18 marzo 2011    

Senza mitizzazioni nè 'controstoria' (di Vittorio Cappelli *)


In occasione di questo 150° anniversario, in cui si celebra (o si dovrebbe celebrare) solennemente l’Unità d’Italia, occorre ricordare che abbiamo alle spalle altre due grandi ricorrenze celebrative di quest’evento, che conviene richiamare per una breve comparazione.

La prima ricorrenza giubilare fu quella del 1911, cinquant’anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Si era allora al culmine dell’età giolittiana, quando l’“italietta” sabauda si specchiava nel nuovo industrialismo, che prendeva forma e si concentrava nel neonato triangolo Milano-Torino-Genova; e la modernità dei tempi nuovi aleggiava anche altrove, nell’Italia delle cento città. Era la nostra belle époque, che s’accompagnava al  nuovo orgoglio nazionale di un’Italia che, atteggiandosi ormai a potenza, il 29 settembre di quell’anno avrebbe dichiarato guerra all’Impero Ottomano, per procedere alla conquista della Libia.

C’era, in verità, anche un’altra Italia, quella povera e coraggiosa che emigrava all’estero e in specie nelle Americhe: solo nei precedenti cinque anni (1906-10), più di tre milioni di italiani erano espatriati, partendo da ogni angolo della Penisola, dalle Alpi alla Sicilia (nello stesso arco di tempo, i calabresi partecipavano a questa migrazione colossale col ritmo impressionante di quasi cinquantamila partenze all’anno, per un totale di 237.000 emigrati in soli cinque anni). Tuttavia, quest’esodo biblico non incrinava la solennità patriottica della celebrazione di un evento vissuto come un traguardo prezioso e irrinunciabile. Malgrado la forte conflittualità politica e culturale che si manifestava nelle istituzioni e nella società italiana, la percezione diffusa era quella di trovarsi sul crinale di uno slancio moderno verso nuove conquiste economiche, sociali, e infine anche territoriali e coloniali.

La seconda ricorrenza fu quella del 1961, quando si celebrò il centenario dell’Unità nel pieno del boom economico che dava orgoglio e ottimismo ad una Italia ricostruita dalle macerie della guerra e impegnata nella grande trasformazione che ne avrebbe fatto uno dei principali Paesi industriali d’occidente. Nelle case degli italiani entravano televisori, frigoriferi e grammofoni, mentre sulle strade cittadine scorrazzavano vespe, lambrette e utilitarie. La Torino sabauda era divenuta ormai la metropoli dell’automobile, annunciando una più generale mutazione antropologica, che avrebbe fatto dei cittadini italiani un popolo di consumatori.

Anche in questo caso, lo sviluppo economico e il connesso ottimismo coesistevano con una ripresa formidabile dei flussi migratori, diretti di nuovo oltreoceano, ma stavolta soprattutto in Europa e all’interno della stessa Italia, dal sud e dal nord-est verso il triangolo industriale. I costi sociali e umani della modernizzazione erano dunque elevatissimi, mentre si spostavano ulteriormente al Nord, com’era già chiaro agli inizi del secolo, i processi di integrazione sociale e i vettori dello sviluppo. Ma neppure questa volta le dinamiche e i conflitti sociali e politici riuscivano ad offuscare la celebrazione del centenario dell’Italia unita, pur nel quadro di una marcata divisione tra le principali culture politiche del tempo, la liberale, la cattolica e la marxista.

Questa nostra ricorrenza del 2011, la terza, interviene, invece, in uno scenario assai diverso, caratterizzato da una gravissima crisi economica internazionale e dalla crisi strisciante dello Stato-Nazione. Le difficoltà economiche s’intrecciano, infatti, allo storico declino degli Stati nazionali e alla formazione di nuove gerarchie economiche e politiche planetarie. In Italia, in particolare, al senso di smarrimento e alla percezione del declino s’aggiunge il surplus di avere al governo del Paese anche forze politiche ostili all’Unità, che provocano nuove fratture politiche e culturali, rendendo difficilmente praticabili una memoria ed uno spazio pubblico condivisi. Circolano, come sappiamo, sentimenti antimeridionali che tendono a ridurre le complicate questioni del Mezzogiorno d’Italia, della sua storia e del suo presente, ad una pur pervasiva e gravissima questione criminale.

