18 marzo 2011    

Tanti i calabresi che fecero l'Italia (di Ferdinando Cordova *)


Il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II proclamava la nascita dello Stato nazionale, assumendo, per sé e per i suoi successori, il titolo di Re d’Italia. Noi siamo qui riuniti, oggi, per celebrare quell’evento, che dava finalmente una patria comune agli abitanti della nostra penisola.
Dobbiamo quindi, innanzitutto, domandarci attraverso quali vicende, nel giro di pochi decenni, l’idea del Risorgimento nazionale aveva preso corpo, per diventare sangue e passione di un popolo. Non erano, certo, mancate, a partire dal XIV secolo, aspirazioni politiche alla costruzione di una casa comune. Molti di voi ricorderanno il canto sesto del Purgatorio dantesco, in cui a Sordello, che chiedeva notizie della sua terra, il poeta rispondeva, commiserando le condizioni della penisola, lasciata in balia di lotte partigiane, con la celebre invettiva:“Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza nocchiero in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello!”
Ed aggiungeva:“e ora in te non stanno senza guerra/li vivi tuoi , e l’un l’altro si rode/di quei ch’ un muro e una fossa serra./Cerca, misera, intorno da le prode/le tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna/parte in te di pace gode”.
Qualche decennio più tardi, Francesco Petrarca lamentava, in una sua celebre canzone, le condizioni della penisola. Ricordate?
“Italia mia, benché il parlar sia indarno/A le piaghe mortali/Che nel bel corpo tuo si spesse veggio, /piacemi almen che ‘miei sospir’ sian quali/spera ‘l Tevere et l’Arno,/e ‘l Po, dove doglioso e grave or seggio”.
E innalzava la sua preghiera a Dio, perché ponesse fine a questa servitù.
“Rettor del cielo, io cheggio/Che la pietà che ti condusse in terra/Ti volga al tuo diletto almo paese. /Vedi, Segnor cortese,/di che lievi cagion’ che crudel guerra;/e i cor’ che ‘ndura e serra/ Marte superbo e fero,/ apri tu, Padre, e ‘ntenerisci e snoda”.
Nel Cinquecento, infine, Niccolò Machiavelli, nell’ultimo capitolo della sua opera Il Principe, rivolgeva una esortazione a Lorenzo il Magnifico, duca di Urbino, perché creasse un’armata nazionale per liberare l’Italia dalle mani dei barbari.
Erano queste, tuttavia, aspirazioni, che appartenevano alla tradizione letteraria e che riguardavano una minoranza di colti, in un Paese in cui, invece, la maggioranza degli abitanti parlava solo il dialetto e faceva fatica ad intendersi con i residenti nel territorio vicino.
Era necessario, quindi, un evento ed un clima che desse contenuto politico a tali aspettative e l’evento fu la Rivoluzione francese del 1789, che, spazzando l’assolutismo regio, riconobbe il diritto di un popolo, inteso quale collettività, formata da individui uniti da tratti comuni, di esprimersi politicamente in uno Stato.
Dapprima il triennio repubblicano, fra il 1796 e il 1799, e, subito dopo, il decennio napoleonico sconvolsero la geografia politica della nostra penisola. Non solo, il 7 gennaio del 1797 il tricolore venne adottato come bandiera della repubblica Cispadana, ma, al posto dei tanti stati, fino ad allora in gara fra di loro, il territorio continentale del nostro Paese risultò diviso in quattro tronconi:
una parte, che comprendeva il Piemonte, la Liguria, la Toscana, Parma e lo Stato Pontificio, annessa direttamente alla Francia;
il centro nord, dallo Stato di Milano all’Emilia, alle Romagne ed alle Marche, riunito, nel 1805, nel Regno d’Italia, di cui era sovrano Napoleone e vicerè Eugenio Beauharnais, figlio di primo letto della moglie Giuseppina;
il Mezzogiorno a formare, nel 1806, il Regno di Napoli, con sovrano, fino al 1808, il fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte, e, in seguito, Gioacchino Murat
e, infine, la repubblica di Lucca, trasformata in principato autonomo per Elisa Bonaparte.
Non era ancora la patria comune, perché i francesi, malgrado i principi illuministici della rivoluzione, consideravano, le nostre, terra di conquista per la sussistenza del loro esercito; e da ciò la delusione di alcuni patrioti, come Foscolo, ma, per la prima volta, la penisola aveva istituzioni e leggi omogenee. Gli organi locali furono divisi in comuni, circondari, distretti e dipartimenti e, a capo di questi ultimi, c’era un prefetto nel Regno d’Italia e un intendente in quello di Napoli, nominati dal governo centrale e che, a loro volta, selezionavano il personale e trasmettevano le direttive, provenienti dall’alto; le istituzioni giudiziarie furono anch’esse articolate in tre livelli, dai tribunali di primo grado alla corte di appello, fino alla Cassazione e, in ciascuno di essi, vennero usati i medesimi codici, tradotti da quelli francesi; il sistema fiscale fu diviso in quattro grandi imposte: la fondiaria, che tassava i beni immobili ed era basata sui catasti, i quali vennero riordinati o costituiti; là dove mancavano, l’imposta di ricchezza mobile, che colpiva il reddito; la patente, per i commerci e le professioni libere, e l’imposta di registro sui contratti e le successioni.
