10 marzo 2006    

Una ricostruzione storica e sociale (di Alfonsina Bellio*)


Giuditta Levato: parole di carne e di sangue
 
Giuditta Levato: donna, contadina, calabrese, con questi termini voglio iniziare il mio L'antropologa dr.ssa Alfonsina Belliointervento per indicare brevemente alcune tracce di lettura. Per contestualizzare nel momento storico la vicenda umana di G L e, nello stesso tempo, per trarne memoria, penso che sia importante leggerne i diversi livelli dell’identità: identità di genere: è donna identità geografica: è calabrese identità sociale: è una contadina. Ma, nella giornata di oggi in particolar modo, G L diventa anche simbolo:
di condizione femminile e di maternità spezzata.

Il suo corpo come teca di femminilità violata, di rivendicazione legittima calpestata, ma nello stesso tempo simbolo di lotta, forza, e determinazione.
 


CONTESTUALIZZAZIONE


Partiamo dall’identità sociale e geografica attraverso una breve ricognizione, volgendo lo sguardo al contesto delle lotte contadine.
Le lotte contadine e operaie del Meridione combattute nel secondo dopoguerra hanno avuto un profondo significato liberatore, di rottura con il passato.
Rappresentano un vero e proprio spartiacque epocale:
- sia per la trasformazione delle strutture economiche e produttive cui diedero avvio
- ma, soprattutto, su un piano sociale, poiché un’intera umanità sommersa, fiaccata da una sottomissione millenaria che era ormai divenuta una datità, lotta fino all’estremo sacrificio, prendendo coscienza della propria condizione e della propria forza

Il movimento, che è stato considerato “uno degli avvenimenti più rivoluzionari della storia del secondo dopoguerra”, inizia in modo del tutto spontaneo nel 1943 e si sviluppa per un decennio: segna il passaggio dalle lotte tradizionali, del passato, che pure c’erano state ma si erano rivelate del tutto episodiche e scoordinate, ad un movimento organizzato, dai contenuti rivoluzionari, poiché era basato sulla contestazione dei privilegi dei grandi proprietari terrieri: si è parlato a giusta ragione di scontro di classe, vedi Paolo Cinanni.
Le lotte rivendicavano non tanto le terre incolte dei grandi proprietari, quanto quelle terre demaniali dei feudi, che appartenevano per diritto alla collettività, ed erano state usurpate dai signori feudali locali, producendo perfino falsi catastali.
La lotta per la rivendicazione di queste terre demaniali è esplosa spontaneamente in diversi momenti storici: nel 1860, dopo lo sbarco dei Mille, i contadini di Bronte insorgono e rioccupano le terre demaniali loro sottratte dai feudatari locali, e Garibaldi stesso, in Calabria, il 31 agosto emanava il decreto di Rogliano che concedeva l’esercizio gratuito di pascolo e semina nelle terre demaniali della Sila ai contadini poveri di Cosenza e casali. Ma anche nel 19, alla fine della prima guerra mondiale, i contadini insorsero per la stessa ragione al ritorno dai campi di combattimento.
Nel 1943 si verifica lo stesso fenomeno: a settembre, il 16-17-18, dopo lo sbarco delle truppe alleate in Calabria e la liberazione dai tedeschi e dai fascisti, dopo l’armistizio, scoppiano rivolte contadine dapprima nel Crotonese, a Casabona, poi a Strongoli, Melissa, S. Nicola dell’Alto, Cirò e via di seguito.

Tanto lo sbarco dei Mille, quanto lo sbarco delle truppe alleate nel ‘43, sono percepiti a livello popolare come momenti di liberazione che sfociano immediatamente nella più legittima e importante delle rivendicazioni: la riappropriazione delle terre pubbliche.
Dal fermento politico e sociale di queste lotte si arrivò ai decreti Gullo del 44 e, quindi, alla costituzione di cooperative contadine che (si organizzarono per ottenere la concessione delle terre e dividerle in quote tra i soci. Le cooperative) divennero ben presto “gli strumenti organizzativi del movimento per la riconquista delle terre.
Il fatto che Fausto Gullo fosse calabrese e comunista, rappresentava un motivo di maggiore entusiasmo: i contadini sentivano di avere un proprio referente ai vertici, qualcuno che fosse dalla loro parte, e la loro lotta assumeva un significato nuovo, lo stato non era più quel Leviatano lontano e rapace, che si avventava sui deboli solo per riscuotere tributi e sottrarre braccia preziose per la leva obbligatoria.
Nonostante l’approvazione dei decreti, ad ogni nuova stagione di semina e di raccolto era necessario lottare strenuamente per difendere le proprie quote dalle prepotenze gli agrari che non intendevano rinunciare ai loro privilegi.
Il pittore Mike Arruzza autore del dipinto su Giuditta LevatoLa situazione in cui versava la regione nel secondo dopoguerra era disastrosa:
la Calabria registrava indici elevatissimi di miseria, un tenore di vita molto basso, indici elevati di disoccupazione; il che era ulteriormente aggravato dalle pessime condizioni igienico-sanitarie e dal diffondersi continuo di malattie endemiche.

