21 febbraio 2007    

L'Intervista di «Calabria» alla professoressa Carmela Vircillo Franklin


"La calabrese dell'American Academy" di Romano Pitaro

E’ decisa, occhi chiari e intelligenti. Determinata come solo gli americani sanno essere. Ma il suo corpo tradisce delicati lineamenti meridionali messi in luce da un tailleur giallo e dalle mani grandi che, mentre parla, fendono l’aria, in una stanza ampia e piena di luce. E’ la professoressa newyorchese Carmela Franklin Vircillo da pochi mesi direttrice dell’American Academy in Rome.
Inglese fluente e italiano perfetto. Con un dettaglio prezioso che lei non esita a confessare: ogni tanto, nella sua mente allenata nelle lingue classiche il latino e greco di cui è un campione assoluto alla Columbia University dove insegna latino medievale, sfugge quasi di soppiatto un verbo dialettale. S’insinua, morbidamente, un’espressione dialettale non del Mississippi o del Connecticut, ma, pensate un po’, del profondo Sud italiano.

Il passato che riemerge come un fiume carsico. La professoressa newyorchese è infatti nata 57 anni fa in uno di quei paesi a nido d’aquila della Calabria. A Santa Caterina Albanese, in provincia di Cosenza. Un borgo di 400 famiglie arbëreshë dell’Alta Valle dell’Esaro fondato nel XV sec. da profughi albanesi fuggiti dalla loro patria conquistata dai musulmani una volta sconfitto il mitico regno di Skanderbeg.
Nei primi anni ‘50, in una delle tre classi elementari di Santa Caterina Albanese, nella Calabria povera ed ancora preda del latifondo parassitario, cera una bambina, la figlia di un maestro elementare da tempo emigrato in America sulle orme di suo padre. Quella bambina arbëreshë era lei.
Qualche anno dopo, da Santa Caterina Albanese, dove c’era soltanto la scuola elementare, col freddo dei mattini invernali, un gruppo di bambini attendeva l’arrivo della corriera per andare a Malvito a frequentare le scuole medie. Lei, quegli anni, li racconta così: “Ho avuto delle bravissime maestre, ancora mi ricordo la prima maestra, donna Rebecca. Le scuole medie le ho fatte a Malvito e si andava, eravamo un gruppo di ragazzi, tante volte anche a piedi quando l’autobus non arrivava”. Carmela Vircillo in una foto di famiglia degli anni '50, in Calabria
Tra quei ragazzi c’era anche la donna che oggi è al timone dell’Accademy American in Rome. Un bel cambio di scenografia, ma l’una e l’altra non fanno a pugni. E dall’una e dall’altra, aggiungendo le traversie dei suoi avi arbëreshë scacciati dall’Albania e rifugiatisi nella Calabria del Regno di Napoli, emerge la figura della prima direttrice italiana della superba Accademia americana. E lei che rappresenta, da alcuni mesi, la più prestigiosa Istituzione culturale degli Stati Uniti in Italia. Un’Accademia che si regge non grazie a finanziamenti pubblici e non rifà il verso ai governi del momento, ma che conta esclusivamente su fondi privati: 10 milioni di dollari l’anno. Un’istituzione che tra i suoi mecenati ha avuto molti grandi tycoon come il petroliere John Rockefeller, il genio bancario che anticipò la nascita della Federal Reserve J. Pierpont Morgan, Andrei Carnegie, il re delle ferrovie William Vanderbilt e Henry Frick che fu “sinonimo dell’oppressione capitalistica” come riferisce Corrado Augias (“I segreti di New York”) ma che divenne uno straordinario collezionista d’arte.

La professoressa che materializza il sogno di tanti calabresi partiti per sfuggire al Novecento meridionale, è il trade union fra mondi distanti che a un certo punto si ricongiungono. Tra il deposito umano di EIIis lsland, dove gli emigranti all’inizio del secolo scorso venivano portati
una volta giunti negli Stati Uniti e l’architetto Stanford White, affascinato dal Rinascimento italiano e uno dei fondatori dell’Accademia Americana a Roma, ucciso a pistolettate dal ricco Harry K. Thaw per riparare il torto subito a 16 anni dalla ballerina Evelyn Nesbit divenuta sua moglie.

