Regione:Lombardia

Estremi:Legge n.11 del 19-2-2014

Bur:n.8 del 20-2-2014

Settore:Politiche infrastrutturali

Delibera C.d.M. del:18-4-2014 / Impugnativa

Motivi dell'impugnativa:La legge della Regione Lombardia del 19 febbraio 2014, n. 11 “Impresa Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la competitività”, presenta i seguenti profili di illegittimità costituzionale, riferiti all’articolo 3, comma 1, lettera g); all'articolo 4, comma 1; all’articolo 6, commi 1, 2, 4, 5 e 13; all’articolo 7:   1) L’articolo 3, comma 1, lettera g), che attribuisce alla Giunta Regionale il compito di istituire “il riconoscimento del «Made in Lombardia», finalizzato alla certificazione della provenienza del prodotto, da attribuirsi secondo i requisiti definiti dalla Giunta, previo parere della commissione consiliare competente”, viola l’art. 117, comma 1, della Costituzione, in quanto contrasta con i vincoli imposti all’Italia dall’ordinamento europeo.

La disposizione censurata, seppure meno esplicita, è analoga ad altre leggi regionali dichiarate incostituzionali, quali la legge Marche n. 7/2011 che ha istituito il marchio “MEA – Marche Eccellenza Artigiana”, la legge Piemonte n. 10/2011 che ha istituito un “marchio di valorizzazione” per i prodotti del territorio regionale, e la legge Lazio n. 9/2011 che ha istruito l’elenco regionale “Made in Lazio – Prodotto in Lazio”.

La Corte di Giustizia dell’Unione, con sentenza del 5 novembre 2002 (C-325/00), ha ritenuto che “un simile sistema di marcatura, seppur facoltativo, nel momento in cui esso è imputabile ad autorità pubblica, ha effetti, almeno potenzialmente, restrittivi sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri, in quanto l’uso del marchio favorisce, o è atto a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non possono fregiarsene”.

Come rilevato dalla Corte Costituzionale con riferimento al marchio "Made in Lazio" (sentenza n. 191/2012), l'ordinamento europeo vieta agli Stati membri di porre in essere qualsiasi misura che possa ostacolare, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari. Sono da considerarsi quindi vietate le norme che, come quella impugnata, mirano a promuovere i prodotti realizzati in ambito regionale, in quanto suscettibili di produrre effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci.

 2) L’articolo 4, comma 1, secondo cui “la Regione promuove la costituzione, in forma sperimentale, di un circuito di moneta complementare, da intendersi esclusivamente quale strumento elettronico di compensazione multimediale locale per lo scambio di beni e servizi”, prevedendo la costituzione di un “circuito di moneta complementare” su base locale, invade la potestà legislativa esclusiva statale in materia di moneta e pertanto viola l’art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione.

 3) L’articolo 6, che disciplina una procedura semplificata per l’avvio, lo svolgimento e la trasformazione di attività economiche presenta diversi profili di incostituzionalità, relativamente ai commi 1, 2, 4, 5, 13. In particolare:   I commi 1 e 2 dell’articolo 6 introducono un procedimento semplificato per “I procedimenti amministrativi relativi all’avvio, svolgimento, trasformazione e cessazione di attività economiche, nonché per l’installazione, attivazione, esercizio e sicurezza d’impianti e agibilità degli uffici funzionali alle attività economiche, il cui esito dipenda esclusivamente dal rispetto dei requisiti e prescrizioni di leggi, regolamenti e disposizioni amministrative vigenti”.

Per tali procedimenti, che nella disciplina statale rientrano nell’ambito di applicazione della SCIA di cui all’art. 19, l. n. 241/1990, il procedimento è sostituitito da “una comunicazione unica regionale resa al SUAP, sotto forma di dichiarazione sostitutiva di certificazione o dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (…)” che attesta “il possesso dei documenti sulla conformità o la regolarità degli interventi o delle attività”, senza onere di allegazione dei documenti medesimi. La presentazione della comunicazione consente l’avvio contestuale dell’attività. L’art. 19, l.n. 241/1990 prevede, invece, che la SCIA sia corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà per quanto riguarda gli stati, le qualità personali e i fatti previsti dagli articoli 46 e 47 del d.P.R. 445 del 2000, nonché, ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni conformità da parte dell’Agenzia delle imprese. Tali attestazioni e asseverazioni sono corredate da “elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione”.