Di fronte a questo scenario, la tentazione più forte, ma anche la più inadeguata e pericolosa, è quella delle risposte reattive e istintive, che si oppongono specularmente al pregiudizio, conducendo irreparabilmente alla semplificazione ideologica. Mi riferisco alle cosiddette “contro storie” del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, che rovesciano come un guanto l’antimeridionalismo nel suo contrario, esaltando un fantomatico, favoloso e immaginifico Sud, sempre buono e virtuoso, che viene sistematicamente oppresso, violato e stuprato dai conquistatori del Nord. È questo, ad esempio, il refrain di Terroni, il libro del giornalista Pino Aprile, che, dando espressione ad emozioni e sentimenti diffusi, ha ottenuto nei mesi scorsi uno strepitoso successo commerciale, promettendo di rivelare le verità nascoste da una non meglio identificata “storiografia ufficiale”, e annunciando pomposamente di pronunciare ciò “che ancor oggi si tace nei libri di storia”, come si legge nella quarta di copertina.

È evidente in queste operazioni editoriali, oltre che il desiderio di far cassa mediante il clamore pubblicitario, il tentativo di opporre una risposta politico-culturale alla riproposizione di vecchi teoremi razzisti. Ma la strumentazione analitica è assolutamente fragile e retorica, essendo costruita su una narrazione semplificata, simmetrica e addirittura speculare a quella che si vuol contestare. Insomma, al luogo comune di un Sud borbonico visto come la summa di tutte le arretratezze e il ricettacolo d’ogni nefandezza possibile, si tenta di contrapporre l’immagine fantasiosa di un luminoso e felice Eldorado borbonico, frantumato e devastato da una conquista piemontese, che viene rappresentata grottescamente come una sorta di stravagante e minaccioso complotto massonico.

In entrambi i casi, abbiamo a che fare con costruzioni ideologiche che inventano immagini e narrazioni lineari, semplici e coerenti, ma che hanno il difetto di avere poco a che fare con la realtà. Se per un verso, infatti, gli standard economici e sociali del Sud borbonico non differivano sostanzialmente da quelli del Nord preunitario, le rappresentazioni oleografiche del Regno delle Due Sicilie sono davvero delle creature fantastiche. Lo sapevano bene non soltanto i viaggiatori stranieri più attenti che prolungavano l’itinerario del Grand Tour fino all’estremo sud della Penisola, forzando e tenendo in non cale i pregiudizi dei napoletani che sconsigliavano vivamente di visitare quelle province “selvagge”, assai lontane dalla capitale. Ne erano assolutamente convinti anche gli illuministi settecenteschi che indagavano, dall’interno, la realtà del Regno. Essi conoscevano bene – per rimanere alla Calabria – le Ferriere di Mongiana nelle Serre, sempre citatissime da chi fantastica su antiche felicità e perdute agiatezze, ma conoscevano altrettanto bene il quadro desolante di una Calabria senza strade, corrotta, violenta e analfabeta, senza giustizia, angariata dai baroni e dimenticata dalle autorità centrali; una Calabria dove le antiche industrie della seta declinavano irreparabilmente e l’olio d’oliva scadente e rancido veniva esportato per lubrificare le macchine delle industrie inglesi e per ‘tagliare’ il sapone di Marsiglia.

Va detto, peraltro, che le semplificazioni ideologiche correnti si nutrono non solo di mitografie a buon mercato – che si spingono indietro nel tempo, nostalgicamente, sino agli splendori delle città della Magna Grecia –, ma poggiano pure su elementi problematici reali e importanti, anche se noti da sempre alla ricerca storica. Si pensi allo scarso peso e talora all’ostilità delle masse contadine nel corso del processo risorgimentale; alla “conquista regia” che conclude con una rapida forzatura militare quel processo, iniziato, peraltro, da più di settant’anni con le rivoluzioni di fine Settecento; si pensi, inoltre, alla sconfitta dell’opzione federalista e alla scelta centralista del nuovo Stato unitario. Sono temi sui quali si riflette e si studia da un’infinità di tempo. Dove sarebbero, dunque, le pretese novità?

Si pensi, infine, al brigantaggio meridionale, la questione più frequentemente esibita e sventolata, in vista di queste celebrazioni, dalle “contro storie” oggi in voga e più in generale dai media. Chiunque abbia frequentato questo argomento e abbia un minimo di confidenza con gli studi innumerevoli che l’hanno esaminato, sa che non si è trattato di un’improvvisa esplosione antipiemontese, ma di un drammatico inasprimento di un endemico problema sociale del Mezzogiorno d’Italia, col quale – senza andare troppo indietro nei secoli – hanno dovuto fare i conti i Francesi durante il decennio napoleonico (1806-15), gli stessi Borboni dopo la Restaurazione e infine il nuovo Stato unitario dopo il ’61.

