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8 luglio 2011
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Lega Nord: un paradosso in cinque punti e mezzo (di Romano Pitaro)
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La Lega Nord? Un mostro! Anzi: la pietra dello scandalo della nostra democrazia. Roba di cui si scandalizza l’Europa. Il giudizio è netto, severo. Troppo forse, perché così si rischia di non capire chi e perché ha dato forza alla Lega. Di non capire cosa c’è sotto e accanto: un Paese frastornato. Che, dopo lo smottamento della prima Repubblica, seguita ad essere diviso in due, Nord e Sud. E non è stata la Lega a dividerlo. Un Paese che non cresce, e non ha di sé una dignitosa visione unitaria. Mentre calpesta il futuro di un’intera generazione di giovani disillusi. “La Lega Nord, un paradosso italiano in cinque punti e mezzo” (il mezzo indica il federalismo hard): è il titolo del saggio di Luigi Pandolfi, intellettuale calabrese e uomo di sinistra. Ecco i tratti peculiari di un paradosso italiano o di un partito paradossale: la Lega Nord, che una volta ce l’aveva duro. Quando moltissimi ritenevano che avrebbe umanizzato istituzioni burocratizzate e ostili ai cittadini. Quando, lo ricorda Corrado Stajano nel “Disordine”, la votavano “schizzinosi banchieri, imprenditori, immobiliaristi, architetti di fama, giornalisti”. Tutto questo secoli fa. Insomma, prima del botto di maggio. Inatteso, ma inequivocabile come una rasoiata. La Padania immaginifica la Lega se l’è lasciata scippare e all’ultimo raduno di Pontida, a mazzata incassata, i suoi capataz sono apparsi mosci. Melliflui, come un piccolo partito della prima repubblica che ancora si ascolta perché in un Paese allergico alle grandi riforme i suoi voti sono determinanti. E’ l’assunto del pamphlet di Pandolfi che però suscita qualche perplessità: “In qualsiasi alto paese civile e democratico del mondo, un partito come la Lega Nord sarebbe stato confinato ai margini del sistema politico e sorvegliato a vista nel cortile della vita istituzionale”. Non è condivisibile, perché la Lega non è un mostro uscito dai tombini. Mostro può anche darsi, e si possono indicare prove eclatanti. Lo storico Enzo Ciconte in “Ndrangheta Padania” spiega che “Nell’ultimo quindicennio la ‘ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Esattamente nelle stesse località dove c’è un forte insediamento della Lega la ‘ndrangheta gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, ha una presenza politica”. Ancora: ”L’egemonia politica e territoriale della Lega non ha comportato la scomparsa della ‘ndrangheta. A voler essere precisi s’è realizzata una
coabitazione tra Lega e ‘ndrangheta negli stessi territori”. Senza dimenticare le aspirazioni di Miglio o i consigli di Castelli, uno voleva costituzionalizzare la mafia, l’altro conviverci. Sfoltiti gli entusiasmi mal riposti, i rituali celtici, le pacchianate e le urtanti esternazioni sugli immigrati, il mostro però, questo è il punto, è figlio di quest’Italia. Che l’ha vezzeggiato quando occorreva cautela. E oggi che è alle corde ed è facile irriderlo, non possiamo dimenticare che è parte della cultura e della società italiana, con i suoi tic, le sue nevrosi e le sue contraddizioni irrisolte. Investita da mutamenti profondi, ingenerati dalla globalizzazione, all’inizio dei ’90 è esplosa la fuga nel particolare e l’attenzione esclusiva del proprio vissuto individuale. La Lega nasce quando un Paese scosso, si convince che ciò che conta è l’impresa, il mercato e l’arricchimento facile. In spregio alle regole ed ai controlli. Per capirla, e capire le oscurità di un’Italia in perenne transizione istituzionale, non bisogna demonizzarla. L’assunto sulla impresentabilità deve fare i conti