25 novembre 2010    

Senza il Sud l'Italia non cresce (di Giovanni Nucera *)


Il consigliere regionale del Pdl e coordinatore in Calabria dei Popolari Liberali Giovanni NuceraDiscutere di Mezzogiorno, in una congiuntura economica e sociale difficile come questa, mi rendo conto che è quasi  un azzardo.
Scarseggiano le risorse, pertanto  l’Italia -  si dice -  deve concentrarsi sulla crescita e sull'aumento della produttività per competere nell'economia globale e conquistare  spazio  nei mercati remoti  della Cina, dell'India e  del Brasile, i nuovi trascinatori dell’economia.
Entro fine anno - ha fatto sapere l’ottimo  ministro Fitto -  il Governo  presenterà all'Unione Europea il Piano nazionale di riforma nell'ambito della "Strategia 2020" che ha l'obiettivo di riportare l'Europa ai vertici della competitività mondiale.
Insomma: ovunque si discuta di economia, finanza, emergenze sociali, sembra che la parola Sud non possa e non debba avere cittadinanza alcuna.
La parola Mezzogiorno esce da ogni agenda politica nazionale!!!
Salvo che non si discuta di mafia, anzi in questo specifico momento di ‘ndrangheta, dato  che la mafia calabrese è considerata la più potente a livello internazionale.
Ma è evidente che cosi facendo, espellendo il Sud dal dibattito pubblico,  si commettono due errori clamorosi:
a) Ritenere che la politica nazionale possa muoversi senza affrontare di petto, anzi persino ignorando,  il ‘gap’ che separa il Sud dal resto del Paese, quando persino un politologo, che non può certo essere considerato un simpatizzante del Mezzogiorno, come il professor Angelo  Panebianco,  il 4 novembre scorso sul Corriere della Sera, in un editoriale emblematicamente intitolato “L’altra secessione”, ha messo in evidenza che qualora la secessione per davvero si verificasse,  provocherebbe un danno allo stesso Nord, “perché ne abbasserebbe il rango internazionale con molte e pesanti ripercussioni negative”;
b) Immaginare – ed ecco il secondo errore -  che si possa fare politica, assumere scelte economiche e riconciliarsi con l’Europa,  lasciando il Sud al suo destino.
E’ ovvio, infatti,  che con il Sud in queste condizioni, tragiche per più versi -  e non mi riferisco esclusivamente alle questioni ambientali o del dissesto idrogeologico, ma anche alla grave crisi occupazionale e alle lacune  del tessuto produttivo nonché ai forti squilibri sociali – l’Italia non può sedere dignitosamente in Europa. Né l’Europa stessa, specialmente gli Stati Uniti d’Europa che tutti ci auguriamo possano presto nascere, possono immaginare di avere nel loro ambito un’ampia fascia di territorio in cui vive un terzo degli italiani, consegnata al sottosviluppo ed alle mafie.
Consentitemi una riflessione di carattere generale.
2) IL POPOLARISMO DI IERI ED OGGI
Viviamo oggi, una crisi sociale particolarmente grave, che riguarda anche tutti i partiti politici. Essa interpella specie noi cattolici democratici che poniamo il “servizio al bene comune” come ragione ed ideale della nostra presenza in politica. La gravità della crisi e la coerenza con la nostra  coscienza,  impongono prima di tutto ai cattolici democratici di far di tutto per  compiere il necessario salto di qualità e di stimolare altri a compierlo.
È necessario rifondare le ragioni della tradizione popolare democratica; «il popolarismo» come strumento per superare i limiti congeniti di un partito e per costruire una “area politica” che si apra indistintamente a tutti gli uomini “liberi e forti” (secondo l’espressione sturziana), credenti e non credenti, che si riconoscono nei valori della libertà, della democrazia e della solidarietà, valori su cui si fonda la nostra Carta Costituzionale e che, pur essendo proposti dal popolarismo in modo coerente con la visione cristiana dell’uomo e della storia, vengono vissuti e applicati, laicamente in conformità alla laicità della politica.
