazione della residenza il primum di qualunque attivita' di governo delle persone. Evidente e' dunque la violazione di tutte le disposizioni costituzionali che consentono e impongono tali attivita' di governo e di amministrazione, e in particolare degli articoli 5, 97 (principio di buon andamento), 117 e 118 della Costituzione, come anche, e prima ancora, dell'art. 3 inteso quale fondamento del principio di ragionevolezza.

Ferma e - ad avviso della Regione Emilia-Romagna - certissima l'illegittimita' costituzionale delle disposizioni sopra indicate ove intese nel senso indicato, rimane da verificare la possibilita' di attribuire ad esse il piu' ridotto ambito gia' sopra prospettato.

Esse non sarebbero dunque rivolte a privare alcuno del diritto alla residenza (che, si badi, e' anche il dovere di sottostare al riconoscimento della propria residenza in un determinato luogo), ma comporterebbero «soltanto» l'impossibilita' di utilizzare il permesso di soggiorno quale documento utile a determinare la residenza e il venir meno del dovere del responsabile della convivenza di comunicare il nome delle persona accolte nel centro ai fini dell'iscrizione anagrafica, mentre continuerebbe ad esserci, anche per i richiedenti asilo, la possibilita' e il diritto di ottenere l'iscrizione anagrafica in base ad altri documenti o documentazione idonea a dimostrare il fatto della residenza come dimora abituale, e fermo ugualmente il dovere delle autorita' comunali di accertare, in base ad ogni elemento disponibile, ivi compresi i sopralluoghi dei propri vigili, lo stesso fatto della residenza, iscrivendo ogni residente nei registri dell'anagrafe.

Questa diversa interpretazione eviterebbe la creazione gia' nelle norme di una categoria di esseri umani privi del diritto e del dovere di essere riconosciuti quali residenti in un luogo ma, ad avviso della ricorrente Regione, non salverebbe le norme in questione dalla censura di illegittimita' costituzionale.

Infatti, posto come esistente il diritto dei richiedenti asilo di ottenere - come tutti - la certificazione della residenza nel luogo di dimora abituale, e il diritto/dovere delle autorita' comunali di accertare tale residenza, le disposizioni in questione risultano completamente irragionevoli, venendo ad ostacolare, invece che favorire, il processo di accertamento della residenza: ostacolo che nel caso dei richiedenti asilo e' spesso insormontabile, essendo fatto notorio che tali persone, proprio per la loro condizione, sono spesso sprovviste di altri documenti di identita'.

Non si vede infatti, in questo caso, la ragione per negare che a questo fine possa essere utilizzato un documento quale il permesso di soggiorno, rilasciato dal Ministero dell'interno, cioe' dall'autorita' statale piu' idonea ad assicurare il corretto riconoscimento delle persone e della loro collocazione. Ne' si vede - con violazione ulteriore del principio di uguaglianza - per quale ragione un soggetto munito di un documento diverso dal solo permesso di soggiorno (come, ad esempio, un passaporto), ma egualmente richiedente, otterrebbe la residenza, e il titolare del solo permesso di soggiorno invece no.

E risulta altresi' completamente irrazionale l'abrogazione dell'obbligo dei responsabili dei centri di comunicare i nominativi delle persone accolte in essi, ai fini dell'accertamento e dell'attestazione della loro residenti.

Di qui la violazione del principio di ragionevolezza, collegabile anch'esso all'art. 3 della Costituzione, e del principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97.

III.2.2. Rilevanza specifica della residenza per le autorita' pubbliche della Regione.

Sia consentito, ad integrazione delle considerazioni svolte subito sopra, di rilevare come l'eliminazione dell'iscrizione anagrafica comporti conseguenze rilevanti rispetto all'attivita' dei comuni emiliani nell'ambito delle funzioni loro proprie e delle competenze in materia di accoglienza che sono state attribuite alle regioni.

Come gia' ricordato, il comune riveste un ruolo primario rispetto ai servizi e alle prestazioni discendenti dalla presenza di un soggetto nel suo territorio: in tale prospettiva, e' evidente che l'iscrizione anagrafica rappresenta uno snodo cruciale, atto a fungere da presupposto per l'erogazione di molteplici servizi assistenziali.

In particolare, e' tramite l'iscrizione anagrafica che l'amministrazione regionale e comunale possono organizzare servizi inerenti alla sanita' o all'istruzione o ancora all'accesso all'impiego, e in generale mirare la propria azione nella direzione che persegua al meglio l'interesse della sua popolazione.

