19 aprile 2011    

Il Ponte sullo Stretto dopo il terremoto in Giappone (di Romano Pitaro )


Una fotosimulazione del ponte visto dalla Sicilia A guardare la rapidità con cui la "Stretto di Messina Spa" procede negli impegni propedeutici all'avvio dei lavori del Ponte, sembrerebbe che il sisma e lo tsunami alto dieci metri che hanno sconvolto l'11 marzo il Giappone, la seconda potenza economica e tecnologica del mondo, non abbiano suscitato neppure un filo di  perplessità.
Nè incrinato la determinazione a costruire tra la Calabria e la Sicilia, regioni appollaiate su un'area sismica dove nel 1908 un terremoto di magnitudo 7.2 ha provocato 100mila morti, quella che per alcuni sarà l'ottava meraviglia del pianeta (benchè la definizione sia improvvida, vista la fine che hanno fatto  le altre sette) e per altri, viceversa, un'opera priva di qualunque utilità pratica.
Ovviamente, i termini della contesa sono noti. E si sa chi il Ponte lo vuol e chi lo avversa. Ma se il confronto tra sostenitori e detrattori può far bene alla discussione, ciò che semina forti dubbi, specie osservando le più recenti iniziative assunte dalla "Stretto di Messina", l'indifferenza verso gli interrogativi scaturenti dai recenti drammatici accadimenti che hanno sconvolto il Giappone. Un terremoto con un'intensità 9.5 della scala Richter ha prodotto sfracelli, aprendo una discussione cui partecipa l'intero Occidente circa i limiti della scienza e il rapporto tra la vita da preservare e l'intelligenza artificiale che, pur di surclassare se stessa,  la mette a repentaglio.
Nelle regioni dell'Italia del Sud direttamente interessate, poi, sembra cancellato dalla memoria quel 28 dicembre di poco più di un secolo addietro e dimenticati i versi della poetessa lombarda Ada Negri che esortava a prestare soccorso: "Fratelli in Cristo/ destatevi dal sonno/ andate a soccorrere con leve e pale/ con pane e vesti. Nelle lontane terre dell'arsa Calabria crollano ponti e città/i fiumi arretrano il corso/sotto case travolte le creature sepolte vivono ancora/chissà. Batte la campana a stormo. Pietà fratelli, pietà".
Come se non riguardasse questa parte del pianeta quanto accaduto di recente nell'Asia orientale, si va avanti senza richiedere alcuna moratoria riflessiva sulla megainfrastruttura.  La campata unica per la cui realizzazione (da finire entro il 2017) occorrono 6.3 miliardi di euro, lunga 3.300 metri, larga 60 e sostenuta da due piloni sui due versanti siciliano e calabrese. Sarà il ponte a campata unica più lungo del mondo, che a milioni verranno a vedere almeno una volta nella vita da ogni plaga del mondo. E surclasserà il suo omologo. Giapponese, guarda caso: il Ponte Akashi-Kaiki, che è stato realizzato con la stessa tecnologia costruttiva prevista per l'ottava meraviglia ma è lungo la metà. 
Degli interrogativi appena indicati parliamo con il professor Domenico Marino, che insegna politica economica all' Università di Reggio Calabria, autore di un recente pamphlet edito da Rubbettino intitolato "L'insostenibile leggerezza del Ponte". 
I suoi  dubbi sulla bontà dell'infrastruttura che dovrebbe collegare la Calabria con la Sicilia sono aumentati dopo quanto è accaduto in Giappone?
Anzitutto, niente di soggettivo. C'è da chiarire piuttosto che il problema della capacità delle grandi infrastrutture o delle infrastrutture "sensibili", cioè di quelle infrastrutture la cui distruzione può causare dei danni rilevanti, è un tema di pressante attualità dopo quanto successo in Giappone.  Se in Italia, e specificamente a proposito del Ponte sullo Stretto, si intende fingere che non sia successo nulla, si faccia pure, ma è un errore terribile. Ed è un tema attualissimo e riguarda non solo le centrali nucleari, ma anche le dighe. Sarebbe opportuno ripensare tutti i criteri di sicurezza fin ora utilizzati per evitare danni enormi non solo materiali, ma anche in termini di perdita di vite umane. LìItalia non è il Giappone, nè per capacità di risposta alle catastrofi, nè per qualità del costruito. Basti pensare che in soli sei giorni i giapponesi hanno ricostruito un'autostrada distrutta dal sisma, mentre in Calabria dopo 10 anni ancora non abbiamo terminato l'ammodernamento dell'autostrada A3. Un sisma del genere se si fosse verificato dalle nostre parti, avrebbe raso al suolo l'intera Calabria e l'intera Sicilia causando milioni di morti. Gli esperti ci dicono che è estremamente improbabile che la Calabria sia interessata da un sisma di tale potenza. Improbabile non significa impossibile e poi anche un sisma di potenza mille volte inferiore trasformerebbe Reggio e Messina in un deserto.
Quanto incide il rischio sismico nella realizzazione del Ponte?