La disciplina regionale, inoltre, prevede che “Entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione unica regionale”, le amministrazioni competenti, verificata la regolarità della stessa, “effettuano i controlli almeno nella misura minima indicata dalla Giunta regionale e fissano, ove necessario, un termine non inferiore a centottanta giorni per ottemperare le relative prescrizioni…”. L’art. 19, comma 3, della l.n. 241/1990, invece, dispone che “in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti … nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione”, l’amministrazione “adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni”.

La normativa regionale descritta, ponendosi in contrasto con la disciplina della SCIA contenuta all’art. 19 della l.n. 241/1990, viola l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione. La Corte Costituzionale, infatti, ha chiarito che la disciplina della SCIA è espressione della potestà legislativa esclusiva statale in materia di livelli essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (cfr. sentenze nn. 164 e 203 del 2012), con la conseguenza che, secondo quanto previsto dall’art. 29, comma 2-quater, l.n. 241/1990, le Regioni possono discostarsene solo per prevedere “livelli ulteriori di tutela”.

Nel caso di specie, la comunicazione unica regionale, invece che rappresentare un’ulteriore semplificazione, aggrava gli adempimenti a carico dell’impresa, cui è richiesto di attestare, attraverso dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto di notorietà, il possesso di documenti sulla conformità o la regolarità degli interventi o delle attività, che comunque devono essere detenuti e conservati; inoltre, aggrava i controlli successivi da parte delle amministrazioni, che per essere effettuati presuppongono l’acquisizione dei documenti sulla conformità o regolarità degli interventi di cui l’impresa ha attestato il possesso.

La disposizione censurata, inoltre, nella parte in cui omette di escludere l’applicazione della comunicazione unica regionale ai casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, si pone in contrasto con l’art. 19, comma 1, l. n. 241/1990 e quindi viola l’articolo 117, comma 2, lettera s) della Costituzione (“tutela dell’ambiente e dei beni culturali”). Di fatti, l’avvio contestuale dell’attività, con la previsione di un controllo minimo ed ex post, è suscettibile di determinare effetti indesiderati e irreversibili sull’ambiente, vanificando così la funzione di tutela prevista dalla normativa nazionale. Il termine non inferiore a centottanta giorni che l’amministrazione deve concedere all’interessato affinché ottemperi alle prescrizioni impartite, derogabile soltanto nel caso in cui sussistano “gravi pericoli” per l’ambiente, appare eccessivamente lungo e potenzialmente idoneo ad aggravare il danno ambientale. Né la clausola di esclusione di cui al comma 13 (secondo cui la comunicazione unica non si applica ai “procedimenti in cui la necessità di un regime di autorizzazione sia giustificata dai motivi di interesse generale di cui all’articolo 8, comma 1, lettera h) del d.lgs. n. 59/2010”) sembra idonea a ritenere esclusi dall’ambito di applicazione della norma tutti i casi in cui vi siano vincoli ambientali, visto il riferimento ai “motivi imperativi di interesse generale”. Sotto tale aspetto, anzi, la previsione contenuta al comma 13 si pone in contrasto con il principio della certezza del diritto, poiché risulta essere alquanto generica e di difficile applicazione, attesa la mancata ricognizione dei regimi autorizzatori esistenti e l’individuazione di quelli che possono essere mantenuti perché “giustificati da motivi imperativi di interesse generale”, secondo quanto disposto dall’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 59/2010. La disposizione, inoltre, contrasta con l’articolo 2, comma 4, del D.P.R. n. 160/2010 nella parte in cui omette di escludere dall’ambito di applicazione della comunicazione al SUAP i procedimenti relativi a “gli impianti e le infrastrutture energetiche, le attività connesse all'impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti e di materie radioattive, gli impianti nucleari e di smaltimento di rifiuti radioattivi, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, nonché le infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi di cui agli articoli 161 e seguenti del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