Tale programmazione - e la relativa partecipazione da parte degli enti locali - e' pacificamente contemplata all'art. 1, comma 3, legge n. 328 del 2000, secondo il quale «la programmazione e l'organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato ai sensi del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e della presente legge, secondo i principi di sussidiarieta', cooperazione, efficacia, efficienza ed economicita', omogeneita', copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilita' ed unicita' dell'amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali», contemplando le funzioni rispettive di comuni, province e regioni agli articoli 6, 7 e 8 della medesima legge.

Il divieto di iscrizione anagrafica, ad ogni evidenza, rende impossibile procedere ad una seria programmazione in materia di erogazione di servizi sociali, in particolare per quanto riguarda i servizi scolastici e quelli sanitari, la cui pianificazione e' evidentemente essenziale alla buona amministrazione dell'ente locale, il che dimostra la palese irragionevolezza della disciplina posta dal decreto-legge n. 113 del 2018, la quale rende piu' oneroso - quando non impossibile - alle regioni e agli enti territoriali in esse inclusi adempiere ai propri compiti, senza alcuna plausibile giustificazione.

Anzi, proprio il fatto che la disciplina riconduca - in un maldestro tentativo di evitare la comunque evidente incostituzionalita' della novella - al differente concetto di domicilio l'«accesso ai servizi» previsti dal decreto «e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti» rende sia l'erogazione, sia la pianificazione dei servizi estremamente complesse, dal momento che, contrariamente a quanto dispone l'art. 2, primo comma, legge n. 1228 del 1954 per la residenza (secondo cui «e' fatto obbligo ad ognuno di chiedere per se' e per le persone sulle quali esercita la patria podesta' o la tutela, la iscrizione nell'anagrafe del comune di dimora abituale e di dichiarare alla stessa i fatti determinanti mutazione di posizioni anagrafiche, a norma del regolamento, fermo restando, agli effetti dell'art. 44 del Codice civile, l'obbligo di denuncia del trasferimento anche all'anagrafe del Comune di precedente residenza»), non vi e' alcun obbligo di comunicare le modifiche del proprio domicilio, con ulteriore incontrollata possibilita' di incremento o diminuzione della popolazione effettiva senza il minimo segnale ufficiale.

Oltre a impedire le funzioni di programmazione e quindi, in fin dei conti, di erogazione dei servizi, vengono altresi' complicate le funzioni di monitoraggio della popolazione e della sicurezza locale che pure sono demandate agli enti comunali: per questo vale, tra gli altri, l'art. 1, legge n. 1228 del 1954, secondo il quale «l'iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie». Ne' si puo' ignorare quali disfunzioni provochi l'ignoranza circa il numero della popolazione effettiva riguardo ai servizi statistici.

Infine, non puo' essere dimenticata la lesione che la mancanza dell'iscrizione anagrafica arreca relativamente a funzioni legislative gia' esercitate nella pienezza delle sue competenze da parte della Regione Emilia-Romagna.

La menzionata legge regionale n. 5 del 2004, infatti, appresta numerose iniziative a favore della popolazione straniera, specificando che gli interventi sono destinati anche ai richiedenti asilo (art. 2, comma 1), come anche la legge regionale 12 marzo 2003, n. 2, la quale all'art. 4, comma 1, lettera c, prevede il diritto anche per gli stranieri regolarmente soggiornanti - come i richiedenti appunto - il diritto pieno di accesso al Sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Tuttavia, e' evidente che la Regione, per le stesse ragioni sopra viste rispetto alle possibilita' di programmazione, non puo' assicurare alcunche' a soggetti che non sa essere stanziati nel proprio territorio, ed e' palese che l'unico modo per ottenere questo dato e' proprio la consultazione dei registri anagrafici.

Al di la' di tali aspetti articolati dal punto di vista degli enti, il complesso della disciplina emergente dall'impugnato art. 13, decreto legislativo n. 113 del 2018 risulta completamente irragionevole anche se guardato dalla prospettiva del richiedente.

Prima di tutto va rammentato che, come riconosciuto costantemente da codesta Corte, se e' vero che «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale e' collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalita'», d'altra parte quest'ultima e' «limitata, sotto il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli».

In ogni caso, «lo straniero e' anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (si vedano, per tutte, le sentenze n. 203 del 1997, n. 252 del 2001, n. 432 del 2005 e n. 324 del 2006)» (v. sentenza n. 148 del 2008).