Dire oggi che una fantomatica “storia ufficiale” abbia trascurato o nascosto la drammaticità e il peso di questo fenomeno è una sonora sciocchezza. Va ricordato, piuttosto, che su questa violenza endemica si è costruita l’immagine del Sud, e in specie della Calabria, come terra selvaggia e covo di ribelli, primitivi e feroci. Un’immagine che circolava in tutta Europa, accarezzata e amplificata agli inizi dell’Ottocento dalla cultura romantica.  “L’Europa finisce a Napoli, e anche assai male” – scriveva il letterato parigino Creuzé de Lesser dopo un viaggio in Italia – “La Calabria, la Sicilia, tutto il resto appartiene all’Africa” (1806). Partendo da queste premesse, verso la fine dell’Ottocento, la cultura e l’antropologia positiviste, si sarebbero incaricate di cristallizzare in formule pseudoscientifiche quest’identità ‘altra’ del Sud, pretendendo di spiegare il ribellismo, il primitivismo e la stessa povertà economica con la presunta inferiorità biologica dei meridionali.

L’Ottocento, dunque, ha consegnato il Sud (e con particolare accentuazione la Calabria), all’opinione pubblica europea e dell’Italia cosiddetta ‘civile’, descrivendolo uniformemente come una periferia estrema della civiltà, degna dell’epiteto: “la nostra Africa”. Ma, in realtà, il brigantaggio postunitario, che sembrava confermare questo stereotipo e consentiva di “giustificare” la spietatezza della risposta militare, oscurava una realtà molto più ricca e complicata. Infatti, nella prima metà dell’Ottocento, erano venuti alla luce profondi processi di trasformazione: giovani ufficiali e funzionari, notabili di piccola e media caratura, professionisti (avvocati e medici), persino uomini di chiesa, emergevano come espressione di una più articolata borghesia agraria, cresciuta burrascosamente con le privatizzazioni dopo l’abolizione della feudalità (1806), ed entravano in contatto col liberalismo e col mazzinianesimo, diventando protagonisti dei moti risorgimentali.

Basterebbe pensare, a questo proposito, a quella ricca costellazione di intellettuali ed uomini politici di origine arbëreshe, educati in genere nel Collegio di Sant’Adriano, a San Demetrio Corone: dal democratico  e romantico  Domenico Mauro al letterato Girolamo De Rada, dal cattolico liberale Cesare Marini al mazziniano, poi socialista, Attanasio Dramis. Basterebbe ricordare i “Cinque Martiri” di Gerace che nel 1847, sull’onda dell’insurrezione di Reggio del 2 settembre, avevano anticipato i moti rivoluzionari che l’anno successivo sarebbero esplosi nel resto d’Italia e d’Europa; oppure il colonnello garibaldino Giuseppe Pace, a capo dei volontari calabresi nella battaglia del Volturno, ch’era stato condannato a morte dai Borboni nel ’48 e poi per “clemenza” era stato esiliato negli Stati Uniti.

Il sacrificio di questi uomini, che affrontarono spavaldamente persecuzioni, carcere, esilio e morte, da un lato mostra la piena partecipazione della Calabria al processo risorgimentale, confermando e rinnovando – stavolta in veste politica e non sotto le spoglie del ribellismo sociale –  il mito del calabrese fiero, indomito e orgoglioso; ma dall’altro lato segnala il drammatico isolamento delle loro imprese generose. Questi giovani rivoluzionari – per dirla con Domenico Mauro, condannato alla pena capitale ed esule a Torino – spesso si aggiravano come stranieri in mezzo al popolo dei loro padri. In ciascuno di essi, il più delle volte, è netta la percezione della solitudine, che ne fa per l’appunto degli eroi solitari.

Nessuno di essi, tuttavia, ha trovato posto nell’album degli eroi del Risorgimento. Eppure soprattutto a loro occorrerebbe pensare, per restituirli alla memoria delle giovani generazioni, piuttosto che alla spedizione dei fratelli Bandiera o al rapido  passaggio di Garibaldi, che, sbarcato a Melito Porto Salvo il 20 agosto 1860 con ventimila uomini, già il 1° di settembre, senza aver incontrato alcuna resistenza, salutava la Calabria, dirigendosi da Castrovillari a Sapri.

