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15 dicembre 2010
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La Calabria si stringe intorno ai sette ciclisti (di Romano Pitaro )
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Una domenica di morte. Che, per la terribilità dell’evento, è subito diventata tragedia pubblica. Perciò la Calabria, che sul groppone ha una sequela di calamità, non scorderà mai la tragedia dei ciclisti falciati domenica 5 dicembre sulla Statale 18. E’ esploso, dalle 9 del mattino di quel giorno, un dolore quasi insopportabile per una città sola. Sette famiglie piangono i loro cari, uccisi mentre pedalavano. Adeguavano il respiro allo sforzo muscolare, negli occhi i pensieri più strani, non pensavano alla morte. Sono svaniti in un fiat, o trapassati in un altrove che non sappiamo. E’ vero, le sette famiglie non sono sole: hanno la solidarietà di un’intera città che si stringe con affetto intorno a mogli, madri, padri, figli, , amici intimi. Hanno accanto una regione intera che si ferma per dare l’ultimo arrivederci ai sette ciclisti. Ma abbiamo imparato che si è soli, quando il dolore è sconfinato e non ha senso. Quando il dolore non lascia trapelare una spiegazione, il passo si ferma, la mano non stringe e gli occhi diventano lacrime. Non c’è consolazione a cui aggrapparsi, quando la razionalità è annullata da una domenica assurda. Ci illudiamo che ogni cosa sia sempre intelligibile. Essenziale quasi. Rincorriamo ogni attimo della nostra giornata, a volte con spasmodico sforzo, per comporre puzzle logici che ci paiono indispensabili, anche se poi, visti da vicino, non sono altro che angusti spazi di quotidianità che un fruscio di vento può annullare in un istante. Manca di senso, una domenica che ingoia tutt’a un tatto sette persone belle. Con storie variegate sì, ma accomunate da un’intensa voglia di vivere. Gente in gamba, non sfibrata nei desideri. Non in balìa di pulsioni sregolate. Ma forti di un nugolo di desideri in grado di alimentare ancora, per anni ed anni, amicizie sincere e progetti di vita. A tutto ciò è stato messo fine domenica. Come rendersene conto? Come accettare l’impensabile? Perciò il pianto di quelle famiglie è straziante. S’ interrogano mentre si disperano, i padri e i figli, le nonne e i nipoti dei sette ciclisti che insieme hanno attraversato la linea dell’aldilà. Come il paziente Giobbe. Perché? Perché a noi? Qual è il movente? Qual è la colpa? E le domande bruciano di più se la riposta è che non c’è un movente e non c’è una colpa. Niente poteva evitare l’impensabile? E’ l’altra ossessiva domanda che corrode. Forse sì, ma bisognerebbe fare in modo che Chafik ElKetani non si mettesse domenica mattina alla guida dell’auto. Ma chi può rimettere indietro l’orologio e impedire a quella maledetta Mercedes d’impazzire? Già, chi? Siamo succubi del tempo. Del caso. Del destino. “Siamo ragadi sopra il grugnoculo di Dio”, scrive Gesualdo Bufalino. “Caccole di una talpa enorme”. O, cristianamente, “anime consegnate nelle mani di Dio”. Di un Dio che però spesso non capiamo, di un Dio “difficile”. Tutto il resto, responsabilità umane, errori e sbagli, è un’altra storia. Di magistrati e tribunali. Sta a noi, adesso, evitare che l’altra storia, quella delle responsabilità per comportamenti illeciti, dolosi o colposi, sciupi la dignità e la civiltà del dolore. E magari ci faccia dimenticare il nostro essere figli consapevoli del nostro tempo, con le nostre fragilità, le nostre manchevolezze e la nostra stucchevole dabbenaggine. La Calabria dinanzi a questa tragedia reagisce con compostezza e umanità. Sa riconoscere, questo mette inconfutabilmente in mostra, che oltre il confusionario teatrino apparecchiato ogni giorno dalla voracità dei media e le insinuazioni - non evitate purtroppo neanche questa volta - di chi prova ad associare un dolore immenso alla presenza nel nostro Paese degli immigrati, ci sono accadimenti che esigono rispetto, profondità di pensiero e silenzio.
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