9 maggio 2011    

Addio ad Ernesto Sabato, aveva il Sud Italia nel cuore (di Romano Pitaro )


Può il Mezzogiorno italiano sentirsi  più straniero nel mondo di quanto non lo  sia già? Sicuro. Oggi è più solo, perché  in Argentina è morto, alla bella età  di quasi cento anni (è nato a Rojas nel 1911) un grande scrittore:  Ernesto Sabato. Che con  il Sud, in particolare con la Calabria,  aveva un legame di sangue. L’ha cementato  per sempre nelle sue opere. Una pagina meravigliosa del suo “Prima della fine” (edito da Einaudi) è dedicata a questa regione del  profondo Sud :  “Molti anni fa andai in Calabria, a Paola, dove un giorno mio  padre si era innamorato di mia madre, intravedendo la sua infanzia tra quelle terre, guardando verso il Mediterraneo, chinai il capo e i miei occhi si  offuscarono”. Il padre, Francesco,  è nato a Fuscaldo e a San Martino di Finita è nata  la madre, Giovanna Maria Ferrari.  Sabato non è soltanto l’uomo che lanciò il disperato urlo che  piacque ad Albert Camus e all'esistenzialismo agli inizi del Novecento ( “Tutta la nostra vita sarebbe una serie di grida anonime in un deserto di astri indifferenti?"), ma anche il figlio di emigranti calabresi, che assorbe, metabolizza e ripropone  a modo suo  la loro disperata ricerca di un luogo felice nel mondo in cui riparare, la loro drammatica  lotta per l’esistenza e la loro condizione di sradicati; e tutto riversa, partenze e arrivi, sorrisi  e  tragedie,  nella sua scrittura.  Spesso la radice calabrese  dello scrittore è stata dimenticata o deliberatamente omessa dal sistema mediatico e culturale  internazionale, e la Calabria, culturalmente fragile, non è mai riuscita  a renderla visibile, tantomeno a trarne profitto.  Sabato per tanti è stato  un esistenzialista fuori tempo, mai  indifferente alle tragedie della sua patria e del mondo intero, come testimonia la sua biografia, ma anche un figlio della Calabria.  Di sicuro chi, nel  corso di discussioni sulla nostra identità di calabresi, ha avuto modo di indicare Sabato quale vivida  escrescenza intellettuale di cui andar fieri, confutando l’idea del calabrese cupo,  isolato  in patria e   all’estero, dopo la morte dello scrittore  non potrà più farlo. Questo è il cratere  che lo scrittore lascia.   Ho immaginato a volte un dialogo tra Sabato e Alvaro, e ho notato  che molti pensieri dei due patriarchi si sovrappongono.  Della  desolazione di Sabato con lo sguardo rivolto all’umanità, c’è tanto di Alvaro e tantissimo di noi calabresi. A partire da quell’ interrogativo: siamo davvero  soli nella società e nel mondo? Uomini e donne con  davanti a sé l'abisso del nulla e dei silenzi totali,  e che se si affidano  a un interrogativo siffatto  è soltanto per non cedere al suicidio o  all’irrilevanza collettiva? La risposta è difficile. Anche se l’ultimo lavoro di Sabato, “Resistenza”, invita a sperare.  Alle menti che non hanno smesso di cercare,  occorre ricordare, anche rischiando l’enfasi,  questo romanziere argentino che  è stato "ragazzino  solitario e spaventato di un villaggio della Pampa" e avrebbe potuto essere un ragazzino spaventato di un villaggio della Calabria dei primi del '900.  Quasi per non dimenticare  che in ciascuno di noi corrono sempre due destini, ciò  che si è diventati  e ciò  che si sarebbe potuto essere. Quando gli ho ricordato, incontrandolo a Buono Aires nel 2002,  il destino che non ha avuto,  lo scrittore  si  è schermito e  con un sorriso ha sussurrato : "E' cosi". Sabato è stato  non solo l'acuto, scrupoloso notaio di anime sprofondate nell'oblio del terrore, dello sconforto e della paranoia (il suo capolavoro è "Sopra eroi e tombe" che insieme al “Grande Sertão” di Guimarães Rosa, secondo lo scrittore triestino Claudio Magris, è il più grande romanzo sudamericano e uno dei grandi libri del secolo). Se pensiamo a Sabato e allo strappo subito dalla sua famiglia  e alla carneficina dei militari nell'Argentina della "guerra sporca", comprendiamo come abbia potuto mettere in bocca al protagonista di Tunnel (il suo primo libro) Juan Pablo Castel, una frase cosi lacerante: "Che il mondo sia orribile è una verità che non necessita dimostrazioni". Ma Sabato non è stato soltanto un pessimista.  