4 aprile 2011    

I crani dei briganti e quelli dei maori (di Romano Pitaro )


C’è un parallelo dell’orrido tra la Calabria e la Nuova Zelanda, che non trova spazio nei media nazionali ed a cui le Istituzioni italiane oppongono una sorda indifferenza.  Che corre sul filo della storia e che, nonostante i peana dedicati ai diritti umani, resiste al tempo ed alla buona creanza.
Il piccolo comune di Motta Santa Lucia rivuole dal museo antropologico “Cesare Lombroso” di Torino  il cranio del brigante Villella (di cui il sindaco Amedeo Colacino è il pronipote) su cui si è esercitato con lo scalpello il medico veronese.  Stesse richieste vengono da  Eboli  e da poco da  Sonnino (provincia di Latina) che reclama  dal museo “Lombroso” i resti del brigante Gasbarrone.  Mentre i Maori, antico popolo polinesiano della Nuova Zelanda,  diventati popolari  con la famosa squadra di rugby degli All Blacks, rivogliono  dai musei e dalle collezioni private i crani degli indigeni uccisi.  Ampia e frastagliata la storia dei Maori e la sfilza di richieste, autorizzazioni accordate e poi negate, da più Paesi  ( specie  francesi e scozzesi) per la restituzione dei crani variopinti divenuti opere d’arte. 
Sorprendente la sequela dei crani dell’orrido di  Torino, dove sono esposti gli scheletri di un folto numero di briganti meridionali uccisi dalle truppe sabaude. Purtroppo, anche dopo il successo del terzo giubileo dell’Unità, quel museo rimane aperto. A magnificare Lombroso e le sue folli  teorie. Nonostante l’esposto alla procura della Repubblica di Torino e l’appello al Capo dello Stato firmati  dal Comitato ‘No Lombroso’,  il campione della cultura antropologica positivista dell’800, che s’è incaricato - l’ ha ricordato il 17 marzo il professor  Vittorio Cappelli in una lectio magistrale tenuta nell’Aula del Consiglio regionale della Calabria - di cristallizzare in formule psuedoscienitifiche l’identità ‘altra’ del Sud, pretendendo di spiegare il ribellismo, il primitivismo e la stessa povertà economica con la presunta inferiorità biologica dei meridionali”,  è celebrato in Piemonte a spese della collettività.
Sarebbe stato un lungimirante  gesto di pacificazione, se a 150 anni dell’Unità, per dimostrare che la ricorrenza include anche  la parola futuro, lo Stato italiano avesse deciso di accantonare il museo. E  dirne quattro a quel   medico  che scoperchiava crani e teorizzava l’uomo delinquente per nascita. E che, per dimostrare  scempiaggini che non hanno mai avuto fondamento scientifico, è stato per tre mesi anche in Calabria al seguito delle truppe piemontesi.    Si  fucilavano i briganti e Lombroso  raccattava le teste.  Poi se  le portava in laboratorio per dimostrare che un brigante è da sempre.  Un’idea che   applicata anche sui pazzi, gli anarchici e le prostitute ha  amplificato il pregiudizio verso i meridionali riottosi all’Unità perché stolti,  ed oggi in ritardo di sviluppo perché inclini alla crapula.  Roba vomitevole.
Perciò, una  visita al  museo degli orrori può, specie se si  pensa che è stato aperto quasi in coincidenza con il 150mo compleanno dell’Italia, farci interrogare sulla reale intenzione dell’Italia  di riconoscere i torti inflitti al Mezzogiorno e andare avanti, ma  dopo averne riparato qualcuno. 
Il Sud anche durante le celebrazioni del 17 marzo ha dimostrato maturità e compostezza. Ritenendosi parte integrante di questo Stato costituzionale che ha contribuito a far nascere e  da cui   non intende scollarsi, ma vivaddio, qualche Istituzione nazionale osi confrontarsi con il comitato “No Lombroso”.  E almeno  provocare un chiarimento.  La cosa peggiore è l’indifferenza che amplifica il risentimento.  Che potrebbe voler dire:  fate pure, ma per noi Lombroso è  tuttora un esempio da indicare alle nuove generazioni.
 C’è un legame tra la Calabria e la Nuova Zelanda. Ma anche in questo caso, la Calabria (e il Sud) sono messi peggio.  Il legame si gioca tutto su un  numero considerevole di crani che non stanno nel posto in cui dovrebbero essere: i resti orribilmente esposti  dei briganti meridionali  a Torino  e quelli dei “Toi Moko”, i  guerrieri caduti in battaglia in Nuova Zelanda nella resistenza ai coloni inglesi. Se i  Maori intimano: “Quelle  teste  essiccate e decorate con tatuaggi per conservare lo spirito dei capi e dei guerrieri caduti in battaglia debbono rientrare in Nuova Zelanda ed essere seppellite”, le risposte arrivano e si apre un dibattito di cui s’interessano i grandi media. Se i Maori  affermano che i “Toi Moko” non possono restare una curiosità antropologica globalizzata, ma  devono tornare in Nuova Zelanda ed essere trattate da quello che sono, resti di esseri umani”, si mobilitano le diplomazie e la  loro campagna per riportare in patria le teste - iniziata  negli anni ‘70 -  adesso è a una svolta. Prima si erano battuti i  funzionari del Te Papa Tongarewa, il museo nazionale neozelandese, ora è la stessa comunità Maori che coralmente  ingiunge: “niente vetrine, le teste hanno diritto alla sepoltura”.  Invece, alle sollecitazioni politically correct del “Comitato Lombroso” e dei comuni  che invocano   la restituzione dei resti umani dei briganti per darne degna sepoltura,  si oppone un  muro. 
Già in Nuova Zelanda si pensa di costruire, per le teste che rientrano,  un mausoleo comune a Wellington con l' accordo fra le diverse tribù, anche se  i Maori del Nord sostengono che  i “Toi Moko” devono essere sepolti vicino a Te Rerenga Wairua, o capo Reinga, l' estremo settentrione della Nuova Zelanda, “perché è da qui” spiegano “che  gli spiriti dei morti partono verso l' aldilà”.
Le teste dei briganti meridionali, viceversa,  giacciono nelle teche torinesi senza neppure l’onore di una discussione. Eppure quelle teste un posto dove giacere ce l’avrebbero: padre  Loffredo del rione Sanità a Napoli si dice pronto  ad accoglierle nel  cimitero delle Fontanelle.   Ma  evidentemente c’è chi si ostina a pensare  che quei cafoni  hanno colpe da espiare  anche post mortem.  Così la “damnatio memoriae”  la si irroga non a scriteriati come Lombroso,  ma  a chi è nato nel posto sbagliato.  


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