28 marzo 2011    

''La giustizia è una cosa seria'': il libro di Gratteri e Nicaso (di Romano Pitaro )


Lo scontro  fra politica e magistratura va  avanti dall’epilogo  della prima repubblica. Ma oggi,  con l’annuncio della riforma “epocale” , c’è da temere il peggio.   In mezzo  c’è   il  cittadino che, pur non nutrendo fiducia in “questa” giustizia,  sospetta nella  riforma intenti punitivi.  Sono 9 milioni i processi pendenti che danno la misura dello  sfascio  e  1187 i magistrati che mancano.  Ma la  domanda  è:  l’impianto della riforma che rivede 13  articoli della Costituzione, è in grado di ridare  efficienza  alla giustizia?  Viene in aiuto,  a tal proposito,   l’opinione  di un magistrato “ostinato nell’attaccamento alle regole”. Una toga non etichettabile politicamente. Abituato ad esprimersi  con  inchieste  sugli   affari della ‘ndrangheta, che  fattura   50 miliardi  di euro l’anno e   su cui il giudice  Nicola Gratteri e lo scrittore Antonio  Nicaso  hanno scritto migliaia di pagine.   Questa volta,  il nuovo libro del procuratore aggiunto   della Dia di Reggio Calabria  centra  la cronaca.  E diventa parte della virulenta  polemica.  Ma non a favore  del governo o delle toghe, bensì in partibus  infidelium.  Dalla  parte del cittadino, cioè,  che ha diritto ad una giustizia rapida. Il  taglio  pragmatico  della conversazione che Gratteri e Nicaso propongono, balza subito dal  titolo. Se sulla giustizia le definizioni   si sprecano, per Gratteri, invece,  semplicemente “La giustizia è una cosa seria”. Perciò “meriterebbe una riforma non  strillata. Espressione di scelte  concepite nell’interesse di tutti”. Ergo, servirebbe una riforma capace “di risolvere i problemi della lunghezza dei processi, le carenze di organico, il malaffare politico, la riduzione del numero dei tribunali, l’utilizzo della posta elettronica per l’esecuzione delle notifiche, la depenalizzazione dei reati minori per riservare il processo penale alle questioni di maggiore allarme sociale”. Oggi viceversa, spiega Gratteri “si dedica troppo tempo in Parlamento a  legittimare le diseguaglianze con leggi che puniscono più gravemente l’immigrazione clandestina che il falso in bilancio o la corruzioni per atto d’ufficio. Che gli straccioni e i galantuomini siano soggetti a due giustizie rimane il dubbio di sempre. Mentre le mafie si espandono ed investono nelle zone più ricche del Paese.  Pochi denunciano e i politici minimizzano, come se la criminalità organizzata non fosse una questione aperta da 150 anni”.  “Ogni tanto qualche politico finisce in galera”, taglia corto Gratteri “e la magistratura diventa emergenza democratica o peggio una minaccia per lo Stato”. Auspica che  ci sia “un riscatto della politica per evitare la dissoluzione d’un Paese che continua a produrre collusione e corruzione, mafie e cricche”. Della macchina giustizia dice che “a volte sembra  costruita per macinare acqua. Quindici anni fa, per i tre gradi di giudizio trascorrevano in media 8 anni e 10 mesi, oggi ce ne vogliono 9  e mezzo.” Cosa pensa Gratteri del processo breve e dei riti abbreviati?  “Non arrecano benefici al sistema. Sono meccanismi che consentono di accorciare le pene degli imputati, ma non i tempi del processo. Nel processo di mafia il rito abbreviato non serve a nulla. Non velocizza il processo e aiuta i mafiosi ad ottenere pene meno pesanti”. Che fare? “Servono riforme per rendere sconveniente la scelta di vivere da mafiosi”. Non tergiversa sulla separazione delle carriere, che, a suo dire, “rischia di creare superpoliziotti. Non ne abbiamo bisogno, soprattutto se dovranno perseguire i reati indicati dal governo”. E neppure sul Csm: “L’idea del governo è di ridurre la sua autonomia, venendo meno al principio della separazione dei poteri”.  Il libro di Gratteri e Nicaso, può darsi  non sia equidistante. Ma se “l’apoliticità del giudice è un mito”, la conversazione che Mondadori manda in libreria non può essere annoverata tra gli esempi di politicizzazione dei giudici. E’ vero, Gratteri mette in mora il governo. Ricorda il taglio di risorse tra il 2009 ed il 2010 di oltre 2 miliardi di euro, che  per le forze dell’ordine  significa  “volanti senza benzina, caserme senza riscaldamento e straordinari mai pagati”. Suggerisce che “si mettano da parte le scelte episodiche e contingenti dettati dall’esigenza di risolvere situazioni legate a singole vicende processuali”. Ma  non risparmia critiche alle toghe. Specie quando  insinua un dubbio: “Forse la crisi della giustizia in Italia dipende anche da una crisi di ideali. Ne è un esempio la desertificazione delle procure più periferiche, nonostante il governo abbia tentato di risolvere il problema con incentivi economici e di carriera. Forse anche tra  i magistrati si vanno affievolendo le motivazioni, le idealità, la voglia di combattere che, al momento dell’entrata in magistratura, li aveva spinti a mettersi in gioco per il trionfo della giustizia”.  E di seguito: “Sembra che anche il Csm a volte preferisca atteggiamenti di tipo corporativo”, riferendosi all’opportunità concessa ai magistrati di scegliere le sedi più appetibili, lasciando scoperte quelle del Sud. Caustico, inoltre, rispetto al prevalere fra i magistrati “della cultura impiegatizia dell’inamovibilità”. Anche in presenza di un’emergenza nazionale (le mafie) si preferisce svolgere il proprio compito nel modo più comodo. Un  “brivido di solitudine” nelle parole di Gratteri lo avverte  Vittorio Zucconi che firma la   prefazione.  Quando Nicaso gli chiede cosa fare per ridurre la forza della ‘ndrangheta, Gratteri  è lapidario: “Basterebbe fare con semplicità, tutto il contrario di quanto fatto  negli ultimi venti anni, da governi di destra come di sinistra”. Una resa? Se si pensa che ancora tra il sequestro e la confisca di un bene della criminalità intercorrono dieci anni…  Ma è l’impressione di un istante.  Aggiunge  il magistrato  reggino: “Con più uomini e più mezzi, potremmo riuscire ad arrestare gli altri latitanti ed a smantellare i clan”. Nella tempesta di  queste giornate,  le parole di Gratteri consigliano  alla politica ed alla magistratura di non delegittimarsi  reciprocamente.  Sarebbe come segare il ramo su cui entrambi sono seduti.

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