Quello della sismicità dell'area è uno dei molti aspetti rilevanti che rendono insostenibile la costruzione del Ponte sullo Stretto. Se dovessimo trovare un'immagine che posa rendere ben conto di questo fatto probabilmente quella del Colosso di Rodi è la miglior metafora. Opera senz'altro ardita, ma priva di qualunque utilità pratica che ne giustificasse la costruzione, totem alla volontà di potenza che cerca stupidamente di sfidare la natura. Probabilmente la città di Rodi si indebitò pesantemente per costruire la grande opera; all'epoca non esistevano la finanza creativa o il debito pubblico, ma erano i templi a finanziare la costruzione delle infrastrutture attingendo al tesoro sacro, e la città si indebitava con il tempio. E quando non si ha un tecnologia valida cui ricorrere, la natura ben presto si prende gioco dell'ambizione umana.
Sta profetizzando tragedie nel caso si decidesse di andare avanti nella costruzione del Ponte?
Non voglio assolutamente essere facile profeta di sventura, ma probabilmente oggi non possediamo ancora una tecnologia in grado di assicurare la stabilità del Ponte rispetto a un evento sismico; a questo proposito, non va dimenticato che nel progetto preliminare viene assicurato che il Ponte potrà resistere a un evento sismico di magnitudo 7,2 della scala Richter. Vorremmo però ricordare che i terremoti di magnitudo superiore a 7,2 punti della scala Richter sono abbastanza frequenti e che la scala è logaritmica, per cui a ogni punto corrisponde un aumento di potenza di 10 volte. Un terremoto di magnitudo superiore a 7,2 gradi della scala Richter non è peraltro un evento improbabile, se consideriamo che nel mondo ogni anno vi sono almeno cinque eventi sismici di questa intensità. Non è quindi avventato ipotizzare che il Ponte, se costruito, potrebbe fare la stessa fine del Colosso di Rodi.
Eppure professore, aldilà di una certa visione pessimistica della vita e di un  legittimo ripiegamento dell'ottimismo della volontà dinanzi alla natura ribelle,  il gemello giapponese del Ponte sullo Stretto di Messina, il ponte di Akashi-Kaikyò (ad oggi il più lungo del mondo e inaugurato dopo otto anni di lavori nel 1998) che collega la città di Kobe sull'isola di Honshu all'isola Awaji, ha resistito sia a questo terremoto, essendo distante dall'area interessata dal sisma, che a quello del 1995 che ha colpito Kobe. Perchè, dunque, preoccuparsi per il Ponte sullo Stretto?Una fotosimulazione del ponte visto dalla Calabria
E' una sciocchezza che viene propalata senza alcun fondamento. Non è assolutamente vero che ha resistito al terremoto di Kobe del 1995. Va innanzitutto detto che quando si verificò il terremoto il ponte era ancora in fase di costruzione ed erano state realizzate solo le torri. Queste torri furono seriamente danneggiate dal terremoto tanto da allontanarsi l'una dall'altra di più di un metro, motivo per quale fu necessario allungare la campata principale passando da 1990 metri progettati a 1991 metri. Se il ponte fosse già stato costruito non sappiamo cosa questo spostamento avrebbe potuto provocare e in ogni caso il terremoto di Kobe era al di sotto della soglia di potenza sismica  che teoricamente il ponte di Akashi-Kaikyò­ era in grado di sopportare. Se si fosse trovato di fronte ad un evento sismico come quello che si è verificato l'11 marzo difficilmente il ponte di Akashi-Kaikyò sarebbe ancora intatto.
Giunti a questo punto professore, cosa c'è da attendersi secondo lei?
Io pongo delle domande e le pongo alla politica anzitutto, prescindendo dalle appartenenze. Chiedo: non è più  logico investire per mettere in sicurezza, dal punto di vista sismico, il territorio calabrese e siciliano che molto probabilmente nei prossimi cento anni sarà interessato da un terremoto devastante, risparmiando così vite umane e devastazioni. Basti solo pensare per avere un quadro della fragilità del territorio italiano che la scossa che ha devastato l'Abruzzo è di inferiore di due-tre punti della scala Richter rispetto alle scosse di assestamento che quasi ogni giorno interessano oggi il Giappone. E che i danni causati da una scossa di 6.5 gradi della scala Richter in Giappone sono inferiori ai danni che in Calabria e Sicilia provoca una pioggia torrenziale. E poi, se anche il Ponte resistesse al prossimo Big One cosa collegherebbe se non due città rase al suolo?
E allora cosa suggerirebbe?
Non rimane che una scelta ragionevole: abbandonare l'idea del ponte e investire per mettere in sicurezza il territorio calabrese e siciliano non solo per il rischio sismico, ma anche per quello idrogeologico. Le future generazioni ci ringrazieranno se faremo questa scelta oculata.


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