23 novembre 2010    

Il terremoto in Irpinia trent'anni dopo (di Romano Pitaro )


I quartieri  Penniniello e il Quadrilatero delle Carceri, a Torre Annunziata, distrutti dal terremoto del 1980, dopo trent’anni   sono ancora da ricostruire.  Una bazzecola?  Macché!  Né l’accusa irriverente  di un leghista scaltro.

Dopo il groviglio di scandali e il fiume di denunce sul post  terremoto, ed a trent’anni da quell’orribile minuto e 20 secondi che fece tremare l’Italia centro meridionale, per i  due quartieri  di Torre Annunziata - oggi  roccaforti della camorra e famigerate  piazze di spaccio della Campania -  sono stati stanziati, per  completarne la  ricostruzione, 10 milioni di euro per il primo  nel 2007 e  1,5 milioni di euro per il secondo lo scorso anno.

Non è uno scherzo. Viene da dire: è  l’Italia, bellezza… Che, quando si guarda alle sue pagine più nere, sembra non essere cambiata in nulla.

Martedì 23 novembre,  non si commemora un disastro di trent’anni fa  soltanto per non dimenticare un dolore che sembra sbiadito, ma che  in   chi è  sopravvissuto alla catastrofe ,  e  ricorda come fosse ieri la polvere d’intorno e gli strazi dei feriti sotto le macerie,   ha lasciato ferite profonde.  

 Ma si  ripercorre anche  -  si ha il dovere di farlo -   attraverso le vicende di un  “terremoto infinito”  (Iripinagate) che ha messo più volte  in agitazione il Parlamento, che ha dovuto approvare ben 32 leggi per regolamentare la ricostruzione, una lunghissima  storia di speculazioni, sbagli,  imbrogli e ritardi ingiustificati   

Cominciando dalle liste sospette  dei centri che reclamavano aiuti.  Un dato. Agli  inizi  i paesi colpiti erano  36.  In seguito (è scritto  in un  decreto dell'allora Capo del Governo del 1981)  280. Si è giunti, infine,  a  687.

Metafora dei mali del Sud, il  “terremoto infinito”.  Si badi: non un aggettivo a caso. La somma stanziata  dello Stato per rianimare  l’Irpinia è pari all’incirca a 60mila miliardi di lire.   Ma nel 1981, un anno dopo l’ecatombe,  la stima ufficiale  dei danni non superava gli  8mila miliardi di lire.  “Un porto nelle nebbie”, frustò  Indro Montanelli che, nel 1988, dopo  un’inchiesta del “Giornale”  fu  querelato dal presidente del Consiglio Ciriaco de Mita, definito “padrino”. 

Da lì  prese il via la Commissione  parlamentare d’inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro che, due anni dopo, concluderà che i 58.600 rotti miliardi di spese già effettuate (su 70.000 stanziati) sono “finiti nel nulla” o sperperati ivi inclusa quella parte proveniente dal Fondo europeo per lo sviluppo regionale”.

Ed è fatta: l’Irpinia non è più solo un’area del Belpaese. Ma triste  metafora  di  un Mezzogiorno sprecone, strozzato  dagli intrecci tra politica e mafia.  L’inchiesta (“Mani sul terremoto”) fu  avviata nel 1994, coinvolse  87 persone tra cui big  del calibro di  De Mita,  Pomicino, Scotti,  Gava, De Lorenzo, Di Donato e lo stesso commissario straordinario  Zamberletti che  coordinò i  soccorsi. Si concluse con la prescrizione della maggior parte dei capi d’imputazione e l’assoluzione per altri reati.

Ma non si creda che la partita della ricostruzione è chiusa.  La Finanziaria del 2007, infatti,  ha previsto  un contributo quindicennale di 3,5 milioni di euro per la ricostruzione e ancora adesso è  in vigore un' accisa di 75 lire (4 centesimi di euro) su ogni litro di carburante acquistato, imposta dallo Stato per il finanziamento del terremoto in Irpinia.

Insomma, se si considerano gli scandali, le inchieste parlamentari, giudiziarie  e i pesanti rilievi della Corte dei Conti, si coglie la  storia emblematica  di un Paese che sulla tragedia dell’Irpinia ne ha  fatte  di tutti i colori .

