Regione: Puglia

Estremi: Legge n.24 del 16-4-2015

Bur: n.56 del 22-4-2015

Settore: Politiche infrastrutturali

Delibera C.d.M. del: 19-6-2015 / Impugnata

 

Con la legge regionale 16 aprile 2015, n. 24, "Codice del commercio", la Regione Puglia detta una organica disciplina del comparto commercio.

La legge regionale de qua presenta profili di illegittimità costituzionale in relazione alle disposizioni contenute negli articoli 9, comma 4, 13, comma 7 lettere a) e c), 17, commi 3 e 4, 18 e 45, per i motivi di seguito specificati.

1) L'art. 9, comma 4, prevede che "La Regione e i comuni promuovono accordi volontari fra operatori volti a garantire che gli orari delle attività commerciali concorrano al rispetto e all'attuazione delle disposizioni di cui ai capi I e VII della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città) e dell'articolo 50, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali)".

Entrambe le disposizioni richiamate dalla norma regionale prevedono il potere del Comune di organizzare gli orari di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali.

Analogamente, l'art. 13, comma 7 della legge regionale Puglia 24/2015, prevede che nell'ambito degli strumenti di promozione del Commercio, i Comuni possono adottare dei progetti di valorizzazione commerciale attraverso i quali intervenire proprio "in materia di orari di apertura [...]" (comma 7, lett. c).

Tali previsioni risultano in contrasto con quanto stabilito dall'art. 31 del D.L. n. 201/2011 (c.d. decreto Salva Italia) che, modificando l'art. 3, comma 1, lett. d-bis, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani), ha disposto che "le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte, tra l'altro, senza i seguenti limiti e prescrizioni: [...] d) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio". A seguito della novella, la normativa nazionale prevede, dunque, che le attività commerciali non possano essere soggette a nessun limite in materia di orari di apertura e chiusura.

Inoltre la previsione contenuta nel medesimo art. 9, comma 4, promuovendo esplicitamente la conclusione di accordi tra gli operatori, volte a creare un coordinamento consapevole tra gli esercenti su una variabile concorrenziale (quali appunto gli orari di apertura e chiusura), legittima intese che risultano invece potenzialmente vietate ai sensi dell'articolo 2 della Legge n. 287/1990, che pone il divieto di intese restrittive della libertà di concorrenza .

Le citate norme regionali, pertanto, si pongono in evidente contrasto con i principi di liberalizzazione di cui al D.L. n. 201/2011 (cd. decreto Salva Italia) nonché con il generale divieto di intese restrittive della concorrenza contenuto nell'art. 2 della Legge n. 287/1990 e nell'art. 101 del TFUE e, pertanto, presentano profili di incostituzionalità per violazione dell'art. 117, comma 1 , della Costituzione, che impone il rispetto degli obblighi comunitari nell'attività legislativa anche delle Regioni , e 117 comma 2, lettera e), della Costituzione, che riserva allo Sato la competenza legislativa in materia di tutele della concorrenza.

2) L'art. 13, comma 7, lett. a), dispone che, nell'ambito dei progetti di valorizzazione commerciale, i Comuni possano prevedere il divieto di vendita di particolari merceologie o settori merceologici.

Tale limitazione merceologica è vietata dall'art. 3 della Legge n. 148/2011 e dall'art. 34 della Legge n. 214/2011. Infatti, l'art. 3, comma 9, lett. f) della Legge n. 148/2011 e l'art. 34, comma 3, lett. d) della Legge n. 214/2011 hanno sancito l'abrogazione di qualsiasi restrizione, tra cui la limitazione dell'esercizio di una attività economica ad alcune categorie o divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti.

Il legislatore nazionale con una serie meditata, progressiva e graduale di interventi, ha da tempo avviato un processo di ri-regolazione delle attività economiche, passando da una disciplina pianificatoria ad una completa liberalizzazione (art. 31 Legge n. 214/2011 e art. 1 Legge n. 27/2012), disponendo l'abrogazione di norme che a vario titolo e in diverso modo prevedono limitazioni, condizioni o divieti che ostacolano l'iniziativa economica o frenano l'ingresso nel mercato di nuovi operatori.