con la realtà italiana ed i suoi vizi ancora vivi e vegeti. Pandolfi fa una ricognizione puntuale sul fenomeno leghista fin dalla sua comparsa e offre un’interessante comparazione delle “sparate” dei vari dirigenti della Lega con quelle del Front Nazional di Le Pen, del Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo, il Pro-Koln, l’ultradestra tedesca, e il movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky. Il partito personale di Bossi, almeno a parole e documenti alla mano, è a destra delle destre più estreme. Nel suo profilo identitario c’è l’odio verso l’Islam e l’islamizzazione, su cui ha costruito decine di campagne elettorali, e la ricerca di unità d’intenti con l’inquietante accolita di razzisti di tutta Europa. Sono cinque, dunque le performance che rendono la Lega un unicum. La sua appartenenza alla famiglia delle destre anticostituzionali; l’insopportabile contraddizione sull’immigrazione: parte essenziale dell’economia del Nord ma oggetto di spregevole acrimonia da parte dei Leghisti; il contrasto evidente tra i suoi obiettivi e gli interessi nazionali; il suo richiamo all’etica ed alla legalità ed invece la realtà di compromissioni romane che l’hanno vista sostenere le leggi ad personam, e persino la legge sulle rogatorie con cui impedisce alla giustizia di avvalersi di prove ottenute attraverso le rogatorie con gli altri Stati e quella sull’ abolizione del reato di falso in bilancio. Ultimo: il familismo amorale, i parenti del capo piazzati nelle Istituzioni e una serie di commistioni che stridono col suo “Roma ladrona!” Tutto vero, tutto saggiamente sminuzzato per rendere intelligibili anche le trame più infinitesimali di un partito di cui tra qualche tempo è verosimile che restino irrilevanti spoglie destinate ad una diaspora alla bell’e meglio. Credo, però, che per leggere l’ exploit della Lega e il suo inabissarsi, occorra inserirla nel contesto storico e politico generale che le ha consentito successi e gloria. Fenomeno reazionario, d’accordo. Ma ci sono altre interpretazioni che vanno ponderate. Anzitutto essa è stata, in un Paese esausto, uno dei tre fenomeni nuovi emersi con la fine della prima repubblica. E’ vero che Bossi, dopo avere intascato una tangente
da Enimont, ha fatto giusto in tempo a sedersi in Parlamento dalla parte dei giustizialisti col cappio, ma è innegabile che abbia rappresentato la speranza di riformare la politica. Dopo il crollo del muro e della prima repubblica, nell’Italia ingessata in un sistema gerontocratico, partitocratico e clientocratico (oggi si può aggiungere anche mignottocratico), nascono, a destra dello scacchiere politico, il fenomeno leghista e il berlusconismo prima maniera, carico di promesse libertarie e premiato elettoralmente anche perché si riteneva potesse spezzare a) un assetto della politica dominato da un gruppo ristretto di politici a vita; b) riformare, con la valorizzazione del merito e della concorrenza, un capitalismo di relazioni che ancora oggi è un problema gravissimo, a dispetto di ogni invocazione a dar vita ad una società aperta. La Lega, insomma, come reazione al mancato rinnovamento della classe dirigente di un Paese ancora oggi in attesa di riforme sistematiche, come denuncia l’ex governatore banca d’Italia Draghi nelle sue ultime “Considerazioni finali”. In Spagna in 30 anni di democrazia sono stami consumati quattro leader prestigiosi; in Francia nella V Repubblica si è avuto il gollismo, il mitterandisimo ed oggi il sarcosismo; in Germania: Khol, Schroeder e Merkel passando e in Inghilterra dopo la Thatcher, Major, Blair e Gordon Bown. La seconda Repubblica italiana, viceversa, ha ereditato i guasti della prima e ne ha aggiunto altri; la modernizzazione dei settori cruciali è una sfida per ora