5 gennaio 2011    

Filandari: progettare il rilancio delle aree interne (di Romano Pitaro )


C’è un fantasma che s’aggira per questo Sud miserando. E Filandari ne è parte a tutti gli effetti. Quasi si materializza, ogni volta che si esprime stupore per alluvioni, smottamenti, disastri.  E’ il cadavere delle aree interne del Sud per la cui salvezza nessuno muove più un dito. Di colpo, dinanzi al massacro di cinque persone, ci si scandalizza. Ma tranquilli, l’agitazione è buona per qualche articolo che evoca leggi della montagna, la rabbia delle fiumare o il destino cinico e baro; dura un paio di giorni e poi evapora. Alla prossima strage si farà meno rumore; e se gli assassinati saranno meno di cinque, i grandi giornali neppure ne daranno notizia. Funziona così. E’ il Paese globalizzato e incarognito. Ognuno pensi a sé, e i più deboli marciscano. Ho letto analisi surreali su Filandari. La chiave di lettura, però, è un’altra: lo Stato italiano, che compie 150 anni, nel profondo Sud ha fallito. Al punto che unirsi ai festeggiamenti, per questa parte di Mezzogiorno tradito, sarebbe come far festa al proprio funerale.  Filandari è solo un caso. L’entroterra calabrese è Filandari. E c’è di peggio, se lo sguardo buca la superficie.

Se uno ci capita di questi tempi nel tardo pomeriggio nei  “paesi ombra”  della Calabria, su cui ha sfornato analisi straordinarie l’antropologo Vito Teti, non vedrà  i  detriti  di case, forni, chiese, piazze, ma un paesaggio d’oltretomba: strade senza vita, l’assenza di rumore che non è silenzio. Non un soffio di fiato umano. Il discorso pubblico è congelato.  Imperversano solitudini cupe, che covano rancore sociale  per una modernità che è l’ennesimo nemico sceso a depredare. I savoiardi mostravano le teste dei briganti esposte per giorni al pubblico ludibrio, l’economia globale fa venire in mente il Nulla che avanza e distrugge ogni cosa in assenza di qualsiasi intervento dello Stato finalizzato a rimuovere ostacoli atavici o a costruire infrastrutture di civiltà (chi ricorda più, per esempio, che la Trasversale delle Serre è un’idea del 1963 e che  di 53 chilometri di cui consta  l’Anas ne ha completati appena otto?) 

Se la collina e la montagna sono l’osso abbandonato, i guai si scaraventano anche sulla “polpa” delle coste: il mare sporco, le frane. E a volte la rabbia trabocca per un nonnulla e diventa strage a sangue freddo che spaventa l’Italia, pronta a rimuoverne le cause ricorrendo ai soliti pregiudizi sui calabresi bifolchi e pronti all’ira. D’altronde, anche i luoghi muoiono. Ciò che continua a vivere sono i ricordi di ciò che è stato. Oggi, purtroppo, manca qualsiasi teoria, ideologia, senso comune, progetto politico e culturale, che includa la rinascita delle aree interne calabresi. Un caso a sé che esigerebbe misure nazionali dal forte impatto, prima che tutto diventi deserto, ‘ndrangheta e speculazione ai danni dell’ambiente. E’  tempo, se si volesse riprendere l’impegno, non più di analisi affidate agli eroi plasmati dai media, ma per andare oltre la possibilità di sostenere che vivo è anche ciò che non palpita. Se si avverte il fetore di morte   tra i borghi solitari di gran parte della Calabria dove lo sguardo dell’opulenza nordica neppure arriva, piuttosto un allarme bisogna lanciarlo. Forte e secco. Non per salvare le tante Cleto della Calabria a cui mirava il dibattito aperto dal Quotidiano tre  anni fa.  Quella è una fase superata, una battaglia  perduta. Nel frattempo, infatti,  molti sindaci hanno lasciato, altri vivono minacciati, la resistenza dei piccoli comuni è franata. Un allarme, invece, che serva a  far accorrere i  becchini,  ed evitare che dalla decomposizione dei cadaveri si sprigionino altri  veleni.  Si prenda atto, in sostanza,  di una morte annunciata, pubblicizzata, che è pronta a generare altre morti e catastrofi. Si prenda atto del decesso di intere comunità e si dica, chiaro e tondo, che  nelle zone della Calabria interna lo Stato ha rinunciato alla sovranità. Esistenze costrette all’immobilismo: è la sola umanità che resiste in quelle zone. Anime in cerca di un senso, dialogo pubblico che ristagna; tristezza negli occhi dei giovani che decidono d’emigrare e che si  tramuta in angoscia quando la partenza è impossibile: non è più come un tempo, quando la manodopera faceva gola allo sviluppo del Nord ed adesso, invece, non c’è un buco dove andare a sbarcare il lunario. L’emigrazione dei secoli scorsi era una manna per il Sud e l’Italia, quella di oggi non ha neppure la dignità di una teorizzazione. Si va via e basta. Ognuno per sé; o ci si intruppa nei clan della mafia o si parte; o si accetta di vedere la propria esistenza appassire o si fugge senza che nessuno si ricordi di te. Questa è la Calabria solitaria,  nascosta nei boschi e fuori dal teatrino della politica e del dibattito culturale nazionale. E’  morta o sta per tirare le cuoia. 

