22 ottobre 2010    

"La Calabria sottosopra" in un libro di Nino Amadore (di Romano Pitaro )


C’è la mafia? Che stupida domanda, in Calabria  (quasi) tutto è   mafia.  Anche la parola e il pensiero sono contagiate dalle ‘ndrine.    Popolari, come nient’altro, perché parlano il dialetto, l’italiano  e l’inglese. Cioè il passato, il presente ed il futuro.  
Se ci aggiungi l’ampia imprenditoria di rapina (la ricostruzione delle furbizie, cadute di stile e leggerezze   di  molti  tycoon calabresi di successo  è acuta e  minuziosa); l’inevitabile riferimento alla “sovranità limitata”; il coagulo di politicume  immorale  che si spande, spavaldo e sempre (ma come fanno?)    a cavallo,   dal Pollino all’Aspromonte;  la poca virtù civica dei “cavuzzielli calavrisi” (così li apostrofava Ferdinando II che non li amava )  e, per finire,  tutto il corollario di  accuse, congetture  e terribili collegamenti politica/burocrazia/mafia/imprenditoria   che trabocca dalle decine di intrepide inchieste giudiziarie, il piatto  è bell’e servito. 
Ecco, signore e signori,  la Calabria d’oggi.  Dove  i calabresi, piuttosto che in onesti e disonesti, in intelligenti ed ebeti, riformisti e conservatori,   possono ormai  essere classificati tra chi resta (forse perché non ha alternative) e chi vuole andarsene.  E’ il quadro a tinte fosche, la denuncia calata come una mannaia implacabile   sul destino di una terra infelice.  In breve: è  la “Calabria sotto sopra” di Nino Amadore, giornalista siciliano  del “Sole 24 Ore” ed ex allievo dell’Ifg Carlo De Martino di Milano che, in poco più di 100 pagine (Rubbettino editore), mette ‘ko’ un sistema di potere.   Inchioda  una terra “senza futuro” alle sue responsabilità. E  chiede, a noi tutti,  di scegliere fra i seguenti  aggettivi (come se il vocabolario non ne contemplasse altri)  per definire la regione di Alvaro (Corrado): “distratta, omertosa, taciturna, reticente”.
Tutto un percorso d’asfalto  nero o una compatta nube tossica, ivi compreso il disastro della Sa/Rc, la “106”, la Trasversale delle Serre,  il megaporto, il ponte, il fallimento del sogno universitario?
Non proprio. Qua è là, Amadore  segnala, ma s’ intuisce che lo fa per consentirci di giungere sani e salvi fino all’ultimo crudele  rigo,  anime pie degne di menzione e di scorta; agnelli sacrificali e quindi a tratti incredibilmente  ingenui;   cavalieri bianchi del business che, nonostante la Calabria, inanellano successi all’estero; messaggeri della buona novella evangelica (costretti però a scappare senza uno straccio di spiegazione pubblica), del   buon capitalismo nostrano   ed   amministratori pubblici integerrimi. Pochini, quest’ultimi,   per la verità.  Perché, giusto per non autorizzare idee strane,  si  puntualizza subito  che, in fondo,  “se non vi fossero gli amministratori pubblici al servizio della mafia, non vi sarebbero quelli abbattuti a colpi di arma da fuoco”. Inoltre,“gli amministratori  al servizio della ’ndrangheta giganteggiano mentre quelli onesti sono pochi e spesso solitari”. 
E si torna di corsa  nella fogna calabra.   Fatta di un mercato inesistente, in cui furoreggiano “concorrenti impropri, le imprese che possono godere di capitali abbondanti di dubbia provenienza. Aziende che, in una gara d’appalto, possono permettersi ribassi fino al 30-40 per cento”. Né si può sottacere la rapina sistematica dei fondi comunitari,  e nelle frodi europee la regione   è prima. Cosi è diventata la Calabria.  Un sudario di mollezze in cui la tracotanza s’innesta facilmente  e consumate illegalità.  Di zone grigie, logge massoniche. Incalza Amadori:”Deve esserci un motivo nel substrato culturale della regione se la Calabria risulta essere terza in Italia per numero di logge massoniche aderenti alla Gran loggia regolare d’Italia: sono 14, mentre in Toscana sono 18 e in Sicilia 24”.  Non intende mica insinuare che vi sia un collegamento diretto tra massoneria e malaffare o politica deviata.  Però, deduce lucidamente, “è fuor di dubbio che numerose inchieste della magistratura negli ultimi anni abbiano avuto l’obiettivo di scoprire quale possa essere il nesso tra affari, criminalità, politica e logge massoniche più o meno deviate”. Ma ecco il colpo letale: “In ogni caso la massoneria è alla base degli intrecci nella stessa società  e certi rapporti sono il presupposto di ben altre complicità tra i capobastone della ’ndrangheta e gli esponenti del ceto dirigenziale della regione”. 
Se non è l’inferno questo, allora cos’è “la città dolente” e “l’etterno dolore”?   Gioca con il lettore Amadore, è abile, quasi sadico a volte,   sa quando rassicurare e quando affondare il coltello nella piaga aperta.   Ma sbaglia a dire che “si capisce meglio all’ombra dei Peloritani il fallimento della classe dirigente calabrese”. 
Dopo quaranta anni di regionalismo disastroso ( il collasso della sanità pubblica  è la prova schiacciante)   e con classi dirigenti che - nel Sud -   si sono rivelate non all’altezza dei compiti, come ha sostenuto il presidente Napolitano in un suo recente discorso,  lo sconquasso calabrese si vede molto meglio  dalla Calabria. 
Non mancano occhi sani ai calabresi.   Lo hanno visto bene, e sanno di che pasta è fatto,  le migliaia di persone  che hanno sfilato a Reggio Calabria il 25 settembre  contro la ‘ndrangheta.   Peccato che di loro non si siano accorti  i grandi media nazionali.  Ma lo possiamo vedere tutti e bene  dalla Calabria e da ogni angolo del Belpaese,  ad una condizione, e senza tirare in campo le pregiate analisi di economisti come Gianfranco Viesti (“Oggi siamo di fronte non all’irreformabilità del Sud ma dell’intero Paese”).   Ossia  che l’intellighenzia italiana non guardi più alla Calabria come a una specie di “confine del mondo”, di cui si può fare, quando occorre, un eccellente capro espiatorio per le inadempienze  storiche delle classi dirigenti nazionali    e la deplorevole  conflittualità del sistema democratico che colpisce   innanzitutto le  aree più svantaggiate del Mezzogiorno  sempre più sole.  
Per come tira il vento oggi in Italia  e nei Paesi occidentali alle prese con crisi epocali, e senza nulla sottrarre alle colpe dei calabresi,  forse oggi  è il caso di ribaltare la prospettiva.   E provare a  guardare l’Italia dalla Calabria.
  
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