La fame fu ancora una volta il fattore esasperante della tensione sociale. Nel 1946 si decise per una nuova occupazione, che assunse i contorni di un movimento di massa di portata epocale: i giornali dell’epoca descrivono in termini che oggi sembrerebbero enfatici le decine di migliaia di contadini, reduci di guerra, vedove, disoccupati. In ogni luogo della Calabria, (dall’Alto Crotonese alla fascia jonica, dalla Presila al versante tirrenico, ) una massa umana grandiosa sciamava nei campi con i propri arnesi di lavoro, intonando canti e slogan: suoni di campane e squilli di tromba chiamavano a raccolta la gente, e negli abitati restavano solo gli infermi. L’imponenza del fenomeno inasprì la reazione dei grandi proprietari verso i quali ci fu un’accondiscendenza governativa: le politiche furono orientate verso la repressione di un’occupazione che si svolgeva in maniera pacifica, rivendicando diritti legittimi.
Inizia la sequela degli arresti, i processi; i contadini si videro preda della durezza delle forze dell’ordine e insieme della ferocia degli agrari che assoldavano loschi figuri per devastare impunemente i terreni seminati.
Con la repressione armata, arrivò il sangue, Calabricata, Melissa.
 


EMIGRAZIONE


In passato o briganti o emigranti e ancora una volta la scelta governativa ricadde sulla via dell’emigrazione, scelta precisa, che sminuiva le lotte contadine e la riforma agraria. I quotisti nonostante l’impegno furono abbandonati a loro stessi e, via via costretti a emigrare, instaurando un circolo vizioso di partenze e abbandoni. Non possiamo qui soffermarci su tutti gli esiti dell’emigrazione, sulle dinamiche culturali che innescò, sulla sua portata innovatrice e sulle sofferenze cui diede vita, ma voglio sottolineare che, l’esodo di massa, tra le altre cose, determinò anche una condizione nuova e ambigua per la famiglia e per la donna in Calabria.
Come afferma Vito Teti nel suo saggio dedicato alle donne sole degli americani, molte donne, rimaste sole per anni, decenni a volte, assumevano la funzione di capo famiglia, svolgevano in tutto e per tutto i compiti maschili nella gestione della famiglia e del patrimonio. Già prima del grande esodo oltreoceano molte donne lavoravano anche fuori casa nelle attività stagionali agricole o come operaie nelle manifatture che, nel corso del XIX secolo erano diffuse in molte aree calabresi, dall’industria serica in poi, e quindi svolgevano un ruolo economico decisivo per la famiglia, eppure non avevano alcun potere decisionale in seno alla società, alcun peso politico.

Quando l’emigrazione le portò ad assumere ruoli maschili, su di esse si riversarono molti preconcetti, legati alla cultura contadina tradizionale e di cui si trova testimonianza anche nei proverbi, nelle espressioni lessicali, nelle canzoni: le donne sole degli americani erano ritenute facili preda di buontemponi in cerca di avventure erotiche di ogni sorta, e si diffuse presto l’idea della leggerezza di costumi di queste donne. La solitudine femminile spaventa, assume contorni perturbanti: si pensi che in alcuni dialetti calabresi, ad esempio nella mia area di provenienza, il Crotonese, ho riscontrato nelle mie ricerche sul campo l’uso del termine “libbira” che, lungi dal designare la libertà femminile, è sostantivato a designare una donna di facili costumi, è sinonimo di donnaccia dal comportamento esecrabile. Alla luce di queste considerazioni sul periodo storico, la volontà di sottrarre all’oblio la figura di Giuditta Levato assume contorni ancora più importanti, e c’è un ulteriore elemento sul quale è importante riflettere.


SILENZIO


L'intervento del Presidente Giuseppe Bova al ConvegnoEssere donna, contadina e calabrese, ancora nella prima metà del Novecento, significava vivere una condizione di esclusione e marginalità, vivere nel silenzio imposto.
Il silenzio ha varie epifanie e molteplici consistenze. C’è, ad esempio, il silenzio di chi custodisce una verità nouminosa, di biblica memoria, e quindi il silenzio-stupore, di chi si pone in una condizione di apertura e ascolto e non osa violare con la parola il mistero dell’altro.
(Questo silenzio nella nostra tradizione è incarnato da una figura del presepe, bellissima nella sua semplicità, u ‘ncantatu i da stiddra, il giovane pastore attonito, incantato di fronte al mistero della natività, di cui Luigi Maria Lombardi Satriani ha sottolineato l’apertura all’ascolto e, dunque, alla conoscenza.)
Ma il silenzio contro cui ha lottato Giuditta Levato, e con lei tanti nel Meridione come altrove, è quello imposto da una oppressione, rapace, che schiaccia le fasce più deboli di popolazione in una condizione di subalternità assoluta.
E’, quest’ultimo, un silenzio pesante, monolitico, graffiato nella carne.
Un silenzio al quale il folklore rispondeva con forme di parola metaforiche: il Carnevale, ad esempio, che per una volta all’anno consentiva di sovvertire l’ordine sociale, e permetteva a contadini, operai, poveri, di ironizzare nel mascheramento e nelle farse pubbliche, mettendo in ridicolo vizi e prepotenze dei potenti, ma tali forme di espressione non contenevano una reale carica eversiva, in quanto, come valvola di sfogo, contribuivano a mantenere il medesimo status quo, come ogni calmiere sociale: il movimento contadino e operaio rappresenta invece veramente ciò che De Martino definiva l’irruzione delle masse nella storia

Il silenzio femminile non è condizione che riguarda soltanto le contadine e operaie calabresi della prima metà del Novecento.
La storia, la letteratura, il mito, hanno quasi assuefatto l’immaginario collettivo al silenzio femminile, pensiamo a Tacita Muta, la ninfa a cui viene mozzata la lingua per aver troppo parlato, opposizione al modello della matrona, la cui virtù si misura anche nella sua vocazione al silenzio. Il femminile, nelle opposizioni binarie sottese alle varie forme culturali, opposto al maschile, evoca un silenzio che sembra inscritto nella sua stessa corporeità, perfino la dimensione procreatrice, che di per sé è immensamente propulsiva, sembra evocare il buio, l’umido e i liquidi silenti, il sangue e il latte: silenzio del corpo e silenzio della donna.
Contro il silenzio imposto, quelle di Giuditta Levato, e dei suoi compagni e compagne, per noi, sono parole di carne, e di sangue su cui costruire e continuamente rifondare la nostra identità di donne e di calabresi, senza retoriche e mitizzazioni del passato, e ben consapevoli della nostra profonda radice contadina. Quella civiltà contadina scomparsa ma, come dice Corrado Alvaro, su cui non bisogna piangere, bisogna serbarne memoria. La costruzione della memoria sociale passa attraverso il superamento dello scarto generazionale: la memoria collettiva sottende una scelta, una società sceglie cosa salvare dall’oblio e consegnare al futuro.
 
Conclusione


Giuditta Levato: donna contadina calabrese, ribadisco, ma non è una figura locale, né appartiene al passato. Credo che la sua forza e la sua attualità, e con questo concludo, sia ancora tutta da recuperare nel presente, tanto più oggi. Non c’è più la Calabria di allora, che da secoli presentava un volto paesaggistico spettacolare e un volto umano-sociale-economico raccapricciante ai tanti viaggiatori stranieri che ne percorrevano in lungo e in largo le contrade. Ma quante Calabrie desolate ci sono ancora qui e altrove?
Oggi abbiamo bisogno di altre lotte, di figure che sveglino le nostre coscienze. Il nostro presente è angustiato da una sempre più temibile mancanza di speranza, da un’insostenibile assenza di risposte alle nostre istanze di individui: la precarietà, del lavoro innanzi tutto, si è ormai trasformata in un dato esistenziale. Ma nessuna campana, nessuna tromba sembra ormai chiamarci alla lotta, neanche più forse al desiderio di resistere, di proporre, di crescere: nel nostro presente, calabrese e globale, Giuditta Levato e tanti che, come lei, hanno saputo vincere la disperazione con una lotta portata dignitosamente fino alle estreme conseguenze, è elemento rigenerante per rifondare la nostra identità, per continuare a credere.
 


* UNICAL
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