In questo contesto, l'intervento normativo regionale eccede dalle competenze regionali, andando ad incidere direttamente sul confronto concorrenziale e sull'assetto del mercato; oltre a vincolare e aggravare, in luogo di semplificare, l'esercizio dell'attività commerciale, perché introduce a danno della libertà di iniziativa economica, limiti inutili, gravosi e non previsti nella Costituzione.

Su questo punto specifico, la Corte Costituzionale , più volte chiamata a pronunciarsi sull'obbligo degli Enti locali di adeguare i propri ordinamenti ai principi di liberalizzazione e semplificazione delle attività economiche (art. 1 Legge n. 27/2012), ha affermato che , affinché l'obiettivo perseguito dal legislatore possa ottenere gli effetti sperati, in termini di snellimento degli oneri gravanti sull'esercizio dell'attività economica, occorre che l'azione di tutte le pubbliche amministrazioni -centrali, regionali e locali-sia improntata ai medesimi principi, per evitare che le riforme introdotte a un determinato livello di governo siano, nei fatti, vanificate dal diverso orientamento dell'uno o dell'altro degli ulteriori enti che compongono l'articolato sistema delle autonomie (Corte Cost., 23 gennaio 2013 n. 8).

La norma regionale dunque, risolvendosi nella surrettizia reintroduzione di limitazioni già abrogate dal legislatore statale nell'esercizio della propria competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, contrasta con le disposizioni statali sopra richiamate e conseguente viola l'art. 117, comma 2, lett e) Cost.

3) L'art. 17, commi 3 e 4 , dispone, rispettivamente, che l'apertura, il trasferimento di sede, il cambiamento di settore di vendita e l'ampliamento della superficie di una media o grande struttura di vendita siano soggetti ad autorizzazione commerciale e che l'apertura, il trasferimento di sede, il cambiamento di settore di vendita e l'ampliamento di un Centro Commerciale o di un'Area Commerciale Integrata necessitano di autorizzazione per l'intero Centro e di autorizzazione o SCIA (a seconda della dimensione) per ciascuno degli esercizi al dettaglio presenti nel Centro Commerciale .

Dette disposizioni si pongono in netto contrasto con principi di semplificazione e liberalizzazione espressi:  - dall'art 19 legge n. 241/1990,come modificato dall'art. 13, comma l, D.L. 22 giugno 2012 n. 83, in base al quale ogni atto di autorizzazione o licenza per l'esercizio di un'attività commerciale, imprenditoriale, è sostituito dalla SCIA presentata dall'interessato;  - dagli artt. 31 e 34 della Legge n. 214/2011 e dall'art. 1 della Legge n. 27/2012 che, in un'ottica di semplificazione, hanno abolito i regimi autorizzativi espressi, con la sola esclusione degli interessi pubblici più sensibili indicati dalla Direttiva n. 123/2006/CE.

Le citate norme statali introducono una sostanziale liberalizzazione per cui i regimi autorizzatori non costituiscono più la regola, ma un'ipotesi del tutto residuale, in quanto possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione e di proporzionalità.

Pertanto, considerato che, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 164/2012, la disciplina della SCIA, con il principio di semplificazione ad esso sotteso, ha un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini e costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi dell'art. l17, comma 2, lett. m) Cost), le norme regionali in esame risultano violare detta competenza statale.

Inoltre, poiché la Corte Costituzionale ha recentemente affermato nella sentenza n. 125/2014, la portata abrogativa e la immediata vincolatività dei principi di liberalizzazione contenuti nell'art. 31 della Legge n. 214/2011 e nell'art. l della Legge n. 27/2012, ribadendo ancora una volta l'illegittimità costituzionale di quelle norme regionali che si prestano a reintrodurre limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione, le previsioni regionali in esame risultano invasive della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela e concorrenza e violano, quindi, l'art. 117, secondo comma, lett. e) della Costituzione.