Fuori dall’Accademia c’è Roma, il polmone verde del Gianicolo. Dalla vetrata del suo
studio il giardino curato con scrupolo lascia intendere che sì, è vero, siamo in Italia, a Roma. Ma l’atmosfera è americana. Ordine ed efficienza. Silenzio nei corridoi e nelle ampie sale, studenti al lavoro nella biblioteca che contiene l34mila volumi e che sta per essere restaurata per una cifra di 5 milioni di dollari. Per entrare si varca il cancello di via Angelo Masina e si è accolti dall’ombra di cipressi, pini e magnolie lussureggianti. Per chi giunge dal sempre incantevole ma caotico centro di Roma è come entrare in un sogno: l’American dream di Villa Aurelia. L’andirivieni frenetico dell’Urbe svanisce tra gli undici edifici costruiti su 4,4 ettari di terreno e distribuiti in piccoli appartamenti occupati da 67 artisti americani ma anche europei dell’Est. Fondata nel 1893 da bianchi, americani fino al midollo e protestanti. Finora la Calabria non ha bussato alla porta della professoressa Vircillo. Per lei la Calabria è soltanto un’espressione d’amore. Di ricordi, di affetti. Però se oggi qualcuno dalla Calabria le proponesse di lavorare assieme all’Academy sulla base di un progetto, chissà. Lei non dice no. Anzi accenna a qualche ipotesi.
Professoressa, come si diventa la prima direttrice italiana dell’Accademia americana di Roma?

Sono stata nominata a questa carica, per la quale hanno concorso anche altri, dal consiglio d’amministrazione dell’American Academy a New York, sulla base del mio curriculum e di due colloqui. Ma è per me un orgoglio rappresentare in Italia la cultura delle belle arti e della ricerca umanistica americana. La dimostrazione di quanto gli italiani siano cresciuti in America e di quanto i tempi siano cambiati. I fondatori, nel 1893, erano tutti americani, un gruppo di artisti che la idearono all’Esposizione di Chicago, in occasione del 400° anniversario della scoperta dell’America. Il fatto che oggi un’italiana rappresenti in Italia l’Accademia è il segno di un mutamento notevole.
Lei è emigrata a 14 anni dalla Calabria negli Stati Uniti, che ricordi ha di quel tempo?
Dopo le scuole medie, nel 1963, mi sono iscritta al IV ginnasio a Cosenza al Liceo Telesio. Nell’estate del ‘64 sono andata a New York, io avevo 14 anni, con mia madre, mio fratello, che frequentava il liceo scientifico a Cosenza e mia sorella, la più piccola, a trovare mio padre che era già andato a New York nel 1955. Siamo andati con l’idea che mia madre e mia sorella sarebbero rimaste a New York ed io e mio fratello, lui era al convitto a Cosenza, saremmo tornati. Però non siamo mai tornati, perché mia madre non se l’è sentita di rimandarci da soli in Italia, di separare la famiglia. Siamo rimasti li, a New York, nel Bronx, io non conoscevo l’inglese...
Cosa faceva suo padre a New York? In Italia era maestro di scuola, in America lavorava per una compagnia edilizia.

Il suo amore per il latino e il greco come nasce?
L’ho sempre avuto, da quando ho iniziato le scuole medie, allora sì studiava il latino. Al Telesio ho fatto il primo anno di greco che ho ricominciato a studiare all’università. I primi anni a New York come sono stati? In un certo senso sono stati molto duri, però io quella durezza non l’ho forse vissuta interamente, perché ero così assorbita dalle novità che mi si presentavano davanti gli occhi e da tutte le cose che avevo da imparare. Ciò che mi è immediatamente piaciuto che mi ha colpito subito è stata la grande disponibilità dei libri in America. A Santa Caterina c’erano pochissimi libri in giro, le scuole non avevano biblioteche. Quando arrivai a New York fui affascinata dalle bellissime biblioteche pubbliche che si trovano dappertutto. Io andavo alla grande pubblic library nella Fifth Avenue, quarantaduesima strada, che è la più grande. L’America mi ha conquistata con la sua ricchezza, non quella materiale ma con la sua grande offerta di possibilità intellettuali. Appena arrivata, naturalmente, si sentì la mancanza dei miei amici, dei miei parenti, anche se per fortuna con me c’erano i miei genitori, ma ero veramente avvinta dalla enorme possibilità di mezzi che New York mi metteva davanti, questa città straordinaria e ricca di cinema, teatri e musica. Da una parte mi mancava il mio paese, la mia lingua, dall’altra però ero affascinata dai nuovi amici, nuovi posti, specialmente le nuove possibilità...
La professoressa Vircillo Franklin, oggi, con gli studenti della Columbia UniversityAll’Università il latino ed il greco sono il suo campo di battaglia?
Forse il mio amore per le lingue di un tempo è nato in Calabria, ma indubbiamente si è rafforzato all’Università, ad Harvard dove andai grazie ad una borsa di studio e lì ho ricominciato a studiare seriamente. Penso che il mio amore per il latino ed il greco sia stato un modo per tenere vivo il legame con la mia cultura italiana. Ad Harvard, ma anche a New York, io ero vista come una ragazza italiana che incarnava la cultura umanistica per antonomasia. Lì il fior fiore degli studiosi quando incontrano un italiano non lo identificano con la cultura moderna ma con il grande patrimonio ultramillenario di cui è portatore. lo ho approfondito Io studio delle due lingue antiche anche per capire meglio l’Italia che ho lasciato giovanissima e di cui in verità sapevo veramente poco...
 