Tra questi, certamente, figura il diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost. (sul punto cfr. sentenza n. 309 del 1999, secondo la quale un «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignita' umana» va sicuramente riconosciuto, e al suo ambito «appartiene il diritto dei cittadini in disagiate condizioni economiche, o indigenti secondo la terminologia dell'art. 32 della Costituzione, a che siano loro assicurate cure gratuite»), o ancora il diritto all'istruzione di cui all'art. 34 Cost. e quello al lavoro contemplato dall'art. 35 Cost., ma in generale tutti quei diritti sociali tutelati dall'art. 2 Cost.

Tutte queste norme risultano violate dalla restrizione della possibilita' di iscrizione ai registri anagrafici a carico degli stranieri, che impedisce, come ha affermato la Cassazione sopra citata, persino di accedere alle «certificazioni anagrafiche ad essi necessarie per l'esercizio dei diritti civili e politici».

Difatti, anche soltanto l'individuazione del medico di base o l'accesso alle prestazioni sanitarie che richiedono la residenza (si pensi agli elenchi degli utenti del SSN di cui all'art. 19 della legge n. 833 del 1978, i quali sono «iscritti in appositi elenchi periodicamente aggiornati presso l'unita' sanitaria locale nel cui territorio hanno la residenza») divengono difficili, in violazione dell'art. 32 Cost., come del resto diviene complesso, se non impossibile, l'accesso ai servizi scolastici obbligatori e non obbligatori, come anche agli asili, campi nei quali la residenza e la prossimita' costituiscono criteri consolidati.

Anche nel campo dell'accesso al lavoro - che anche per i richiedenti, secondo l'art. 22, decreto legislativo n. 142 del 2015, e' garantito almeno nel diritto di accedervi dopo sessanta giorni dalla domanda di asilo -, peraltro, si creano situazioni di incertezza (basti pensare al fatto che, nel decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, recante «Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183», si prevede come principio la «disponibilita' di servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di residenza») per l'uso che comunemente viene fatto della nozione di residenza.

In generale, quindi, l'accesso ai servizi verra' reso notevolmente piu' difficoltoso in assenza di alcuna plausibile ratio, il che aggiunge un profilo alla gia' illustrata illegittimita' della disciplina in questione.

La novella risulta peraltro anche totalmente contraddittoria e generativa di disparita' di trattamento alla luce del disposto dell'art. 6, comma 7, legge n. 286 del 1998, che recita:   «Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalita' previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalita' da piu' di tre mesi presso un centro di accoglienza. Dell'avvenuta iscrizione o variazione l'ufficio da' comunicazione alla questura territorialmente competente».

Nella disposizione viene fissato il principio di interrelazione tra la regolarita' del soggiorno e la possibilita' di ottenere «iscrizioni e variazioni anagrafiche», ed e' pacifico - anche nel cd. decreto sicurezza - che il richiedente sia pur sempre uno straniero regolarmente soggiornante, che rimane nel territorio nazionale con pieno diritto.

Il funzionamento del permesso di soggiorno nel solo caso dei richiedenti asilo o protezione configura una significativa disparita' di trattamento: per un verso, infatti, il permesso di soggiorno attribuito ai richiedenti e' l'unico a non dare accesso all'iscrizione anagrafica; per un altro, correlativo, verso, tra tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti il richiedente e' l'unico che non puo' ottenere l'iscrizione anagrafica, non potendo pertanto usufruire - o potendo usufruire assai piu' difficilmente - dei servizi connessi, e maturando, tra l'altro, anche in maniera differente i requisiti per l'ottenimento della cittadinanza.

Questo risulta ancor piu' irragionevole a porre attenzione al fatto che il permesso di soggiorno - in generale - e' finalizzato proprio alle iscrizioni, come lascia trasparire l'art. 6, comma 2, testo unico immigrazione: «Fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attivita' sportive e ricreative a carattere temporaneo, per quelli inerenti all'accesso alle prestazioni sanitarie di cui all'art. 35 e per quelli attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie, i documenti inerenti al soggiorno di cui all'art. 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati».

Relativamente alla menzionata disposizione sussistono anche profili di disparita' ulteriore.

Il citato art. 6, comma 7, testo unico immigrazione, infatti, sancisce infatti che «in ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalita' da piu' di tre mesi presso un centro di accoglienza», ma e' contestualmente eccettuato dalla disposizione di cui all'art. 13, comma 1, lettera a), n. 2 del decreto-legge n. 113 del 2018.

In altre parole, all'interno del sistema dell'attribuzione del permesso di soggiorno e dell'iscrizione anagrafica, nel vigente sistema per come novellato dal cd. decreto sicurezza i titolari della protezione internazionale (che avrebbero diritto all'iscrizione anagrafica in base al loro permesso di soggiorno, proprio per il fatto che esso non e' un permesso di soggiorno per richiedenti) avranno la loro dimora abituale, ex art. 6, comma 7, decreto legislativo n. 286 del 1998, presso il centro di accoglienza: ad es., un titolare potra' averla presso una struttura del SIPROIMI.