Un Paese che sul dramma dell’Irpinia colpita a morte,    alle  19,34  di domenica 23 novembre 1980,   da una forte scossa di magnitudo 6,5 sulla scala Richter, della durata di un minuto e mezzo circa  che ha colpito  la Campania  centrale  la Basilicata ( un'area che si estendeva dall'Irpinia al Vulture,  posta a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza, ma gli effetti del sisma  si  estesero ad una zona molto più vasta interessando l’intera  l'area centro meridionale dell’Italia),  ha dato sfogo al  peggio dei suoi istinti.

Interi paesi-presepe  senza piani regolatori e senza piani di fabbricazione, precipitavano nello sconforto. La stessa Napoli fu investita dal sisma, molti edifici già lesionati (o in tufo)  caddero. In via Stadera un intero palazzo crollò (probabilmente per un difetto di costruzione) provocando 52 morti.

L’Iripinagate, insomma,  ha messo in luce, nel corso degli anni,  l’irresponsabilità di  classi dirigenti, che sulla tragedia che sconvolse l’esistenza di 280.000 sfollati, 8.848 feriti e fece  2.914 morti, anziché badare a realizzare la ricostruzione dell’area  nel rispetto delle leggi,  hanno speculato, lasciando irrisolti molti dei problemi e aprendo le vie di una nuova  diaspora. Dando modo alla criminalità organizzata di ingrassare  sulle sofferenze di  un’umanità  duramente provata. 

I  furbi hanno pianto in pubblico   e arraffato  privatamente,   per sé e per gli amici degli amici,  utilizzando per altri fini le     ingenti somme stanziate dallo Stato per il recupero  dei centri colpiti e facendo affluire risorse in luoghi risparmiati dalla furia del sisma.

La  politica ha speculato sulle difficoltà del Mezzogiorno che quando oggi -  giustamente spesso - accusa  il Nord ricco  di egoismo o spedisce improperi allo Stato iniquo, dovrebbe prima fare una seria  autocritica.  Riconoscendo  le proprie  responsabilità per  una ricostruzione  senza fine,  che tradisce  imperizia, inefficienza, pirateria economica,  scarso senso civico, complicità con politici  indaffarati   a costruire carriere politiche sulla sofferenza della gente.

C’è da sghignazzare leggendo che, “sul modello del terremoto del Friuli” dell’11 settembre di quattro anni prima che fece oltre  mille morti, si organizzò la ripartenza dell’Irpinia puntando sul rilancio industriale. Nelle colline delle prealpi -   scrivono Stella e Rizzo sul Corriere della Sera del 4 settembre -  la ricostruzione iniziò subito. E  fu completata    abbinandola davvero  allo sviluppo. Grazie alla sinergia tra i poteri locali  e “al determinante spirito dei friulani”, alcuni dei quali  “si vergognavano a ricevere soldi pubblici”. In Irpinia invece la voracità della politica ha trasformato il terremoto non in un’occasione di rilancio dell’area, ma per soddisfare appetiti .

“Fatti 100 - sempre Stella e Rizzo -  i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132”. E i soldi? “Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla pigrizia  dei siciliani e dei campani?”

E’implacabile la  Corte dei Conti nei reiterati  ‘jaccuse.  Le imprese in Campania e Basilicata   fallivano non appena intascati i contributi. I finanziamenti arrivarono talmente concentrati da non riuscire ad essere spesi. In sette anni, 26  banche cooperative  aprirono sportelli nella zona terremotata  arrivando a fare prestiti alle imprese del Nord Italia. Per rilanciare 20 zone industriali tra Campania e Basilicata, vennero stanziati 7.762 miliardi di lire ( 8 miliardi di euro).

“Il costo finale fu 12 volte superiore al previsto in provincia di Avellino e 17 volte in provincia di Salerno”. Chiarisce la Corte dei Conti che   i costi per le infrastrutture crebbero fino a punte di circa 27 volte, rispetto a quelli previsti nelle convenzioni originarie. Il 48,5 per cento delle concessioni industriali (146 casi) venne revocato. E, come spesso accade in questi casi, non poteva mancare “la superficialità degli accertamenti e l’assenza di idonee verifiche, approvate senza adeguatamente ponderare situazioni imprenditoriali  già originariamente minate per scarsa professionalità o nelle quali la sopravvalutazione dell’investimento, in relazione alle capacità imprenditoriali, ha portato al fallimento dell’iniziativa”. Conclusione: nel 2000, 76 aziende erano fallite, ma solo una piccola parte dei contributi (il 21 per cento  nella provincia di Salerno) era stato recuperato.