È inevitabile che quest’area popolare e democratica si apra in un confronto sempre vivo con altre tradizioni politiche presenti nel Paese: la socialista, la neoliberista, la radicale. Non si tratta di fare un nuovo partito (PdL), né di salvare vecchi partiti già esistenti (DC).  Occorre invece fare passi avanti: ripensare e aggiornare l’intuizione sturziana di popolarismo e farla rivivere sotto forma di area politica.
Non è un invito a unirsi per tutelare un’ideologia o gli interessi particolari di un gruppo o di una classe, ma per affrontare e risolvere i problemi del Paese in nome del senso comune, in fedeltà ai valori garantiti dalla Costituzione ed interpretata alla luce di un nuovo umanesimo integrale.
E la crisi politica di questi giorni rende possibile il tentativo di realizzare questo progetto, ma perché possa convincere è necessario compiere una triplice rifondazione: la prima deve essere una rifondazione delle idee, la seconda strutturale e la terza di programma.
3) Il nostro apporto di Democratici Cristiani nel PDL per vincere la sfiducia dei cittadini verso la politica.
In sintesi: non si può prescindere, nella vita come nella politica, dalla ispirazione religiosa che, nel pieno rispetto della laicità della politica, ha una sua funzione sociale.
La laicità non è il laicismo. Il laicismo esclude positivamente Dio dall’uomo e dalla storia e riduce la religione a un mero fatto privato, personale e di culto privo di ogni incidenza sociale. Il laicismo ci porta a vivere come se Dio non esistesse. Questo per un cristiano è inaccettabile! Per questo Sturzo aveva posto l’ispirazione religiosa a fondamento stesso del popolarismo. Infatti, dalla coscienza religiosa scaturiscono le basi forti per poter garantire diritti civili e libertà politiche e solidali.
L’ispirazione religiosa, nel pieno rispetto della laicità della politica, ha una funzione sociale, perché nessun modello di società può stare in piedi, se non si fonda su valori assoluti.
Una democrazia senza valori si converte in un totalitarismo aperto e subdolo come dimostra la storia.
Ora i valori assoluti non li crea lo Stato, il quale invece li riconosce, li tutela, li coordina in vista del bene comune.
Solo ponendo al centro della vita sociale l’uomo, la persona umana che viene prima della società e questa prima dello Stato. Solo nel rispetto della laicità della politica – superando il confessionalismo religioso e il dogmatismo ideologico – si può rendere possibile l’incontro e l’elaborazione di un programma comune tra cattolici democratici e «uomini liberi e forti» di altre tradizioni culturali.
Vado avanti brevemente, ma è importante aver presente il quadro d’insieme per comprendere appieno la questione meridionale.
Un secondo aspetto importante consiste nella riforma politica ed  istituzionale  strutturale. Questa  cammina in sintonia con lo stato federale e regionale, così come oggi vorrebbe essere disegnato.
Il partito centralizzato e gestito rigidamente dal vertice, deve lasciare il passo ad una nuova struttura politica, più agile, più snella, integrato con elementi di movimentismo, cioè organizzato e gestito dal territorio, dalla base verso il vertice.
Il vecchio centralismo romano non potrà essere sostituito da un nuovo centralismo regionale, ma da una «area politica» aperta alla società ed ai movimenti vitali nel territorio nel rispetto delle autonomie locali e dei corpi intermedi, come esige una democrazia matura, fondata sul principio di sussidiarietà.
E Sturzo aveva intuito che il popolarismo si costruisce partendo dalle regioni in un paese unito e non diviso, solidale e non discriminato. Un’area popolare e democratica che unisca le regioni del nord e del sud partendo proprio dalle radici ideali e culturali comuni del perseguire il servizio al bene comune e alla politica.
Ancora, in sintesi:
Unicità di programma e di progetto. Prima il progetto poi l’aggregazione partitica. Non vengano prima i partiti e poi i progetti. Il popolarismo per quanto è già un programma e un ideale capace di coagulare, guardando i problemi della gente nei territori e non gli interessi di una parte politica o di territorio.
Il popolarismo aggrega non divide!
Il popolarismo impone non la stagnazione e il conservatorismo, ma il dinamismo e il progressismo,  in una continua rivoluzione nell’evoluzione della società.
Pur trovandoci in un imperfetto bipolarismo, in Italia siamo ancora lontani dalla democrazia dell’alternanza: il nostro bipolarismo è ancora più a livello di coalizione elettorale che di effettiva omogeneità culturale e programmatica, mentre ciò che ci riserva il futuro, specie con il quadro politico improvvisamente di nuovo in movimento, ci induce a non chiuderci dentro un perimetro che ritenevamo potesse durare per ancora molto tempo…
Noi democratici cristiani dobbiamo fortemente impegnarci perché si possano coagulare le forze all’interno e all’esterno del PdL e rifondare, partendo dalle nostre idealità, nuove prospettive culturali di riferimento per le giovani generazioni, che sono coloro che pagano oggi, specie al Sud, il prezzo più alto dell’assenza di una visione profetica della politica.
Azzardo Sud, dicevo all’inizio...
Ebbene oggi quest’azzardo, se non vogliamo immiserire l’Italia,  è una strada obbligata!
Occorre che  del Sud non si  parli solo  di striscio, o peggio per identificarlo con la questione criminale,   ma bisogna  interessarsene e in maniera del tutto diversa da come si è fatto in questi ultimi tempi e da come - consentitemi di essere lealmente  franco – si sta continuando a fare…
Io vengo da una regione del Sud come la Calabria,  che, dopo cinque anni di centrosinistra e dopo quarant’anni di regionalismo in gran parte fallimentare,  oggi è costretta a leccarsi le ferite; e che -  nonostante l’impegno di un centrodestra combattivo -  difficilmente, se lasciata sola, potrà  farcela a voltar pagina…
La Calabria ed il Sud hanno bisogno del Paese!  E di più Stato! Non di meno Italia e di meno Stato.
Non della logica secondo cui ognuno pensi a sé, ma di una politica di coesione sociale e di responsabilità istituzionale.  Di una politica economica che non si pieghi alle istanze forti, economicamente e politicamente,  dell’Italia dei nostri giorni…
Se vogliamo essere seri e non prenderci in giro,  pur rispettando le doglianze delle aree ricche del Nord che avvertono il peso della crisi internazionale, oggi dobbiamo avvertire il coraggio della responsabilità nazionale e indurre il Governo, il Parlamento, il sistema economico, privato e pubblico, a occuparsi del Paese in maniera equa e solidale, quindi ad occuparsi prioritariamente dell’annosa questione meridionale.
Che, se non affrontata, rischia di provocare danni smisurati non solo agli italiani che vivono nel Mezzogiorno, ma a tutti gli italiani ed all’Italia unita che non può apprestarsi a festeggiare  il suo 150mo compleanno con un Sud lasciato in queste deplorevoli condizioni! Non s’era mai visto, in Lombardia, regione più produttiva d’Italia, dedicare una seduta straordinaria del Consiglio all’inquinamento mafioso…
Lo dico col cuore in mano, da cattolico, da ex democristiano e da esponente politico  del Mezzogiorno  che avverte su di sé il peso e insieme l’onore  delle migliori tradizioni culturali  che hanno reso possibile prima  l’Unità del Paese e poi la formazione, lenta ma irreversibile, degli italiani come un solo popolo.
Non avrebbe senso alcuno festeggiare il 150mo compleanno senza un ripensamento degli errori che hanno cacciato il Sud in un tunnel spaventoso!
Festeggiare l’Unità del Paese deve coincidere con impegni del Governo, che del Sud ha fatto, e questo è un punto a suo merito,   uno specifico passaggio  del suo programma di rilancio.
Ma adesso c’è bisogno di impegni  chiari, operativi e produttivi di effetti visibili ed immediati.
E’ bene si sappia subito, e invito questa importante assemblea politica ad aderire a questa mia proposta/provocazione, che se non vi sarà un’inversione di tendenza nelle politiche economiche, si potrà anche valutare di non enfatizzare la ricorrenza del 150° anno dell’unità d’Italia, fino a proporre di non fare aderire le regioni del sud alla celebrazione. La grave  condizione storica del Sud non consente concessioni alla retorica. 
E non, è ovvio, per ripicche o puntigli.
La storia non si può cancellare ed è bene che l’Italia e l’Europa debbano RICORDARE:
- che i meridionali con l’Unità d’Italia hanno perduto un  dignitoso status economico e sociale di cui godevano all’interno del Regno delle due Sicilie;
- che per costruire l’Italia i meridionali  si sono sacrificati subendo, come riconoscono tutti gli storici,   uno spostamento di risorse dal Sud verso il sistema industriale e produttivo del Nord; 
- che i meridionali hanno vissuto, più di altre realtà territoriali del Paese, la tragedia dell’emigrazione, i cui effetti negativi  continuano ancora oggi ad avvertirsi…
- che il Mezzogiorno e la Calabria hanno sofferto più di altre regioni d’Italia l’inganno ed il miraggio di una industrializzazione nata monca e fallita per truffe di Stato.
Ebbene, non per ripicca,  ma per un indubbio senso di giustizia sociale e per l’urgenza di  richiamare le classi dirigenti italiane al senso del dovere nazionale, i meridionali non sopporterebbero festeggiamenti retorici e sfavillanti mentre le nuove generazioni, i tantissimi talenti di cui disponiamo, i giovani e meno giovani, non trovano occasioni di lavoro e ormai da qualche tempo,  per sbarcare il lunario, hanno ripreso ad emigrare (oltre 13 mila laureati meridionali che fra il 1996 e il 2007 si sono trasferiti all'estero privando il Sud e l'Italia di preziose risorse professionali). Provocando, così, un ulteriore depauperamento delle nostre risorse umane e precludendo al Sud la possibilità di progettare il suo futuro.
So bene che il  Governo ha già individuato otto punti in cui articolare il Piano di rilancio del Paese e quindi anche del Sud.
So bene che il Governo ha consapevolezza dell’urgenza di individuare nuove regole per disciplinare il  rapporto capitale-lavoro, i problemi del  fisco, della sicurezza sociale e quant’altro…
So bene che lo sviluppo del Mezzogiorno figura a pieno titolo tra i fattori di crescita e di competitività ed è  nei pensieri della maggioranza che governa il Paese.
Ma adesso, non domani, occorre passare dalle parole ai fatti:
-fiscalità di vantaggio per le imprese che operano o investono al Sud;
-un piano per il lavoro e l’occupazione specifico per le aree depresse del Mezzogiorno come la mia regione;
-la prosecuzione della lotta alla mafia, che finora grazie al Governo Berlusconi in verità ha dato ottimi risultati, ma che occorre intensificare, dotando, finalmente, la magistratura e le forze dell’ordine di mezzi, risorse finanziarie ed uomini;
-un piano di salvaguardia ambientale e valorizzazione paesaggistica, nonché la messa in sicurezza di un territorio troppo spesso abbandonato e in cui il rischio del dissesto idrogeologico è molto forte…
In poche  parole: il  Mezzogiorno, che sinora è sempre stato considerato un problema, deve essere considerato come  la vera grande opportunità di crescita dell'Italia.
Non solo perché si trova sulle rotte commerciali tra Europa e Asia ed è la punta avanzata dell’Europa continentale verso i paesi dell’Africa, ma anche perché dispone di risorse umane, territoriali e ambientali ancora di tutto rilievo ed essenziali per la crescita generale.
Non serve più, però,  soltanto affermare, ed in questi due ultimi anni le occasioni per dirlo non sono mai mancate, che si salva il Paese se si salva il Mezzogiorno…In realtà questo concetto è stato approfondito ed esaminato da ogni punto di vista dal fior fiore di meridionalisti, ad incominciare dall’indimenticabile don Sturzo,  e da  studiosi di vaglia non solo meridionali…
La differenza che ci aspettiamo di cogliere, in tempi rapidi, adesso, è la traduzione in provvedimenti legislativi ed amministrativi dell’idea secondo cui, oggi più che nei decenni scorsi,  lo sviluppo  del Mezzogiorno è un interesse primario di tutto il Paese.
La mia analisi, naturalmente, non assolve le classi dirigenti del Mezzogiorno, né le politiche del passato: so bene che, nella maggior parte dei casi, nel Sud gli investimenti  si sono dispersi in mille rivoli al punto che non si è riusciti  a ridurre il divario di crescita con il Nord.