Delle grandi emigrazioni del Sud Italia cosa ne pensa?  
Dolorose. In verità non è stato così per me, perché io mi sentivo in un certo senso privilegiata, dato che vivevo in un ambiente in cui la scuola era importante. Non ero una emigrante come di solito siamo abituati a pensare agli emigranti, venivo da una famiglia che anche quando viveva in Calabria aveva un livello culturale abbastanza alto, per cui l’aspettativa per me era che andassi all’università anche se fossi rimasta in Italia. Nella mia famiglia c’è sempre stato un legame con l’America, i miei due nonni erano stati in America, il fratello di mio padre era già a New York e mio padre lo raggiunse. Avevamo parenti in America, a New York, nel New Jersey, tanti legami. D’altronde, in termini relativi la Calabria ha avuto il tasso più alto d’emigrazione, in termini assoluti è la Campania ad avere avuto più emigrati, ma in rapporto alla popolazione è stata a Calabria ad averne di più.
C’è secondo lei una storia dell’emigrazione da raccontare al femminile come ha fatto la sua amica Helen Barolini con il romanzo ‘Umbertina’?
Penso proprio di si. Per noi donne il cambiamento è stato più radicale che per gli uomini, specialmente per le donne calabresi. Andare in America per molte donne calabresi, costrette a vivere in ambienti molto angusti, sempre a casa, è stato un cambiamento notevole. Pensi cosa ha significato per tante calabresi abituate a vivere sempre in casa che di colpo si sono trovate a lavorare in una fabbrica, in un negozio, in ambienti aperti. E poi a contatto con le donne americane che hanno posizione molto più evoluta di quella che, anche qui a Roma, hanno le donne. Io lo vedo con le mie colleghe universitarie... Il movimento delle donne non ha ancora raggiunto quei livelli d’integrazione nel mondo del lavoro che vi è negli Stati Uniti, in Italia non c’è ancora una parità completa.
Come si sente a parlare fluentemente in americano ed essere una stimata professionista newyorchese avendo vissuto per 14 anni in un piccolo borgo della Calabria?