Se il trentennale vuole  avere un senso, su questi scandali  non può glissare.  Non può esaurirsi nella retorica  delle ricorrenze.   Deve essere, invece,  l’occasione  per riflettere.  E per l’Italia il momento di porre la salvaguardia del territorio tra le priorità dell’agenda del Governo.  I  segnali presismici  possono avvertirli   solo i rospi ed i serpenti o si può fare di più? E dalle scosse telluriche (ogni anno si registrano   un milione di terremoti e i terremoti di magnitudo 5 sono oltre  100 e l’Italia è la più esposta, avendo  quattro vulcani attivi, montagne in crescita e molti terremoti) ci  possiamo difendere con altro che non sia la benevolenza di san Gennaro? 

Il geofisico  Enzo Boschi ha scritto in  “Terremoti d’Italia”  che nel Belpaese ci sono  stati una cinquantina di eventi superiori al X grado della scala Mercalli, capaci   di sfarinare qualunque edificio non  costruito con i più moderni  sistemi antisismici. In particolare la Calabria  è la terra  più sismica d’Italia, dato che in appena 125 anni ha avuto  ben sette tragedie telluriche.  C’è da augurarsi un recupero di lucidità. Ed in tutta fretta.

E’ trascorso tanto tempo,  ma in un Paese in cui, accusa Legambiente, si registrano 7 morti al mese per calamità naturali e in cui il terremoto in Abruzzo, con le connesse inchieste della magistratura sulla gestione dei Grandi eventi e sulla Protezione civile,  costituisce “una tragedia inedita nella storia dell’Italia repubblicana” come documenta un interessante volume edito da Alegre “Cricca economiy”, il terremoto del 1980 presenta aspetti d’attualità sconcertanti.  Specie per ciò che concerne la commistione affari e politica, l’innesto della criminalità,  l’indifferenza per la  prevenzione, la capacità  di organizzare i soccorsi,  il ripristino della normalità,  la gestione degli aiuti e il monitoraggio del  fiume di danaro stanziato per l’occasione

Siamo nel 1980. E’ l’anno del “Nome della Rosa” di Umberto Eco; dell’ istituzione del Servizio sanitario pubblico;  di assassini firmati dalla mafia e dal terrorismo  (Mattarella e Costa    in Sicilia, Bachelet a Roma Tobagi a Milano); di stragi (Ustica e Bologna); il Parlamento vota la legge sul pentitismo; Cutugno vince a Sanremo con “Solo noi”; a Cosenza il 20 febbraio si avverte un terremoto di magnitudine 4.4; negli Stati Uniti Ronald   Reagan diventa presidente e da noi  la “prima Repubblica”, ad ottobre, dopo due  Governi Cossiga,  elegge presidente del Consiglio dei ministri  Arnaldo Forlani.   Si giunge così alla domenica maledetta del 1980. La terra trema e prende a sberle Campania, Basilicata e in parte anche la Puglia. E’ il caos. Morte e sangue, edifici ridotti a monconi, barelle, tende, bare.

E già  gruppi  di cinici profittatori, che non sono ancora  gli esponenti del cosiddetto “capitalismo dei disastri” (“punto di arrivo – spiega  Naomi Klein -  di un’involuzione autoritaria del capitalismo”) dei nostri giorni, iniziano a darsi da fare.  Lutti per migliaia di famiglie  e  splendide occasioni di arricchimento per lestofanti, politici e criminalità. Dei danni provocati dal  cataclisma, però, non ci si rende conto immediatamente.  I   comuni  dell’epicentro hanno    avuto  20mila alloggi distrutti. In  244 comuni delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno,  50mila alloggi hanno subito danni  gravissimi ed altri  30mila danni  meno gravi. Decine di  borghi pesantemente  danneggiati.  Più di 70 centri sono stati integralmente distrutti e oltre 200 hanno avuti consistenti danni al patrimonio edilizio. Centinaia di piccole  industrie e attività artigianali  azzerate  con perdita di migliaia di posti di lavoro e incalcolabili  danni patrimoniali.