4) LA FAMIGLIA COME POTENZIARLA ED ATTRAVERSO QUALI PROVVEDIMENTI
So bene  che la crisi degli ultimi  anni ha ulteriormente  aggravato - lo dicono tutti gli istituti statistici e le migliori analisi sociologiche -  gli   effetti sociali negativi come la macroscopica  disoccupazione giovanile, l'emigrazione, il disagio dei singoli e delle famiglie abbandonate a sé…
Caro Carlo Giovanardi, riconosciamo tutti gli  sforzi da te fatti  ed il tuo incessante impegno nonché le proposte concrete che hai elaborato proprio sulle politiche per la promozione della famiglia…Ma ancora oggi ci chiediamo:  quando vedremo un forte impegno dei Governi per la valorizzazione delle famiglie e la tutela dei più deboli che vada oltre le enunciazioni e prenda corpo in scelte vere e tangibili?
Non serve, altrimenti, esaltare il ruolo centrale della famiglia – e lo dice uno che nella sua regione è stato il primo a presentare e far approvare una legge specifica sulla famiglia – se poi non si destinato adeguate risorse per proteggere questo valore culturale e sociale e autentico perno della società…
Badate bene: qui non si chiede di chiudere gli occhi sull’uso dissennato che s’è fatto nell’utilizzo della spesa pubblica nel Sud, né di alimentare il tradizionale e nocivo  rivendicazionismo meridionalista.
Siamo infatti d’accordo nel riconoscere che occorre migliorare la qualità e la capacità della spesa, che non c’è tempo per fare il conto di chi più ha sbagliato nel passato, se le classi dirigenti nazionali o quelle meridionali.
Ciò che è però  fondamentale, soprattutto per noi che dentro il centrodestra intendiamo svolgere un ruolo attivo ed esercitare un protagonismo sano e costituzionale, è indurre la politica a parlare dell’Italia e non solo della questione settentrionale.
Chiediamo da parte del Governo una strategia che innovi fortemente,  ma nel solco della nostra storia comune.
 Che non mira a spaccare e dividere.  Ma a connettere e ad unire.
In questo senso, lo stesso federalismo è, può essere, un’opportunità. Soltanto chi ha la coda di paglia può aver paura del federalismo fiscale.
Se mettiamo nelle condizioni le aree del paese di garantire i diritti dei cittadini, in una logica solidaristica e unitaria, il federalismo è una strada che può tenere unito il Paese e renderlo più attraente e forte in Europa e nel mondo. Può rimettere l’Italia nella giusta carreggiata e responsabilizzare le stesse classi dirigenti del Sud. 
Al contrario, se dovessero prevalere, nella sua pratica attuazione, idee secessioniste, addirittura volte, nella logica pregiudiziale e punitiva che di tanto in tanto è dato avvertire nell’opinione di taluni leader nazionali, a penalizzare il Sud e favorire le aree ricche, il federalismo sarebbe una iattura.
E non solo per il Sud ma per l’Italia!
Perciò sostengo che oggi occorre un Patto per l’Italia che include Nord e Sud.
La migliore parte della politica nazionale deve saper stringere accordi duraturi e strategici con la parte migliore delle classi dirigenti meridionali.
Occorre sapere che l’Italia dispone di una regia nazionale per l’utilizzo  dei 100 miliardi di euro fino al 2013 (fondi europei e nazionali Fas 2007-2013, più il recupero delle somme non spese nel corso della precedente programmazione). 
Si tratta di una montagna  di risorse che spesso  è andata oltre la capacità effettiva di spesa delle amministrazioni.
Insomma  il Paese ( Nord,  Centro e Sud) chiede di essere governato. Chiede governabilità ed il superamento della crisi della  decisione. La Conferenza Episcopale Italiana ci richiama a questa esigenza e la voce del Card. Bagnasco non può rimanere invocazione nel deserto.
Certo, lo spettacolo di una politica trasformata il più delle volte in gossip o l’accentuazione dell’impegno verso alcune tematiche, pure importanti ma verso cui non si avverte l’interesse vero della gente, non aiutano l’Italia a venir fuori dal guado…
Non aiutano il Sud a diventare un  "sistema”  in grado di agire  più strettamente al sistema economico europeo (magari stimolando  il completamento delle grandi reti di comunicazione materiali e immateriali e penso a strade, ferrovie, portualità e reti telematiche) e a sentirsi al centro del dialogo Nord/Sud del mondo, grazie anche al suo cruciale posizionamento nel Mediterraneo. 