4) L'art. 18 prevede che i comuni individuino le aree idonee all'insediamento di strutture commerciali attraverso i propri strumenti urbanistici, in conformità alle finalità di cui all'articolo 2, con particolare riferimento al dimensionamento della funzione commerciale nelle diverse articolazioni previste all'articolo 16. L 'insediamento di grandi strutture di vendita e di medie strutture di vendita di tipo M3, è consentito solo in aree idonee sotto il profilo urbanistico e oggetto di piani urbanistici attuativi anche al fine di prevedere le opere di mitigazione ambientale, di miglioramento dell'accessibilità e/o di riduzione dell'impatto socio economico, ritenute necessarie.

La predeterminazione per legge regionale, di nuovi divieti di localizzazione - essendo avulsa da una verifica del territorio e non essendo previste forme di coinvolgimento, di partecipazione popolare e senza neppure le garanzie del giusto procedimento- non può essere sussunta nell'esercizio del potere di pianificazione urbanistica ma opera solo come limite allo sviluppo del commercio, con conseguente sua ragione di contrasto con gli artt. 3, 41 e 97 Cast., oltre che con l'ordinamento comunitario (con conseguente violazione dell'art. 117, comma 1 Cost. in relazione alla Direttiva 123/2006/CE.

Le disposizioni regionali si risolvono in vere e proprie norme di programmazione economica e territoriale, che limitano e condizionano l'insediamento di nuove attività commerciali e che, per tale ragione, si pongono in netto contrasto con gli artt. 31, comma 2 e 34, comma 3 della Legge n. 214/2011 e con l'art. l della Legge n. 27/2012.

La norma regionale dunque, ponendosi in contrasto con gli artt. 31 e 34 della Legge n. 214/2011 e con l'art. 1 della Legge n. 27/2012, viola quindi l'art. 117, comma 1, che impone il rispetto degli obblighi comunitari nell'attività legislativa anche delle Regioni , e 117 comma 2, lettera e), della Costituzione, che riserva allo Sato la competenza legislativa in materia di tutele della concorrenza.

5) L'art. 45, in materia di impianti di distribuzione di carburante, prevede che: "tutti i nuovi impianti devono essere dotati almeno di un prodotto ecocompatibile GPL o metano, a condizione che non vi siano ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell'obbligo". La norma regionale introduce, dunque, una barriera all'accesso al mercato della distribuzione di carburanti in rete rappresentata dall'obbligo asimmetrico (solo ai nuovi entranti) di fornire almeno un prodotto eco-compatibile. Per questo motivo, la norma è suscettibile di restringere la concorrenza. Gli obblighi asimmetrici limitano l'accesso al mercato di nuovi operatori, facendo ricadere su questi ultimi degli oneri che non operano in capo agli incumbent del mercato. Peraltro, l'imposizione di tali obblighi non è giustificabile anche nell'ottica del perseguimento di obiettivi di interesse generale quali la tutela ambientale dal momento che, come detto, si tratta di vincoli che interessano soltanto i nuovi impianti.

La previsione regionale si pone infatti in contrasto con quanto disposto del comma 5 dell'art. 17 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, il quale, ha modificato l'art. 83-bis, comma 17, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133. La citata norma statale , infatti, prevede che, al fine di garantire il pieno rispetto delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e di assicurare il corretto e uniforme funzionamento dei mercato, l'installazione e l'esercizio di un impianto di distribuzione di carburanti non possono essere subordinati, tra l'altro, all'obbligo della erogazione "di più tipologie di carburanti, ivi incluso il metano per autotrazione, se tale ultimo obbligo comporta ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell'obbligo".

La norma nazionale dunque pone un divieto condizionato circa l'offerta contestuale di più tipologie di carburanti (in altri termini, la restrizione è vietata se comporta ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali), mentre quella adottata dalla Regione con la norma in esame impone la restrizione salvo che "non vi siano ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell'obbligo". Nel primo caso, dunque, l'obbligo asimmetrico rappresenta l'eccezione (sarà l'Ente a dover dimostrare la proporzionalità della restrizione) mentre nel secondo caso rappresenta la regola (sarà il richiedente l'autorizzazione che dovrà dimostrare la non proporzionalità della restrizione).

La disposizione regionale quindi determina una potenziale restrizione della concorrenza con riferimento al citato art. 83bis del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, risultando in contrasto con l'art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione.

Per questi motivi le norme sopra indicate devo essere impugnate ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione.