25 luglio 2011    

Il Cristo di Cutro e la polemica di Pasolini (di Romano Pitaro)


Il Cristo di Cutro “Elì, Elì, lemà sabactàni”. Ricordate?  Violentemente torturato, i chiodi  rabbiosamente ficcati nelle mani e nei piedi. La testa reclinata sulla spalla destra, il volto esausto. Sangue cola dalle tempie, sul collo, sulle braccia. Sgorga dal costato. Abbandonato, persino dai suoi più fidati amici, dodici. Uno dei quali, Giuda Iscariota, dopo averlo baciato, lo tradì (e poi s’impiccò), consegnandolo all’arrogante Caifa e agli aguzzini per trenta monete d’argento. Gesù di Nazareth sta clamorosamente spirando. Prima, però, dalle sue labbra tumefatte esce quel   disperato lamento in aramaico.  “Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra”, annota  Matteo, uno dei quattro inviati speciali cui fu  dato il privilegio  di tramandare eventi clamorosi. Come l’angosciato appello di un uomo che posa lo sguardo  nell’abisso  dell’animo umano e non lo distoglie più. Quando lo provocano, nel corso di un  volgare processo politico: “Tu sei il figlio di Dio?”,  risponde: “Tu lo dici”. Un’invocazione  terribile,  dinanzi alla  quale l’Urlo di Munch è un  armonioso mormorio. Lì c’è angoscia e smarrimento, qui soltanto angoscia e sangue. Smarrimento no. Perché l’uomo in croce ha un progetto da realizzare. Ha attraversato una parte di terra resuscitando morti,  guarendo ciechi e paralitici, lasciando, a chi l’ha ascoltato, messaggi sconvolgenti. I suoi biografi asseriscono che era “figlio di Dio”. Sia pure, ma la sua implorazione  proviene  dalla sua carne flagellata, dal costato aperto e dai piedi irrigiditi. E’ l’umanità lacerata dalle ingiustizie del mondo, che, prima di spegnersi, come uno qualunque, si rivolge al cielo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.  Volete vederlo con i vostri occhi l’uomo con le braccia spalancate,  lasciato in balìa della  bestialità umana dall’ora sesta all’ora nona, con  la testa maciullata da una beffarda  corona di spine? E volete udire ancora quel rantolo sconvolgente, mentre è solo come nessun altro al mondo e  sulla croce di legno, su cui campeggia il titulus con la sentenza: INRI, sorride,  agonizza e muore? C’è un luogo dov’è ancora  possibile assistere,  sgomenti per la potenza di un realismo che va oltre  la più livida  realtà, alla morte che non si prende mai del tutto la sua vittima; dove anzi la vittima  diviene  padrone della morte, e la lascia in perenne attesa.  Il tempo s’è fermato e l’oscurità incombe ma non sopraggiunge.  Per trovarlo, non  occorre andare nei sacri refettori fiorentini e neanche nei  musei romani colmi di turisti, o nelle chiese ridondanti  splendori e lustri. Gli somiglia  un po’, ma meno tragicamente, la Pietà di Giovanni Bellini   -Pinacoteca di Brera a Milano - e soprattutto  il Cristo nel sepolcro - conservato a Basilea - di Hans Holbein il Giovane, che impressionò  Dostoevskij al punto che ad un suo personaggio, nell’ Idiota, fa dire: “Osservandolo si perde la fede “. Occorre, allora, giungere in Calabria.  Per riscoprire, nella sua essenzialità e senza i sofismi  della teologia ex cathedra, l’uomo inchiodato da duemila e rotti anni e vederne i tormenti. Esattamente a  Cutro (Kyterion), popoloso borgo del Marchesato, l’ area che si estende  tra il mare Ionio e la Sila:   pianure infuocate  e assetate. Lì dove  si sarebbe potuta scrivere un’altra storia della Calabria, se il movimento contadino non fosse stato sbaragliato. Cutro:  terra d’emigrazione e di prepotenza, di calanchi color del grano,   “attraversata da lampi di violenza e di speranza”.  Paesaggio brullo: “Poi la strada lascia il mare e s’interna in una zona tutta gialla, con le colline che sembrano dune immaginate da Kafka e il tramonto le vela di un rosa sangue”,  scrisse Pasolini nel suo viaggio del 1959 che gli valse  una lunga  polemica  e più tardi  il premio  Crotone  a cura  di una giuria presieduta da Carlo Emilio Gadda. Cutro, tra i fiumi Tacina ed Esaro: dove  l’uomo costretto sul  legno,  è tuttora  una realtà vibrante.  Reale fino al divino e viceversa.  Pone dubbi,  interroga le coscienze. Unisce i fili di duemila anni di storia, ed ai ricchi preclude  il regno dei cieli, mentre esorta i puri di spirito a diffidare delle porte larghe e d’ infilare invece  quelle strette, se vogliono sconfiggere nientemeno che le tenebre. E’ il Cristo di Cutro, che per suscitare emozioni,  non ha bisogno di  ricorrere agli effetti speciali del  Cristo di Mel Gibson. La strada che porta  da San Leonardo (sulla “106”) al Vignale di San Basilio, sembra il percorso che da Gerico conduce a Gerusalemme, e il rialzo su cui svetta il Convento della Riforma, costruito nel 1500,  è il Golgota di queste parti. Qui è custodito dai frati francescani il Cristo di Cutro: monumento nazionale dal 1940.  L’ha  scolpito fra Umile Pintorno da Pietralia (Palermo),  “scultore d’arte sacra tra i più prestigiosi del Seicento in Italia”. E se lo guardi  avverti  brividi  ed orrore. Com’è potuto accadere quest’immane  scandalo?   Sul crocifisso di legno del 1630, il volto affranto  di Cristo ha sul  naso una stilla di lacrima. Anche Cristo, che potrebbe trasformare la “106” della morte  in una superstrada sicura e in un fiat eliminare le brutture disseminate sulla costa, piange.  Sorride, se lo guardi da sinistra, ti parla  se lo scruti dal centro, rassegna l’anima al padre, se ti metti a destra. Ci sono due esegesi  della sua greve  implorazione finale, dopo che bevve  il calice: “una profonda desolazione o, secondo l’uso religioso ebraico, piena fiducia in Dio, re dell’universo”.  Il Cristo di Cutro, se lo guardi dal centro, ha fiducia  in Dio. Ma se scrutato da destra, è un uomo senza più radici né  legami che nella morte trova   l’unica sua via di fuga da un tempo feroce,  che non l’ha capito. E l’ha massacrato. Quest’uomo inchiodato sulla croce di Cutro sarebbe senz’altro  piaciuto al filosofo dell’etero ritorno. Nietzesche, infatti, andava pazzo per questo genere di eroe che guarda a fondo nel dolore: “Io amo coloro che non sanno vivere, anche se sono coloro che cadono, perché essi sono coloro che attraversano”.  Capisci, anche, spiandolo   al riparo da rumori  e lontani dalle risse quotidiane, perché Pasolini venne qui.  Prima, nel 1959, per realizzare “La lunga estate di sabbia”, poi, nel 1964, per girare il film che gli costò l’accusa di vilipendio della religione: il “Vangelo secondo Matteo”, per cui  impiegò  molte comparse del luogo e affidò al partigiano Rosario Megale   il ruolo di san Tommaso. “Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro”, lo scrittore intuì “un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia”.  E ne fu disorientato. In realtà, quel Cristo non nasce soltanto dall’arguzia di fine intagliatore di fra Umile. Ma dall’aver egli  respirato la stessa aria dei  vinti del Marchesato, travagliati da incursioni turche, carestie, fame e pestilenze. Un mondo  di contadini angustiati da venti asciutti e da baroni rapaci. Guardando  il Cristo di Cutro,  scoprendo quasi  una cristianesimo delle origini non intriso di potere e  in grado di scaldare i cuori, si può scorgere, grazie al realismo con cui è rappresentato l’uomo crocifisso,  il sembiante di un contadino del Marchesato scarnificato dai latifondisti e poi, fallita ogni riforma agraria, costretto alla fuga in cerca di un luogo meno cruento in cui poter ricominciare. Commenta il professor Giovanni Ierardi, che conosce il Marchesato come le sue tasche: “Quando fece il sorriso del Crocifisso, frate Umile forse immaginò la gioia intensa che qualche volta assale i braccianti e li rende anche belli, pur nell’asprezza delle fatiche bestiali. O immaginò i sorrisi degli ignoti pescatori de Le Castella e di San Leonardo quando i conzi ritornano carichi di pesce”. Dice un vecchio contadino a Giovanni Russo, che per realizzare un classico della letteratura meridionalistica  “Baroni e contadini”, nel 1950 mette piede nel  Marchesato: “E’   più facile parlare con Dio che col barone Barracco”.  Sì, per quei contadini, abbandonati dallo Stato e poi dai partiti della sinistra, che privilegiarono  l’industria e lo  sviluppo del Nord  costato lacrime e sangue al Sud, era più facile imbattersi nel Cristo di Cutro e con lui condividere il male di vivere. Parafrasando i termini della polemica Pasolini-Cutro ( il paese si risentì per  alcune espressioni dello scrittore   pubblicate dalla rivista Successo nel 1958: “Il luogo che più m’impressiona di tutto il viaggio. Il paese dei banditi come si vede nei western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello…”),  il Cristo di fra Umile Pintorno  può senz’altro  simboleggiare un bandito di Cutro in croce.  Nell’accezione che ne diede lo scrittore, con l’intento di placare l’irritazione dei cutresi: banditi nel senso che  “i poveri sono bànditi dalla classe dominante, che li sfrutta e li spinge indirettamente al crimine”.
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