5) IL SUD E L’EUROPA. IL RUOLO STRATEGICO DEL MEGA PORTO DI GIOIA TAURO - PORTA APERTA DEL MEZZOGIORNO SUL MONDO
Ancora una breve riflessione, ma non posso eludere la questione Gioia Tauro.
Gioia Tauro oggi costituisce l’esempio di un grande investimento per lo sviluppo del Meridione e rappresenta un caso unico di collaborazione tra pubblico e privato. Oggi il porto è snodo fondamentale per le transhipment mondiali e volano di sviluppo del territorio in cui è insediato. Ha rotto l’isolamento atavico della Calabria, ha aperto nuovi scenari al futuro dell’intero Mezzogiorno, che con i suoi 21 milioni di abitanti è «area strategica» del territorio europeo.
Gioia Tauro rappresenta un’esperienza positiva dal forte valore simbolico, che spinge a modificare la vecchia percezione del Sud «lento, rassegnato e lontano».
La rapidissima evoluzione del sistema trasporto, sui mercati globalizzati, ha trasformato, con altrettanta rapidità, i fattori della domanda di mobilità. L’incremento dei flussi commerciali provenienti dall’estremo oriente e la progressiva delocalizzazione dei sistemi produttivi dal bacino del centro europeo verso le periferie comportano la necessità di rivisitare i modelli di trasporto eurocentrici, alla base della vecchia programmazione comunitaria, a vantaggio di soluzioni multimodali, necessarie a connettere l’Europa centrale ai nuovi poli produttivi africani e orientali. È il Mediterraneo che riconquista la sua centralità ed il Meridione e la Calabria sono avamposto privilegiato per avere la leadership nei collegamenti, potendosi avvalere delle doppie direttrici Sud – Nord ed Est – Ovest.
È quindi ormai indispensabile uno sforzo collettivo depurato da ogni particolarismo, che miri a potenziare, non una singola tratta ferroviaria, un singolo porto o polo logistico, ma tutto il sistema nazionale e le sue interconnessioni con i paesi limitrofi. Solo così potremo essere concorrenziali anche con i porti francesi, spagnoli, africani, che in maniera sempre più prepotente si potenziano a danno di quelli italiani.
Pur nelle ristrettezze economiche del Paese, non possono essere ridotti, ed in qualche caso azzerati, gli investimenti su strutture e infrastrutture così fondamentali per le sorti del sistema portuale italiano, cui è legato a filo doppio al porto di Gioia Tauro, che ne rappresenta sicuramente un’eccellenza.
I porti italiano evidenziano una scarsa capacità di trattenere merce e il porto di Gioia Tauro smista in transhipment una quota pari al 90% del movimento che lo interessa. Tuttavia, questa spiccata connotazione monofunzionale che nei primi anni di attività aveva rappresentato una propulsività imponente, nel contesto modificato di oggi rischia di trasformarsi in vulnerabilità.
È necessario dotare il porto di un’offerta diversificata di servizi e attività: la realizzazione dell’impianto di rigassificazione sarà certamente elemento strategico per la ricaduta su tutto il territorio,  grazie  all’approviggionamento di gas e per lo sviluppo della politica energetica nazionale.
Attualmente le merci che giungono a Gioia Tauro sono sdoganate in altre città come Genova, Napoli, Milano, mentre nel porto si sdogana un numero irrisorio di containers.
Sarebbe necessario procedere a un riordino della normativa in materia che attribuisca lo sdoganamento e quindi le corrispondenti aliquote IVA e di diritti doganali al porto di confine.
Solo così Gioia Tauro potrà intercettare risorse significative che potrebbero garantire continuità di azione e fiato agli investimenti programmati.
A titolo indicativo si richiama che in un container vi è merce per un valore medio di 25-30 mila euro e su questo valore si paga l’IVA e il diritto doganale, con un incidenza di circa il 24% (circa 6 mila euro); di questi il 27% (circa 1500 euro) sarebbe trasferito alla Regione e agli Enti locali.
Se Gioia Tauro potesse sdoganare un milione di container l’anno, ciò si tradurrebbe in un beneficio per la comunità regionale dell’ordine di 1,5 miliardi di Euro.