perduta. Nello sclerotizzato sistema politico e di governo la Lega, spiega Ilvo Diamanti, tuttavia ha favorito l’accesso di categorie divenute periferiche nei partiti di massa, operai e lavoratori autonomi, giovani e dilettanti politici. Il leghismo e il berlusconismo hanno introdotto linguaggi nuovi, persino un stile diretto e meno paludato. Rispetto a tutto ciò persino l’esperimento prodiano è parso come una reazione difensiva alla sfida dei tempi. A distanza della caduta della prima repubblica, il regime che oggi abbiamo dinanzi è oligarchico, personalizzato, non lascia spazio al rinnovamento. Registriamo, dopo il crollo dell’esperimento dei sindaci eletti direttamente, un vizio nazionale, che prescinde quasi dalla destra e dalla sinistra, all’autoriproduzione delle classi dirigenti che non si riesce a sconfiggere. Siamo una società vecchia e familista, corporativa e localista, immobile e chiusa. Che quando non sa come spiegare l’immobilismo corporativo da cui è divorata, dà in pasto all’opinione pubblica l’idea falsa di un Mezzogiorno zavorra del Paese. La lezione che si coglie, è che la politica, di cui la Lega è parte, in fondo riproduce ed enfatizza i limiti di un Paese disunito nei fatti. La sconfitta della Lega è sancita nelle “Considerazioni” di Draghi ( i sette nodi che stritolano l’Italia a cui neppure la Lega ha saputo dare risposte) e dalle rivoluzioni sulla sponda sud del Mediterraneo, che hanno messa a nudo la natura doppia della Lega: spaccona e minacciosa a parole, imbelle nei fatti. Non adatta a governare la complessità dei problemi. Né capace di integrare l’immigrazione né in grado di respingerla. Piccoli
leader arroganti con i deboli e ossequiosi con i potenti. Se però ora la demonizziamo, evitando di contestualizzarla, si rischia di non vedere a che punto è giunto il Paese. E magari ci illudiamo i che a bonificare la “gigantesca palude col futuro alle spalle” che è diventata l’Italia, possano riuscirci un’opposizione litigiosa e una sinistra che, nonostante i traumi storici, non ha saputo produrre novità significative. Come segnalano spesso osservatori attenti, ancora oggi non siamo in grado di consentire l’accesso nella politica e nelle istituzioni di componenti nuove; né di applicare
seriamente le quote rosa e quelle verdi (l’inserimento nelle istituzioni e nei partiti di giovani al di sotto dei 35 anni); né di dare il diritto di voto ai sedicenni ed agli immigrati. Uno come Obama, da noi, ancora adesso, sarebbe in fila nella stanza di Rutelli, D’Alema, Casini. Siamo estranei al circuito virtuoso del merito, ma ciò che più avvince il teatrino della politica che imperversa nei media è se Berlusconi lascia o raddoppia, chi sarà il candidato premier tra Bersani e Vendola. Invece, anche dall’analisi lucida del successo e della disfatta della Lega, se non vogliamo che, cambiando i personaggi resti immutato lo schema di fondo e che quindi la divaricazione tra Istituzioni e società corra più velocemente fino a spaccare il Paese, dobbiamo iniziare a interrogarci su come rendere possibile, prima che si verifichino fratture, ribellioni e strappi, che le donne ed i giovani possano diventare protagonisti. Il libro di Pandolfi è un ottimo incipit per capire com’è stato possibile che un Paese democratico nato dal Risorgimento, da due atroci guerre, dalla liberazione e dalla Costituzione, si sia affidato per così tanto tempo a un politico come Bossi che una volta disse: “Con il tricolore mi ci pulisco il culo!”. Fortuna che c’era un giudice a Cantù che lo condannò a un anno e quattro mesi, quando parte dell’opinione pubblica, sinistra inclusa, lo riteneva l’uomo nuovo la cui carica eversiva poteva far saltare il tavolo di un potere arroccato.
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