Viceversa, il medesimo dato di fatto riguardante pero' un richiedente - per esempio l'accoglienza presso un CPA, nel nuovo sistema - non potra' rilevare, tantomeno ai fini dell'iscrizione anagrafica, con evidente e illogica disparita' rispetto a una medesima situazione fattuale.

IV. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 21, COMMA 1, LETTERA A), DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018.

L'art. 21, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 113 del 2018, ha inserito all'interno dell'art. 9, comma 3, decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, le parole «presidi sanitari», facendo risultare l'attuale formulazione come segue:   3. Fermo il disposto dell'art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e dell'art. 1, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, i regolamenti di polizia urbana possono individuare aree urbane su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico, alle quali si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo.

L'articolo tiene ferma la disciplina in materia di commercio in siti di particolare rilievo storico o culturale, e ferma apre, dopo la novella, all'individuazione di aree su cui insistono presidi sanitari alle quali si possono applicare i seguenti commi:

1. Fatto salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere condotte che impediscono l'accessibilita' e la fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, e' soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300. Contestualmente all'accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalita' di cui all'art. 10, l'allontanamento dal luogo in cui e' stato commesso il fatto.

2. Ferma restando l'applicazione delle sanzioni amministrative previste dagli articoli 688 e 726 del Codice penale e dall'art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, nonche' dall'art. 7, comma 15-bis, del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, il provvedimento di allontanamento di cui al comma l del presente articolo e' disposto altresi' nei confronti di chi commette le violazioni previste dalle predette disposizioni nelle aree di cui al medesimo comma.

In sintesi, puo' essere applicata una sanzione tra 100 e 300 euro, nonche' l'allontanamento dal luogo in cui e' stato commesso il fatto, a chi impedisce l'accessibilita' ai luoghi di cui al comma 1, nonche' a chi sia ivi colto in stato di ubriachezza in pubblico (art. 688 c.p.), a chi ivi commetta atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.), a chi eserciti il commercio senza o in violazione dell'autorizzazione prescritta (art. 29, decreto legislativo n. 114 del 1998), a chi eserciti l'attivita' di parcheggiatore abusivo (art. 7, comma 15-bis, decreto legislativo n. 285 del 1992).

Conviene notare che non si tratta qui del mero ed ovvio allontanamento istantaneo di chi in qualunque modo impedisca il corretto e regolare funzionamento del servizio pubblico, e dell'applicazione delle conseguenti ordinarie sanzioni amministrative o in ipotesi penali, ma dell'inserimento dei presidi sanitari tra i luoghi ai quali, in forza delle disposizioni dell'art. 10, si applica un regime speciale che prevede l'interdizione all'accesso per periodi prolungati e l'assegnazione al responsabile di uno stato di «precriminalizzazione», nel senso che la trasgressione dei divieti amministrativi prelude all'incriminazione penale.

Ad avviso della ricorrente Regione, l'inserimento dei presidi sanitari tra i luoghi presso o in difesa dei quali i quali, con apposito regolamento di polizia urbana, si applica i complessivo regime speciale sopra descritto, appare irragionevole, contrario ad un criterio di proporzionalita' e violativo del diritto alla salute presidiato dall'art. 32 Cost.

La reazione dell'ordinamento rispetto alla condotta, infatti, si rivela del tutto irragionevole e sproporzionata nel momento in cui comprime gravemente il diritto alla salute di determinati soggetti che, oltretutto, in una parte dei casi previsti, possono essere particolarmente bisognosi di cure (come chi sia colto in stato di ubriachezza, magari in ragione di un'abitualita' in tale condotta) e in un'altra parte non hanno tenuto alcuna condotta che suggerisca una misura grave come l'allontanamento dalle strutture ospedaliere.

Peraltro, un allontanamento cosi' radicale e duraturo come quello prescritto dalla disposizione si puo' tradurre, in ambienti particolarmente carenti di strutture sanitarie, in una vera e propria privazione delle cure, che si pone in contrasto, oltretutto, con i doveri che incombono sul personale medico-sanitario operativo presso gli ospedali.

In subordine alla radicale eliminazione, la disposizione appare comunque illegittima nella parte in cui non esclude dalla sua applicazione i soggetti che tengano i comportamenti sanzionabili come conseguenza o come effetto della patologia dalla quale sono afflitti, nonche' i soggetti per i quali l'applicazione della misura sia suscettibile di compromettere la cura delle patologie dalle quali sono affetti.

V. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 21-BIS, COMMI 1 E 2, DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018.

Con l'art. 21-bis, commi 1 e 2, decreto-legge n. 113 del 2018, vengono dettate disposizioni rivolte a rafforzare la tutela della sicurezza pubblica nelle vicinanze di esercizi pubblici, in un regime di collaborazione e coordinamento tra autorita' di pubblica sicurezza e le organizzazioni degli esercenti, nel quadro di linee guida ministeriali.

La Regione Emilia-Romagna non contesta il fine o il contenuto di tali disposizioni, ma ritiene costituzionalmente illegittima l'esclusione delle regioni e degli enti locali dalla partecipazione all'elaborazione di tali meccanismi di rafforzamento della sicurezza pubblica.

Nello specifico si dispone quanto segue:

1. Ai fini di una piu' efficace prevenzione di atti illegali o di situazioni di pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica all'interno e nelle immediate vicinanze degli esercizi pubblici, individuati a norma dell'art. 86 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, con appositi accordi sottoscritti tra il prefetto e le organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti possono essere individuate specifiche misure di prevenzione, basate sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze di polizia, cui i gestori medesimi si assoggettano, con le modalita' previste dagli stessi accordi.

2. Gli accordi di cui al comma 1 sono adottati localmente nel rispetto delle linee guida nazionali approvate, su proposta del Ministro dell'interno, d'intesa con le organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti, sentita la Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali.

L'articolo prevede che, al fine della prevenzione di atti illegali o situazioni di pericolo che possano verificarsi nelle vicinanze degli esercizi pubblici previsti dall'art. 86 TULPS (ossia «alberghi, compresi quelli diurni, locande, pensioni, trattorie, osterie, caffe' o altri esercizi in cui si vendono al minuto o si consumano vino, birra, liquori od altre bevande anche non alcooliche», e ancora «sale pubbliche per bigliardi o per altri giuochi leciti o stabilimenti di bagni, ovvero locali di stallaggio e simili») vengano sottoscritti accordi tra prefetto e organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti al fine di individuare misure specifiche di prevenzione tramite la cooperazione tra esercenti e Forze di polizia, cui i gestori si assoggettano secondo gli accordi.

Questi ultimi, a livello locale, vengono adottati seguendo linee guida approvate su proposta del Ministero dell'interno, con l'intesa delle organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti e sentita la Conferenza Stato-autonomie locali.

Le regioni hanno competenza residuale in materia di commercio - chiaramente coinvolta nel momento in cui vengono chiamate in causa le organizzazioni rappresentative degli esercenti e i gestori degli esercizi commerciali.

Anche in relazione ai profili di ordine pubblico, e' la stessa Costituzione, all'art. 118, terzo comma, a prevedere «forme di coordinamento» tra lo Stato e le regioni.

La disposizione risulta dunque illegittima, per violazione dell'art. 117, quarto comma, nonche' 118, terzo comma, nella parte in cui essa prevede il solo coinvolgimento della Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali, anziche' quello della Conferenza unificata, e nella parte in cui non prevede la possibile partecipazione delle regioni e degli enti locali interessati agli accordi locali rivolti al rafforzamento della sicurezza pubblica.

 

P.Q.M.

 

La Regione Emilia-Romagna, come sopra rappresentata e difesa, chiede:   voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso, dichiarando l'incostituzionalita' dell'art. 1, comma 1, lettere a), b), d), f), n. 1, i) n. 1, h), o), p), numeri 1 e 2, comma 2, lettera a), comma 6, lettere a), b), c) e d), comma 7, lettere a) e b), comma 8, comma 9; dell'art. 12, comma 1, lettere a), a-bis), a-ter), b), c), d), comma 2, lettera a), numeri 1 e 2, lettere b), c), d), numeri 1 e 2, f), numeri 1, 2 e 5, g), numeri 1 e 2, h), numeri 1 e 2, h-bis), l), m), comma 3, lettera a), comma 4, comma 5, comma 6; dell'art. 13, comma 1, lettera a), n. 2, lettera b), numeri 1 e 2, lettera c); dell'art. 21, comma 1, lettera a); dell'art. 21-bis, commi 1 e 2, decreto-legge del 4 ottobre 2018, n. 113, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per la funzionalita' del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita' organizzata», come convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nelle parti, nei termini e sotto i profili esposti nel presente atto.

Padova-Roma, 1° febbraio 2019

Avv. prof. Falcon - Avv. Manz