20 settembre 2006    

L'Antropologo Vito Teti: «Senza i paesi delle aree interne la regione perderebbe l'anima»


Non è vero che i luoghi non muoiono mai, perché i luoghi crepano, eccome! Ciò che continua a vivere sono i ricordi di ciò che è stato e non sarà più. L’Antropologo non è d’accordo. Dice: “Contro ogni apparenza i luoghi abbandonati non muoiono mai”.
Ma se c’è fetore di morte tra i borghi solitari delle Serre calabre e tra le conche verdi di monte Cucco, dove lo sguardo della modernità che ha rovinato la costa negli ultimi decenni neppure arriva, un allarme bisogna lanciarlo. Esistenze costrette all’immobilismo. Anime inquiete in cerca di un senso, dialogo pubblico che ristagna, tristezza negli occhi dei giovani che decidono di emigrare; tristezza che si tramuta in angoscia quando la partenza è impossibile perché non è più come un tempo, quando la manodopera calabra faceva gola allo sviluppo del Nord del mondo e adesso invece non c’è un buco per sbarcare il lunario.Il volume del Prof. Vito Teti dedicato ai paesi abbandonati di Calabria
C’è una Calabria nascosta tra i boschi che sta male. Ha stupendi paesaggi incontaminati e vaste foreste ricche di flora e fauna, ma ha perso il contatto con la modernità. E chiede aiuto. Con dignità, ma senza attenuare il proprio dolore: se non si elabora un progetto di rilancio i vuoti saranno sempre più colmati dalla speculazione economica e dalla criminalità. È come una legge fisica. Lembi di terra, nelle Serre calabresi, mortificati dall’assenza dello Stato. Uomini e donne che per anni hanno creduto nella possibilità di cambiare il mondo e il mondo, invece, è andato avanti senza di loro. Il discorso da farsi è lungo, ma di sicuro non può indulgere sull’abbandono e sul mito del partire e del tornare. Finalmente ci si chiede cosa si può fare per questi luoghi che hanno un passato ma non un presente.
L’Antropologo, naturalmente, è Vito Teti. Professore di etnologia ad Arcavacata, ma per antonomasia: l’Antropologo. Che è andato a vedere. Ha scavato, toccato con mano, studiato, fotografato. Raccontato, fin nei minimi segni, la storia degli abitati che sono, con una parola emblematica: l’osso della Calabria.
Professore, se le aree interne della Calabria, specie quelle delle Serre, sono vittime dell’abbandono, anche lei, che è stato storico e poeta delle aree interne, rischia lo stesso destino. E se le aree interne sono già morte, come qualcuno asserisce, anche lei…
Una antica immagine di Torre di Ruggiero"Potrei rispondere che insegno all’Università della Calabria, dove trascorro molta parte del mio tempo, viaggio molto, amo certe città dove non mi dispiacerebbe abitare, e che mi sono occupato anche di viaggi e di emigrazione, specialmente di quella calabrese in Canada. Accetto però la provocazione: l’abbandono delle zone interne significherebbe per me una perdita esistenziale. Anche per questo sento che il mio destino è legato a quello di questi luoghi, il cui abbandono dovrebbe riguardare tutti i calabresi. È un problema di civiltà ed è una questione politica. La Calabria senza i paesi dell’interno, dove si è svolta la sua storia, la sua vita economica, religiosa e spirituale, perderebbe l’anima, ma anche la speranza del futuro. Senza la tutela, la salvaguardia, il recupero, la valorizzazione, in maniera innovativa, dei paesaggi, dei prodotti, delle emergenze architettoniche delle zone montane, delle colline, dei piccoli centri la Calabria sarebbe ben poca cosa. Il mare, le coste, sempre più congestionate, affollate un mese all’anno, vuote d’inverno, il turismo, la produzione culturale sono strettamente legate al destino delle zone interne".
Lei ha introdotto, nella letteratura calabrese sull’emigrazione, la nostalgia; conosce bene l’osso della Calabria. Ha vivisezionato i muri di Fabrizia, Torre di Ruggiero, Dinami, Nardodipace, ha inventato i paesi ombra. Se adesso quei paesi sono in agonia, anche la sua struttura culturale vacilla.
"La nostalgia di cui parlo nei miei scritti non ha niente a che fare col rimpianto del passato, di un buon tempo antico, mai esistito. La nostalgia è un sentimento che consente orientamento in un universo sempre più frammentato, è pasolinianamente critica del presente ed è, secondo la migliore tradizione culturale calabrese, utopia, sogno di altrove e di nuova vita. Questo ci ha insegnato anche l’emigrazione dei nostri contadini e braccianti, ci hanno ricordato i paesi doppi ed ombra che io ho studiato, ma che ha “inventato” la storia dell’Italia e del Mezzogiorno, che hanno costruito i calabresi che si sono spostati all’interno e fuori della regione. Gli emigrati hanno innovato, trasformato i paesi d’origine, ricostruito una nuova identità. Non dimenticando il mondo perduto, custodendolo nella memoria, hanno creato una nuova vita. Di fronte all’agonia dei nostri cari, è chiaro che anche noi vacilliamo. Colori autunnali in AspromonteMa la nostra è una cultura che ha saputo affermare il trionfo della vita sulla morte, la rinascita dopo la morte. Il mito di Persefone-Demetra e i riti dell’Affruntata, nella lunga durata, raccontano anche la possibilità di rinascere. Bisogna superare un atteggiamento di lutto prolungato e di melanconia inconcludente, mantenendo la pietas per il passato e aprendoci, con fiducia, al futuro".