Ha stupendi scenari incontaminati e vaste foreste ricche di flora e fauna, ma ha perso il contatto con il resto del mondo.  Si tratta di spazi vicini alle città,  ma scansati da ogni palcoscenico, dimenticati dalle Istituzioni nazionali.  Non chiede più aiuto questa Calabria appartata,  perché non crede più. Perciò si macera ed esplode con violenza disumana. La radice antica del fatalismo accompagna il  gesto dissacratore.  Lembi di terra e di società mortificati dall’assenza dello Stato.  Uomini e donne che, in un certo frangente, hanno pure  creduto di poter cambiare il mondo (chi non ricorda le lotte per la terra e per le case dopo le alluvioni  di Fabrizia e  Nardodipace che hanno coinciso la voglia di riscatto sociale della Calabria?).

Il discorso da farsi è lungo. Ma non è il caso di tornare sul già detto. La  riflessione non può  indulgere sulla tiritera dell’abbandono, perché siamo ben oltre. E, viste le ristrettezze del bilancio dello Stato, i tagli al welfare, la crisi finanziaria mondiale, l’incredibile abbandono delle aree interne considerate una dannazione, non c’è neppure la speranza di un miracolo che ridia una chance di vita a piazze svuotate,  edifici cadenti, campagne inselvatichite  e montagne senza più il lavoro dell’uomo.

Finalmente, se residua un granello di lucidità nella classe politica e nella società calabrese, ci si chieda, cosa si può fare. Adesso. Da dove, subito, incominciare un intervento di rianimazione. Magari si pensi ad una ricognizione dei luoghi. Da quanto tempo lo Stato con i suoi esponenti di spicco non ci mette piede? Forse dall’alluvione degli anni Cinquanta. Naturalmente la maledizione per le aree interne è antica,  neanche ad Einaudi riuscì di risolvere alcunché, se qualche tempo dopo quel Presidente della Repubblica  scrisse al capo del Governo De Gasperi: “Mi chiedo che paese sia il nostro, se nel 1951 si scrivevano cose che ancora oggi non trovano nessun tipo di attuazione. Ci rassegneremo ancora una volta? Dimenticheremo, di fronte all’urgenza di sempre nuovi problemi pressanti, che il problema massimo dell’Italia agricola è la difesa, la conservazione e la ricostruzione del suolo del nostro Paese contro la progressiva distruzione che lo minaccia”. 

“La Calabria - ha spiegato Vito Teti -  senza i paesi dell’interno,  dove si è svolta la sua storia, la sua vita economica, religiosa e spirituale, perderebbe l’anima, ma anche la speranza del futuro. Senza la tutela, la salvaguardia, il recupero, la valorizzazione, in maniera innovativa, dei paesaggi, dei prodotti, delle emergenze architettoniche delle zone montane, delle colline, dei piccoli centri la Calabria sarebbe ben poca cosa. Il mare, le coste, sempre più congestionate, affollate un mese all’anno, vuote d’inverno, il turismo, la produzione culturale sono strettamente legate al destino della zona interne”.

Signori, ci siamo. I paesi dell’interno sono abbattuti. Tra non molto saranno  terra senza popolo, essendo disastrosi i crolli demografici che di tanto in tanto l’ostinata  Lega delle Autonomie rispolvera con i suoi inascoltati “Report” .   Filandari questo dice, siamo a uno stadio che ha oltrepassato  le  preziose analisi degli antropologici. Possiamo fregarcene,  seguitare con gli  impegni illusori, ma dobbiamo essere consapevoli che  il “male di vivere” di  quel mondo sconsolato, segnato da miserie e dolori inenarrabili, esacerbato e privato di ruolo e storia, non può che riservare incubo e rabbia.

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