Se il trasferimento alla regione fosse dell’ordine dell’80%, come sembrerebbe da alcuni recenti  orientamenti di riforma governativa in materia, la cifra sarebbe di circa 4,5 miliardi di Euro l’anno.
Ricchezza per la Calabria e per l’intero meridione.
Ma il punto dolente si registra nella questione delle connessioni ferroviarie. Il nostro paese, storicamente sbilanciato sulla componente stradale, oggi dovrà pur rivedere la sua politica e puntare ad un riequilibrio nodale,  interpretando i vantaggi di ferrovie e navi sotto il profilo dell’impatto ambientale  e del contenimento di consumi energetici.
Mentre i Paesi del nord Europa e dell’area del Mediterranea continuano a potenziare le reti ferroviarie, l’Italia non investe specie al Sud – anzi solo al sud – su questo versante e abbandona totalmente le infrastrutture in ambito portuale. Ciò determinando grave pregiudizio al porto di Gioia Tauro. Il porto di Gioia Tauro oggi ricopre un ruolo di assoluta preminenza riguardo alle strutture portuali del Mediterraneo: 3.300 metri di banchine , 1.300.000 (un milione e trecento mila) mq di piazzali operativi e 400 metri di banchine a fronte di alti fondali idonee per l’accostamento delle navi  super post Panamax.
Con queste caratteristiche un porto non può rimanere trascurato sul piano delle politiche complessive di supporto infrastrutturale, per cui  Ferrovie ed Anas, nella tratta Salerno – Reggio Calabria, non possono trascurare adeguati investimenti per migliorare i collegamenti fra il porto  ed il resto d’Italia e del nord Europa. Solo una politica di espressione becera e nordista  può consentire la mortificazione di un freno allo sviluppo di Gioia Tauro e della Calabria.
Potrebbe sembrare un grande sogno, quasi un’illusione sperare di attuare grandi progetti, quelli che permettono di sognare un mondo diverso e migliore anche per il meridione. Con il Porto di Gioia Tauro nel Mediterraneo in un Mezzogiorno grande porto franco, l’Italia piattaforma per i collegamenti per l’Africa, le Olimpiadi in Sicilia nel 2020, il Ponte sullo Stretto di Reggio Calabria e Messina, lo sfruttamento dei beni ambientali, archeologici e culturali, non possono rimanere per il Sud sogni da realizzare o idee belle ma impossibili. Sappiamo bene che di idee geniali ce ne sono tante, ma di queste solo poche sono realizzabili ed una percentuale ancora più bassa si concretizza effettivamente.
Il ponte di Reggio e Messina non può e non deve rimanere un sogno, ma deve essere una risorsa reale per l’Italia e per l’Europa, per gli scenari interregionali che offre sul piano dei collegamenti e per gli innegabili vantaggi di sviluppo che offre all’intero sistema infrastrutturale - industriale per tutto il bacino del Mediterraneo. (Berlino – Palermo) (sponda africana) (centralità scambi est – ovest) solo pillole per non tediarvi oltre.
Su questo tema ci vedremo presto a Reggio Calabria, perché ho intenzione di organizzare una conferenza nazionale per analizzare vantaggi e svantaggi di un manufatto che dovrà guardare al 2050 e non al 1950. Per buona pace degli ambientalisti e di un certo ideologismo astratto…
6) LA POLITICA OLTRE LA CRISI DELLA DECISIONE. IL PIANO PER IL SUD: O SI ATTUA O NON SERVE CONTINUARE A DECLAMARLO
Sta a noi, allora, a noi che concepiamo la politica come l’arte della mediazione per eccellenza, lo strumento principe per contemperare gli interessi legittimi in campo, come servizio reale al bene comune, affermare le ragioni del Paese e del Sud.
Ad incominciare dall’importanza di concentrare le risorse su pochi interventi di valore strategico da cui possano scaturire  processi di sviluppo.
Noi forse, con più energia se possibile di quanto fin qui stiamo facendo, dobbiamo chiedere che vi sia da parte di chi è stato incaricato dal popolo a guidare l’Italia che vi sia un profondo  ripensamento degli indirizzi economici nazionali.
Conveniamo sull’urgenza di responsabilizzare le Regioni del Sud e le  amministrazioni locali, perché siano superate lentezze burocratiche e persistenti inefficienze amministrative.