Dal 1972/73 – data della più recente alluvione che colpisce molti paesi tra cui Nardodipace – si parla dei paese della memoria da salvare. Nardodipace ha rappresentato “il luogo del riscatto e della resistenza” per la Calabria interna. Ha cercato un nuovo radicamento e non c’è riuscito, perché quando le nuove case, dopo 25 anni, sono state realizzate, una parte è deturpata da vandali, dei circa 400 alloggi previsti dopo le alluvioni ne consegnano 104, molti che attendevano di occuparle sono morti, altri sono emigrati, altri ne hanno preso possesso ma senza mai abitarle. Nel 2003 il sindaco di Nardodipace, Salvatore Tassone, protagonista di tante lotte, dichiara il fallimento di ogni resistenza. Tutto ciò, a lei che è il “cantore” delle identità calabresi, non la turba?
"Credo soltanto di aver raccontato e descritto il mio mondo di appartenenza, con passione, riguardandolo, camminando, dialogando con la gente, riportando le loro storie, cogliendo il senso del passato e quello delle trasformazioni. Senza enfasi e senza dimenticare di segnalare ombre, contrasti, frantumazione. Mi dà l’occasione per polemizzare con l’immagine di un’identità calabrese statica, granitica, monolitica. L’identità è plurale, qualcosa che cambia continuamente, è fatta di incontri e di scambi. La Calabria è quella dei paesi, ma è anche quella sorta lungo le coste, è quella di una lunga storia, ma è anche America, Germania, Mediterraneo mondo. I miei studi e i miei scritti sul doppio e sulla melanconia sono nati dal desiderio di mostrare che noi siamo tante cose insieme, tante persone, tanti ricordi, tanti sogni, tanti desideri. Io mi sento del mio paese, della mia ruga e della mia Congrega religiosa, ma mi sento anche calabrese, profondamente legato alle vicende dei piccoli centri e mi sento “canadese”, dove ha vissuto mio padre e dove vive il doppio del mio paese, mi sento di Roma, dove ho studiato e dove vado periodicamente, mi sento un abitante del mondo. Bisogna riflettere sulle parole di Salvatore Tassone, che conosco da tanti anni e che mi hanno colpito molto. Dobbiamo capire che il problema dello spopolamento delle zone interne è un fenomeno più generale, interrogarci sugli errori e le colpe dei gruppi dirigenti, di quanti hanno svuotato il Sud, ma anche sui limiti di una sinistra che aveva dimenticato le peculiarità del Meridione e che è stata succube del mito dell’industrializzazione e della modernità, che spesso ha coinciso con devastazione, degrado, cementificazione. Dobbiamo interrogarci anche sulle responsabilità di cooperative, ritenute “amiche”, che, come nel caso di Nardodipace, anziché rendere protagoniste della ricostruzione gli amministratori, i giovani, le maestranze e i lavoratori del luogo si comportavano come i peggiori imprenditori del Nord, si affidavano a “mediatori” talora organici alla criminalità organizzata. Questa storia sì che mi turba, mi fa male. Prendere atto del fallimento è necessario per andare avanti, per non ripetere gli errori del passato".
Se c’è una conclusione che si può trarre è che non bastano gli slogan per salvare comunità che da sole non reggono l’urto della modernità. Servirebbe un progetto, un’idea forte, per questi paesi che alle 7 di sera chiudono le porte e perdono coscienza e poi si rialzano e sembrano cadaveri ambulanti… Ma in giro non c’è alcun progetto, nessuna idea e neanche un gruppo dirigente che si ponga il problema della rinascita delle zone interne. È finita anche la speranza?
"La vita, nei paesi interni, appare, talora, davvero, triste. Sono sempre più vuoti. Ma perché non producono più, non creano economia. Eppure permane ancora tanta umanità, tanta voglia di fare. E c’è da chiedersi se la solitudine dei nostri paesi non vada legata anche alla solitudine delle nostre città, delle periferie, davvero invivibili, dei paesi devastati lungo le coste o nelle province. Perché in un momento in cui si riscoprono i luoghi, i saperi, le culture, le risorse locali non si affermano qui ed ora nuovi valori, nuove economie, nuove aggregazioni, una nuova socialità? Forse bisognerebbe Un antico edificio a Torre di Ruggierorinunciare al mito della modernizzazione e affermare una diversa concezione dello stare insieme, ma anche della produzione. È vero servirebbe un progetto, un’idea unitaria della Calabria. La montagna non può essere separata dalle colline e dalle coste, i paesi non possono essere staccati dalle città. Il problema delle coste devastate e inquinate sta a monte. Altro che scuse e depuratori: tuteliamo la montagna, ripuliamo i fiumi, custodiamo i boschi, evitiamo il cemento selvaggio, creiamo economie e culture a partire da quello che abbiamo ereditato. Ma tutto questo diventa, spesso, per tanti, soltanto retorica elettorale. Sulle zone interne: convegni, seminari e poi il nulla. Il territorio è lasciato all’iniziativa della ndrangheta. La politica va in altre direzioni. I tecnici e molti intellettuali si sono rivelati spesso subalterni a chi governa oppure si sono dichiarati all’opposizione o innovativi soltanto per sostituirsi ai vecchi gruppi dirigenti". Meno litigiosità e più esempi positivi, meno proclami e più fatti, anche piccoli, ma significativi, forse, potrebbero alimentare speranza. Speranza?  "Ci sono tanti amministratori locali, tanti intellettuali appartati e seri, legati al luogo, molti giovani che non vogliono più partire e che vorrebbero restare. Ecco bisognerebbe fondare un’etica ed un’estetica del restare, organizzare questo nuovo modo di vivere o stare nei luoghi, che significa anche partire, tornare, cambiare, aprirsi. Certo, il quadro appare desolante. Bisogna ammetterlo anche per fare battere un colpo a quanti non si rassegnano, a quanti hanno ancora speranza".


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