Un inferno, che poteva essere percepito soltanto stando nel cratere.  Internet non c’era.  Nessun ‘sms’ poté essere spedito, le foto e le notizie dell’orrore non finirono subito  ed a cascata sui social network. Black  out delle comunicazioni. Un po’ come accadde per il terremoto del 1908 che  distrusse Reggio Calabria e Messina (circa 100mila morti), quando  per mobilitare il Governo ci fu bisogno di un telegramma, spedito da Nicotera marina, che però  giunse  a Roma sul tavolo di Giolitti dopo una giornata. 

Ignari dell’entità del disastro, i primi telegiornali  della sera del 23 novembre se la cavarono con titoli irreali : “Scossa di terremoto in Campania”.  Basta scorrere i titoli del “Mattino”  dei giorni  successivi per capire quanta inconsapevolezza c’era.  Il giorno dopo, infatti, il quotidiano titolò : “Un minuto di terrore - I morti sono centinaia”. Ci volle il 25 novembre per avere contezza di quanto largo fosse il buco nero: “I morti sono migliaia - 100.000 i senzatetto”. E’ la copia del giornale che fa il giro del mondo e ricorda come novanta minuti di terremoto cambiarono il volto, la cultura e la geografia dell’Appennino meridionale.

 E poi, il 26 novembre,  il dramma: “Cresce in maniera catastrofica il numero dei morti (sono 10.000?) e dei rimasti senza tetto (250.000?) – Fate  presto per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”.

Più tardi le cifre furono riportate alla loro reale dimensione,  quella  dei senzatetto però  non s’è mai saputa.  L’appello del giornale di Napoli non ebbe subito effetto. La polemica sui ritardi dei soccorsi, mentre la gente si dimenava nelle macerie e i morti venivano recuperati alla bell’e meglio, ebbe però un interprete di tutto rispetto. L’indimenticabile Sandro Pertini lasciò il Quirinale, nonostante la contrarietà  del presidente Forlani, e due giorni dopo il terremoto andò a vedere di persona. Non si accontentò delle spiegazioni  che gli davano: le difficoltà di giungere per i mezzi di soccorso, nell’entroterra scempiato dalle scosse e lo stato degradato delle infrastrutture, l’assenza di coordinamento di mezzi e uomini.

Al rientro a Roma dal tg2  parlò chiaro: “ Non vi sono stati soccorsi  immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi.” I soccorsi, dopo cinque giorni, inizieranno ad adoperarsi, ma la rimozione del prefetto di Avellino  

Attilio Lobefalo e del ministro dell’Interno Virginio Rognosi furono immediate. L’Sos che partì dai paesi dell’Irpinia fu raccolto da molti Paesi (Stati Uniti d'America, Germania Ovest; Arabia Saudita ,Iraq,  Algeria,  Belgio,  Francia,:  Austria: Jugoslavia, Svizzera) che stanziarono cifre consistenti e inviarono in Irpinia  unità militari e personale specializzato. Da allora di acqua sotto i ponti ne  è passata tanta, ma ci si chiede perché mai,  dopo i terremoti del Belice (1968), del Friuli (1976) dell’Irpinia ( 1980) dell’Abruzzo (2009), l’Italia, che in Europa è l’area geologicamente più instabile,  si ostini a non capire che occorre mettere in campo un’organizzazione antisismica capillare ed attiva 24 ore su 24. Non è che la prevenzione, quanto meno per contenere i danni (in Giappone, dove si vive in costante allerta,  nel 2004 un terremoto quasi di pari grado a quello che ha scosso l’Irpinia nell’80 ha fatto solo venti morti), dà fastidio  alle “cricche” che sugli eventi catastrofici puntano gran  parte del loro business? E addirittura, com’è accaduto per l’Abruzzo,  attendono impazienti le catastrofi  per  sghignazzare alle spalle dei poveracci?  C’è una storia dell’Italia ancora  da scrivere. Questa volta seguendo le baraccopoli in cui sono finite intere generazioni  di terremotati  e gli enormi  flussi di soldi pubblici  risucchiati da sciacalli, mafiosi,   gente senza scrupoli e politici corrotti.

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