Anche l’esercito venne formato sulla base della coscrizione obbligatoria.
Nel Regno di Napoli, infine, vennero eliminate le giurisdizioni feudali e soprattutto, con la legge del 1 settembre 1806, si limitò la grande proprietà e si tentò di dar vita alla media e piccola, cercando di venire incontro al secolare desiderio di terra dei contadini.
Tutte queste riforme misero in moto un meccanismo notevole di mobilità sociale. Molti giovani intellettuali trovarono possibilità di lavoro e di carriera nelle burocrazie centrali e periferiche, che erano in espansione. Imprenditori, commercianti e finanzieri o proprietari colsero l’occasione della vendita dei beni ecclesiastici per costituire o allargare il proprio patrimonio terriero, che diventava, così, la base per una maggiore ascesa sociale dei loro figli. Si formò, in sostanza, una media borghesia che, quando nel 1815, con la caduta di Napoleone e con il Congresso di Vienna, ritornarono i sovrani legittimi, chiese di partecipare alla gestione del potere politico. Si trattava di militari, in genere ex ufficiali e soldati, veterani delle campagne napoleoniche, e di giovani studenti, liberi professionisti, commercianti, artigiani e possidenti, uniti dalla prospettiva di ottenere forme di governo costituzionale, che si ritrovarono nella Carboneria ed animarono le rivoluzioni dell’Ottocento,
A partire dalla primavera del 1931, inoltre, Giuseppe Mazzini diede vita alla “Giovane Italia”, un’associazione nuova, con un progetto repubblicano, nazionale, unitario e provvista di un programma, che veniva diffuso attraverso opuscoli, giornali, fogli volanti, il quale recava, nel suo primo articolo, la richiesta di un’Italia, “Una, indipendente e sovrana”.
Fra il 1815 ed il 1847, infine, il sentimento nazionale crebbe e si irrobustì, grazie alla fervida attività di una generazione di artisti, i quali, con opere di vario genere – dalla poesia, al romanzo, alla pittura – a cui faceva da colonna sonora la musica dei melodrammi di Giuseppe Verdi, elaborarono e resero popolare il mito della nazione italiana. E proprio nel 1847, il genovese Goffredo Mameli compose i versi del suo inno, musicato da un altro giovane patriota, suo concittadino, Michele Novaro, che diceva, fra l’altro: “Noi fummo da secoli/calpesti, derisi,/perché non siam popolo,/perché siam divisi./Raccoltaci un’unica/Bandiera, una speme:/di fonderci insieme/già l’ora suonò”.
Non mancò anche il contributo di pensatori cattolici, il più noto dei quali, Vincenzo Gioberti, ipotizzò la possibilità di una confederazione di stati, con a capo il Pontefice, fino a quando, nel 1848, la prima guerra di indipendenza dimostrò impossibile tale soluzione ed indicò nel Piemonte l’unico stato della penisola, che mantenesse la costituzione concessa, ponendosi a riferimento delle aspirazioni nazionali.
L’unità d’Italia, come è noto, fu poi raggiunta in due anni, il 1859 ed il 1860, grazie all’abilità diplomatica del conte Camillo Benso di Cavour, che seppe approfittare delle favorevoli circostanze internazionali, e di quella militare di Garibaldi, il quale sconfisse, alla testa di una schiera di volontari, un esercito ben altrimenti agguerrito.
E qui c’è da domandarsi quale fu il contributo dei calabresi al movimento di unità nazionale. Certo non mancarono, nella nostra regione, i cospiratori. Fino alla rivoluzione del 1820, giovani possidenti e borghesi si ritrovarono nelle file della Carboneria, per ottenere, nel Regno delle Due Sicilie, una monarchia costituzionale. A partire dagli anni Trenta, l’orizzonte si allargò, anche perché molti uscirono, per motivi politici, dai confini della regione, e si arricchì dei termini del dibattito nazionale: Italia, democrazia, repubblica. La Calabria, nell’immaginario collettivo di quegli anni, apparve terra di ribelli sociali e politici, sul modello degli eroi romantici di Byron e di Schiller, pronti ad appoggiare qualsiasi movimento rivoluzionario. Tra il 1830 ed il 1849, non mancarono i calabresi che si recarono a combattere per l’indipendenza di nazionalità oppresse, come Saverio Altimari e Raffaele Poerio, in Grecia, o che furono presenti sui campi in cui ci si batteva per un principio di libertà e di democrazia., come Gugliemo Pepe, Francesco Sprovieri e Carlo Putortì nel 1848 a Venezia, dove morì un altro calabrese, il poeta Alessandro Poerio, oppure Benedetto Musolino, Giovanni Nicotera, Antonino Plutino, Domenico Mauro, accorsi in difesa della Repubblica Romana.