La qualità e l’efficienza dell’amministrazione, d’altronde, possono essere aiutate dall’introduzione del federalismo fiscale, bisogna che la spesa pubblica nel Sud sia produttiva e finalizzata a sostenere lo sviluppo, piuttosto che a foraggiare la clientela e a volte la mafia.  
Sappiamo che il  Piano per il Sud ed in particolare  alcuni ministri meridionali hanno piena contezza dei  ritardi del Mezzogiorno e delle sue straordinarie potenzialità (risorse naturali, capacità e competenze industriali in alcune aree).
Ma è tempo, oggi come mai, di darsi una mossa, far vedere invece che annunciare.
Quando diciamo che il Sud non riesce a fare ‘sistema’ diciamo ormai delle ovvietà. A maggior ragione dopo il voto per le regionali di marzo scorso, c’è nel Sud la voglia di riscatto e di fare. Ma cosa aspettiamo a unire gli sforzi, nazionali e locali, e modificare il corso delle cose?
Concordiamo pienamente sui punti, otto mi pare,  che costituiscono l’asse portante del Piano per il Sud del Governo
- (i grandi assi ferroviari che devono riconnettere il Mezzogiorno secondo le direttrici Nord – Sud, Est – Ovest:   e qui, anche se di striscio, come già detto, mi permetto di chiedere maggiore attenzione per il completamento della Salerno - Reggio Calabria divenuta ormai l’intollerabile  simbolo dell’inconcludenza pubblica;
- gli investimenti nel capitale umano ad incominciare dal  miglioramento del sistema scolastico meridionale;
- l’impegno  Università e ricerca;
- i servizi pubblici locali (reti idriche e  sistema del trattamento dei rifiuti solidi urbani); 
- la lotta alla criminalità e l’aggressione ai patrimoni mafiosi;
- la riforma degli incentivi all'investimento, la  Banca del Mezzogiorno, la qualità della Pubblica Amministrazione. 
Crediamo, in sintesi,  che questo nucleo centrale dell’impegno del Governo, insieme a sagge politiche perequative, possa andare di pari passo con il federalismo fiscale e con  le decisioni europee volte a ridurre le diseguaglianze sociali, ma ora diciamo:  passiamo ai fatti!
Se il Sud,   finora,  non è stato capace di stare sul mercato in termini di proposte competitive e non è stato capace di “pensare  se stesso come un'area economica integrata” bensì – come dice il Ministro Fitto - “come una semplice somma di territori, problemi, reclami, che produce un esasperato localismo anche nell'utilizzo delle risorse pubbliche”, è tempo di mettersi all’opera e di mettere assieme i soggetti dello sviluppo sul territorio,  la politica, locale e nazionale,  e dare corso ad un progetto unitario dello sviluppo italiano di cui il Sud è parte integrante ed organica. Non c’è più tempo per le disquisizioni. Abbiamo abbondantemente superare ogni limite alla sopportazione e la sfiducia dei meridionali verso le istituzioni ne è la più allarmante dimostrazione.
Concludo con un auspicio e una preoccupazione.
L’auspicio è che si mettano da parte risse ed esasperazioni polemiche che sottraggono al Paese tempo prezioso, lucidità d’analisi e impegno per risolvere i problemi dei cittadini.
La preoccupazione, invece, è questa.
Amiche ed amici: se non sarà cosi, se l’Italia non capisce che è Italia in quanto  comprende tutte le sue aree e che quindi non può trattare alcuni pezzi del suo territorio con approssimazione o peggio con sdegno, credo che inevitabilmente andremo incontro a scenari sconfortanti da cui non c’è da attendersi nulla di buono.
Da noi tutti dipende, dal nostro impegno  e dall’intelligenza dei vertici della nostra formazione politica -  la cui sensibilità verso i temi del Sud e degli interessi nazionali è stata sempre fuori discussione ed anzi ha costituito  quasi un presidio nello stesso ambito del centrodestra italiano -;
dipende da noi tutti, dicevo,  nessuno escluso,   avverare  l’auspicio che mi sono permesso di enunciare   e scongiurare quella fosca  preoccupazione.


* consigliere regionale e coordinatore in Calabria dei "Popolari Liberali"
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