C'è sempre stata una luce dietro ogni sua rinuncia totale. E se la s'insegue, quella luce,  si scopre non la freddezza del razionalista, ma un ingegno caldo, una saggezza che ha radici  contadine. Cosi si scopre che Ernesto Sabato è stato  anche un inno alla speranza. Il suo sorriso dolce e la mano che tese per salutarmi, quando mi ricevette  nella casa dove ha vissuto  per più di settanta  anni, furono disarmanti. Dopo viaggi nell'animo umano e l'immersione nelle crudeltà della storia del suo Paese, trovava ancora la forza di affermare: "Soltanto chi sarà capace di incarnare l'utopia sarà pronto per la battaglia decisiva, quella destinata a recuperare l'umanità che abbiamo  perduto". Umanità perduta: non è forse questo l’anello mancante alle innumerevoli analisi sull’assenza di sangue dell’economia globale? La modernità liquida non è priva esattamente dell’umanità di cui parla Sabato? E da dove gli è derivata questa coscienza profonda di umanità, se non, almeno inizialmente, dalla tragedia dello sradicamento dei meridionali italiani? Scrive, infatti in Prima della fine: “Mescolati alla moltitudine di colonizzatori, i miei genitori approdarono su queste spiagge con la speranza di fecondare la Terra promessa che si estendeva oltre le loro lacrime. Mio padre discendeva da italiani di montagna, abituati alle asperità della vita, invece mia madre, che apparteneva a un'antica famiglia albanese, dovette sopportare i disagi con dignità". “Quanti italiani - ha scritto - avrebbero continuato a vedere le loro montagne e i loro fiumi, separati dal dolore e dagli anni, nelle strade di Buenos Aires, in questa metropoli costruita sul porto e trasformata in un deserto di ammucchiate solitudini". L'ultima delusione di questo scrittore che Guido Piovene, in un piacevole saggio del 1966, definì "descrittore forte e impressionante" e il cui primo romanzo, Tunnel, fu fatto conoscere all'Europa da Camus , è stata l'ingiustizia delle leggi che hanno impedito la punizione dei colpevoli di misfatti atroci commessi durante la “guerra sporca” . E' stato lui a presiedere la commissione sugli scomparsi dal 1973 al 1986 (forse più di 30 mila vittime della tirannide) dando al mondo “Nunca más”, la relazione ufficiale redatta dalla commissione insediata da Raul Alfonsin nel 1985 che consentì la condanna dei membri della  Giunta militare (Videla, Viola e l'ammiraglio Massera): "In più di cinquantamila pagine furono registrate le scomparse, le torture ed i sequestri di migliaia di persone, spesso giovani ed idealisti, il cui supplizio sarebbe rimasto per sempre nel punto più lacerato del nostro cuore". Ho inutilmente, nel corso degli anni, tentato, attraverso persone che lo hanno seguito con affetto, di concretizzare il suo ritorno in Calabria, almeno per qualche giorno. Chissà che avrebbe detto della Calabria di oggi.
Per noi sarebbe stato uno stimolo potente a non rassegnarci al peggio. Ricordare l’incontro che ebbi con lui è  un pensiero felice. Non soltanto perché ho conosciuto una  grande personalità.  Mi accolse nella sua abitazione di Santos Lugares, nella periferia ovest di Buenos Aires, e mi fece  accomodare in uno studio tappezzato di libri. E’ lui che ha detto : "Una volta a chi mi chiedeva quali letture fare, ho risposto: leggete ciò che vi appassiona, sarà l'unica cosa che vi potrà aiutare a sopportare l'esistenza". Ho visto il letto in cui dormiva. In una stanza angusta fatta di cose essenziali, un lume per la notte, dei libri, una macchina per scrivere su un tavolino accanto alla finestra. Non c’erano lussi nella sua casa ("Voglio che la casa resti cosi com'è, con le sue crepe e le pareti mezzo scrostate…questa casa in cui nacque la mia opera e in cui morì Matilde") ma molti pensieri alla Calabria. Tra i ricordi della sua vita spesso finita al centro delle cronache mondiali per l’impegno a difesa dei diritti umani, i richiami alle canzoni della terra di suo padre: "Ricordo che certe volte la sera mi teneva sulle ginocchia e mi cantava le canzoni della sua terra" o al  Mediterraneo che gli offuscò lo sguardo "quella volta che andò in Calabria a conoscere il luogo dove un giorno il padre  s'innamorò di sua madre”. Sulla scrivania aveva  la foto di sua moglie Matilde e del figlio Jorge Federico, entrambi morti; “ma io”, mi disse, “ci parlo ogni giorno”. Per lui quella perdita era  un buco nell’anima che non riusciva, e non voleva, colmare: “ Spesso li guardo con la nostalgia di uno sguardo che mi spezza il cuore. Come vorrei tornare indietro nel tempo. Darei tutti i miei libri e darei il mio prestigio, e gli onori e i riconoscimenti, pur di recuperare la loro vicinanza". I giovani sono stati il suo cruccio. “Sono una riserva di speranza”, ha detto nel libro in cui  Elvira Gonzales Fraga, la sua compagna, ha trascritto i suoi ultimi pensieri.  “Vengono da me con le loro speranze. Ed io, vecchio, vedo che poche delle mie speranze si sono avverate, che il mondo è ben lontano da quello che ho desiderato, immaginato e per il quale ho lottato. E tuttavia non rinnego di avere sperato, di continuare a sperare…”
 
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