Questi stessi nomi, assieme ai Compagna di Cosenza, ai Barracco di Cotrone, ai Morelli di Rogliano, agli Stocco di Nicastro, ai Fagiani di Maida, agli Angherà di Briatico, per ricordare i più noti, ricorrono, variamente intrecciati, nelle vicende calabresi del Risorgimento. È stato detto che non furono più di 200 le famiglie, le quali fecero o pagarono la rivoluzione, come minoranze, in grado di armare e guidare amici, parenti, clienti, con l’ottica di una partecipazione politica attiva e rilevante nel nuovo che avanzava e con l’occhio rivolto alla difesa delle proprie terre dalle pretese dei contadini.
Accanto a loro, i diseredati delle campagne, che seguirono Garibaldi nella speranza di ottenere giustizia sociale. “Dite al mondo – proclamò il generale, dopo la vittoria di Soveria Mannelli, destinata a spianargli, il 30 agosto del 1860, la strada per Napoli – che ieri coi miei prodi calabresi feci abbassare le armi ai diecimila soldati comandati dal generale Ghio”.
Quando la speranza venne delusa, i contadini si diedero al brigantaggio, volto tradizionale della ribellione sociale nella regione, contro cui lo stato italiano avrebbe mobilitato da lì a poco, con la legge Pica, più di centomila soldati. Era la rivelazione d’una “questione meridionale”, che la libertà, da sola, non poteva risolvere e che avrebbe gravato sul destino del Paese.
Oggi si dice che se il problema tuttora persiste, malgrado i mezzi impegnati in centocinquanta anni per risolverlo, la colpa è delle classi dirigenti meridionali, incapaci e corrotte. Non sta a me approntare difese di ufficio per responsabilità che pure ci sono, ma forse non è inutile ricordare che, agli inizi del Novecento, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, nato a Dronero, usava i prefetti, i quali facevano ricorso ai mazzieri, per sostenere, nelle elezioni politiche, i candidati del governo e scoraggiare gli avversari. Forse vale la pena di ricordare che, dopo la seconda guerra mondiale, un noto statista, la cui lungimiranza è stata a lunga apprezzata nel nostro Paese, aveva a capo della sua corrente di partito, in Sicilia, un uomo, condannato in seguito come mafioso dai tribunali della Repubblica e che, nel 1992, l’inchiesta “Mani Pulite” ebbe inizio dal Pio Albergo Trivulzio, che si trova a Milano, dove un certo Mario Chiesa venne sorpreso ed arrestato, dalle forze di polizia, mentre tentava invano di liberarsi di alcune “mazzette”, buttando milioni di lire nel gabinetto.
Forse vale la pena di ricordare ancora che, a partire dal 1876, centinaia di migliaia di meridionali, i quali sapevano appena esprimersi in italiano, valicarono le montagne e traversarono gli oceani per cercare migliori condizioni di vita e sostennero, con le loro rimesse, il bilancio dello Stato e che i loro nipoti, alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, emigrarono nel Settentrione d’Italia - dove, con il loro lavoro, permisero la ripresa industriale - accolti spesso da cartelli, in cui era scritto: “In questo bar è vietato l’ingresso ai cani ed ai meridionali”, oppure: “Non si affittano appartamenti ai meridionali”.
Forse è il caso di ricordare che diecine di migliaia di meridionali sono morti nel corso di due guerre mondiali, in cui era impegnato il nostro Paese, a volte senza neanche capire bene il motivo dei conflitti, ma consapevoli di una comune appartenenza e responsabilità.
Infine, forse è ancora il caso di ricordare che magistrati come Chinnici, Falcone, Borsellino, Scopelliti, Livatino, di sicuro meridionali, hanno perso la vita per la difesa dello Stato di tutti gli italiani
Oggi si dice: federalismo; e ben venga, dunque! Ma sono preoccupato quando sento il presidente della regione Alto Adige affermare che egli si ritiene austriaco e prigioniero dell’Italia e quando autorevoli esponenti di un partito di maggioranza di governo rifiutano di partecipare alle celebrazioni dell’Unità, affermano che l’Abruzzo terremotato è un peso per il Paese e negano ogni solidarietà tra regioni, in nome della crisi economica e di un sano egoismo. Perché questo a me sembra il senso della giornata e del tempo che stiamo qui trascorrendo: non può esserci una parte che si salva ed un’altra lasciata al proprio, amaro, destino. Non può esserci Italia dove non c’è un futuro condiviso.

* ordinario di Storia Contemporanea presso l'Università La Sapienza di Roma
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