Io mi sento completamente integrata. Le mie varie fasi della vita non le vivo come parti separate l’una dall’altra. Ho sempre mantenuto i miei legami con i parenti calabresi, specialmente con una mia zia che è medico a Cosenza e che mi ha sempre ispirato, perché lei, pur essendo donna, ha studiato è andata fuori ed ha fatto carriera. In Italia poi sono venuta spesso anche per condurre le mie ricerche sia da studentessa, che da docente dopo. In America poi sono sempre stata un’italiana, anche se gli americani spesso mi confondono con una milanese e non solo per l’accento, ma perché in America c’è un certo sospetto verso il Sud dell’Italia come d’altronde anche a Roma e nell’Italia del Nord mi pare. La vera cultura italiana in America è percepita come una cultura prodotta nel Nord Italia, quasi come se le cose più chic fossero opera dell’Italia del Nord, la vera cucina, il design, il cinema... E poi c’è il sospetto che diffonde la presenza della mafia, la criminalità, leggendo i giornali si ha la sensazione che Sud è uguale a mafia, uguale a povertà, uguale a ignoranza. Tutto ciò è sbagliato ma è così.
Secondo lei questa percezione dei Sud dell’italia e in parte di tutta l’italia da parte degli americani è colpa degli italo americani?
Io non userei la parola colpa, perché quando, agli inizi dello scorso secolo gli italiani arrivavano negli Stati Uniti erano incolti, poveri, pronti a tutto pur di lavorare. Quindi trasmettevano una certa idea della loro condizione. Oggi però è diverso, ma il passato ha lasciato il segno e ci vuole tantissimo per rimediare anche ad errori commessi...
Lei insegna alla Columbia Università latino medievale ed è un’esperta di manoscritti antichi. Come è conciliabile questa sua passione con il sogno americano?
E’ compatibile. Dipende cosa intende lei per sogno americano...
Quello che di solito intendono tutti: competizione sfrenata, la voglia forsennata di fare risultato, il profitto prima di tutto.
Si ma anche in Italia c’è la competizione. L’idea secondo cui il sogno americano coincide esclusivamente col profitto e la voglia di fare soldi per me è sbagliata. Il sogno americano è anche essere colti, essere d’aiuto agli altri. A mio avviso contribuisco più io a migliorare l’immagine dell’Italia in America che un italiano straricco, più io che sono una docente universitaria, perchè siamo in pochi ad avere avuto successo nella cultura e nelle istituzioni culturali. Spesso gli italiani che sono giunti in America non si sono affermati nella cultura, come è successo ai tedeschi per esempio. Non hanno fondato nessuna università come hanno invece fatto gli irlandesi con Boston College. Insomma: per me il sogno americano non è la corsa ai soldi, ma la valorizzazione dei talenti. lo ero già predisposta agli studi, sempre la prima della classe, mi piaceva apprendere il latino ed il greco ma anche la matematica in cui ero molto brava e negli Stati Uniti ho potuto sviluppare queste mie passioni, il mio talento. Ho avuto una borsa di studio alla Harvard, sono stata incoraggiata dai miei insegnanti a New York per concorrere alla borsa di studio senza cui non avrei mai potuto andare ad Harvard e l’ho vinta. Li mi sono sentita come a casa mia perché era un mondo di ragazzi bravissimi, di talenti, dotati come me. Per me questo è il sogno americano: non i soldi che si guadagnano, sono le occasioni che ti offrono per affermare un talento e per contribuire a far crescere il tuo Paese grazie alla cultura.
invece in cosa non le piacciono gli Stati Uniti?
Beh, il consumismo eccessivo che vedo purtroppo anche in Italia. Non mi piace questo insistere sulle ricchezze materiali e neanche la competizione sfrenata. Questo non mi piace. E neppure l’individualismo americano, l’America si aspetta molto dall’individuo che premia quand’è bravo, ma quando non è bravo, in alcuni casi, neppure l’aiuta. lo ero brava e sono stata premiata, ma capisco che c’è un’altra faccia della medaglia, una selezione molto dura delle persone.
Dell’Italia del Sud e della Calabria cosa pensa?
Vorrei che fosse meno povero, meno violento. La Calabria è un paesaggio bellissimo, una grande civiltà, però non mi sembra che si sia integrata in modo completo nel mondo moderno. Purtroppo non si può rimanere abbarbicati al passato. Forse in Calabria ci sarebbe bisogno di più competizione tra le persone e un po’ di individualismo americano, c’è bisogno di più impegno da parte dei calabresi. E necessario valorizzare il merito, i talenti. E creare più opportunità per quelli che sono bravi negli studi e che purtroppo ancora vanno via dalla Calabria, magari non più negli Stati Uniti, ma a Londra, a Milano.
Attraverso cosa lei si è fatta un’idea della Calabria?
La mia idea della Calabria, guardi, non è obiettiva. Per la Calabria è stata la mia famiglia e nel corso del tempo i mie parenti, il lessico familiare, il parlare in famiglia, il tipo di cucina in famiglia, l’amore per l’unità della famiglia, per la Calabria è tutta racchiusa nelle case dove vivono i miei parenti, dove sono nata io, la campagna dove andavo a visitare i coloni di mia nonna. Quella è la mia Calabria. Io in effetti non la conosco perché non ci abito, è tutta nei miei ricordi d’infanzia. Sono i paesaggi. A me piacerebbe incominciare a capirla la Calabria.
Se non sbaglio, lei vorrebbe che l’Accademia Americana intensificasse i rapporti con il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Nord Africa. La Calabria è inclusa nei suoi progetti?
Dovrei pensarci meglio perchè la Calabria è parte dell’Italia. Noi però abbiamo dei borsisti che vengono dalla Normale di Pisa, abbiamo uno scambio culturale. Per quanto riguarda la Calabria dovremmo creare un rapporto con un Istituto di cultura. Finora non abbiamo avuto alcun contatto. Per esempio so che in Calabria si fanno degli studi archeologici, ecco potrebbe essere un’occasione. Con la Sicilia abbiamo avuto rapporti, anche con la Basilicata, con la Campania, mai con la Calabria che io sappia. Ma sarebbe davvero bello fare un progetto insieme.

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