Analoghe censure debbono essere formulate con riferimento alla previsione di cui al comma 4, che attribuisce agli “accordi per la competitività” disciplinati all’articolo 2, comma 1, lettera a), “efficacia sostitutiva di tutti i provvedimenti amministrativi comunque denominati, necessari per l’attività di impresa”, senza tuttavia escludere dall’ambito di applicabilità dei suddetti accordi i casi in cui sussistano vincoli ambientali. È evidente, infatti, che la discrezionalità nel coinvolgimento di amministrazioni diverse dalla Regione e la natura negoziale degli accordi sono incompatibili con tutti quei casi nei quali sussistono vincoli ambientali. Pertanto, anche in questo caso la disposizione viola l’art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

Infine, il comma 5 dell’art. 6, prevedendo che “Resta salvo quanto previsto sulle dichiarazioni mendaci ai sensi degli articoli 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”, contrasta con l’art. 19, comma 6, l.n. 241/1990, secondo cui “ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni”. La disposizione regionale censurata, prevedendo un regime sanzionatorio meno rigido rispetto a quello statale per le medesime fattispecie, viola l’art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione (“ordinamento penale”). In proposito, giova rilevare che il regime sanzionatorio più rigido previsto dalla normativa statale, è volto a bilanciare l’ulteriore semplificazione procedimentale connessa alla SCIA. Pertanto, se si considera che le sanzioni penali in caso di false attestazioni sono funzionali a disincentivare abusi nel ricorso a forme procedimentali semplificate, è evidente che la disposizione impugnata ha l’ulteriore conseguenza di determinare un livello inferiore di tutela dell’interesse pubblico rispetto a quello previsto dalla legge statale.

 4) L’articolo 7, comma 6 lettera b) e comma 7, nel disciplinare il ricorso alla conferenza di servizi nell’ambito del procedimento svolto dal SUAP, amplia l’ambito di applicazione del silenzio assenso ad ipotesi espressamente escluse dalla normativa statale in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali, e pertanto viola l’articolo 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

La lettera b) del comma 6, in particolare, prevede che “…In caso di mancata partecipazione dei soggetti invitati, ovvero in caso di mancata presentazione di osservazioni entro la data di svolgimento della conferenza stessa i pareri, le autorizzazioni e gli altri provvedimenti dovuti si intendono positivamente espressi…”. Il comma 7 precisa che i termini previsti dal comma 6, lettera b), ai fini dell’indizione della conferenza di servizi decorrono dalla comunicazione dell’esito favorevole delle procedure previste in materia di VIA, VAS, verifica di VIA, verifica di VAS, delle procedure edilizie di cui agli articoli 38 e 42 della l.r. n. 12/2005, delle procedure previste per le aziende a rischio di incidenti rilevanti (ARIR) di cui all’articolo 8 del d.lgs. n. 334/1999 e delle procedure in materia di Autorizzazione Integrata ambientale di cui al d.lgs. n. 152/2006.

Le disposizioni richiamate omettono di escludere l’applicazione del silenzio assenso per i procedimenti che coinvolgano vincoli di tipo ambientale, paesaggistico o culturale (in contrasto con l’art. 14-ter, comma 7 e 20, l.n. 241/1990), nel caso di autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti (articolo 208, comma 4, lettera b) del d.lgs. n. 152/2006), nonché di autorizzazioni per gli impianti alimentati ad energia rinnovabile (al riguardo, l’art. 5, d.lgs. n. 28/2011, assoggetta la costruzione e l’esercizio dei suddetti impianti di energia e delle opere connesse all’autorizzazione unica di cui all’articolo 12 del d.lgs. n. 387/2003).