Il giorno prima, il 31 agosto, il nostro condottiero aveva formalizzato politicamente, a Rogliano, la sua impresa militare, fino a quel punto assai semplice, con i celebri decreti che abolivano la tassa sul macinato, dimezzavano quella sul sale e concedevano ai contadini gli usi civici, ossia l’esercizio gratuito del pascolo e della semina sulle terre demaniali della Sila.  Ma, dopo aver assegnato il governo provvisorio della Calabria Citeriore al possidente Donato Morelli, Garibaldi lascerà la regione. E tutto tornerà come prima.

Dopo pochi giorni, Morelli sospenderà i decreti garibaldini e, messosi alla testa dei principali esponenti della grande proprietà terriera silano-crotonese, l’anno successivo sarà eletto deputato al Parlamento assieme ai baroni Barracco, Compagna e Gallucci, cui si uniranno gli esponenti di solide dinastie familiari come gli Sprovieri, i Plutino e gli Stocco.

Per eleggere ciascuno di questi deputati, col suffragio censitario del 1861, basteranno tra i due e i trecento voti. Sicché elettori ed eletti apparterranno al medesimo orizzonte sociale e culturale, dominato da pochi ceppi familiari di una possidenza rurale aristocratico-borghese, che gestirà le cariche politiche come una sorta di affare di famiglia. Sarà così per molto tempo, mentre la leva obbligatoria e le tasse alimenteranno il brigantaggio, sulle cui ceneri poi si avvierà un processo di trasformazione, che porterà molto a lungo le stimmate originarie della diffidenza e della sfiducia nel potere pubblico del nuovo Stato unitario.

Tuttavia i processi di trasformazione dopo l’Unità si renderanno rapidamente visibili. Già negli anni Settanta dell’Ottocento si realizza la prima linea ferroviaria, quella jonica, cui seguirà a fine secolo la linea tirrenica. Entrambe iniziano a sottrarre la regione al suo antico isolamento, avviando lo slittamento graduale verso le pianure e le cimose costiere, e destrutturando così la millenaria dislocazione della popolazione sulle aree interne del territorio regionale. Ma procederà molto a rilento la connessione infrastrutturale tra i microcosmi reciprocamente isolati del territorio calabrese; mentre si apriranno larghissime vie di fuga verso l’esterno con l’emigrazione di massa verso le Americhe. Sicché la Calabria entra nella modernità connettendosi all’Italia e al mondo, ma senza spezzare l’isolamento interno dei suoi mille villaggi alpestri.

Per concludere, il marchio di nascita dell’unificazione è per il Sud certamente la lontananza di uno Stato visto come oppressore, che si riassume per la popolazione rurale nelle immagini della lucerna dei carabinieri e dell’agente delle tasse.  Uno Stato che ruba i figli alla terra e alle famiglie con una lunghissima leva obbligatoria e che spinge ad emigrare in luoghi lontanissimi. Ma quando quello stesso Stato intensificherà la sua presenza, l’integrazione col resto del Paese s’accompagnerà ad un meccanismo perverso di dipendenza economica e di soggezione sociale, nutrito dal clientelismo politico. L’approdo sarà una rinnovata sfiducia nelle istituzioni, di cui profitteranno, purtroppo, non tanto le proteste sociali, quanto la criminalità organizzata e l’illegalità diffusa.

Quest’ultimo è il grave problema con cui fare i conti oggi, senza dimenticare però che le grandi trasformazioni dell’ultimo mezzo secolo hanno cambiato molecolarmente la Calabria, migliorando anche, indubitabilmente, il benessere collettivo. Malgrado le distorsioni della dipendenza e le caratteristiche e i limiti di un percorso di modernizzazione passiva, anche la Calabria è stata, insomma, pienamente partecipe del più generale processo di modernizzazione che ha preso il nome nel XX secolo di “miracolo italiano”, garantendo ai cittadini standard civili di vita incomparabili con quelli del passato rurale e feudale.

Con la consapevolezza della straordinaria complessità di questi percorsi, è oggi opportuno celebrare, senza orpelli retorici, anche in Calabria, l’Unità d’Italia, prendendo le distanze dall’autodenigrazione, dalla rassegnazione, dal vittimismo e cercando di nuovo di guardare al futuro
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* professore associato di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Economia dell'Università della Calabria
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