8 novembre 2005    

Quando hanno ucciso la contadina di Calabricata (di Romano Pitaro)


 


Il 28 novembre del 1946 faceva freddo quando Giuditta Levato fu colpita al ventre da un colpo di  fucile.
Non se l’aspettava. S’erano verificati centinai di soprusi ai danni dei contadini nell’era dei baroni. Ma ancora l’omicidio non era diventato lo strumento per affermare il rispetto della gerarchia. L’intangibilità della proprietà privata. 
Mentre Giuditta Levato si chiudeva la porta di casa alle spalle per andare cGiuditta Levatoon passo svelto a Calabricata, una frazione di Sellia Marina, in provincia di Catanzaro,  in Calabria regnavano i Barracco, i Berlingieri, i Gallucci, i Gaetani.
Da secoli dettavano legge. E la caccia era lo spasso  del debosciato latifondo calabrese. Ogni cosa recava i loro nomi: il segno visivo del potere assoluto.    E comandavano sulla miseria dei contadini calabresi con algido distacco. Non era possibile, per i contadini, neanche    avvicinarli. Il colloquio poteva avvenire    attraverso intermediari: “ E’ più facile parlare con Dio che col barone Barracco” dice un contadini a Giovanni Russo in un  libro-viaggio del 1949  “Baroni e contadini”.   
Ma qualcosa stava accadendo il 1946. Intorno alla giovane donna di Calabricata   c’era il frastuono eccitato. La terra l’avevano avuta e ora l’agrario Mazza, anche lui convinto come i suoi simili che “ la riforma è una rovina, un furto”, opponeva resistenza.   Il  grilletto del fucile  fu premuto dalla guardia privata del barone.  
C’era la voglia di zittirla con ogni mezzo, nel 1946,  quella plebaglia immonda.  Dare le terre ai cafoni, che abominevole scempio della proprietà privata.    Un lampo e la giovane donna senti il dolore acuto che dalla  pancia si diffondeva vorticosamente in ogni fibra.    
La guerra era finita da poco e il fascismo seppellito.  Lei era incinta, madre di due figli. Ma non poteva starsene a casa quel giorno . Niente l’avrebbe trattenuta. La terra era lì, a portata di mano e di zappa.  Quella terra che sognava da una vita, il sogno di intere generazioni di contadini,  era stata  già assegnata dallo Stato ( ministro dell’agricoltura era il comunista Fausto Gullo) alla cooperativa di Calabricata.  Ma perché mai quel proprietario si  ostinava a non mollare? Perché aveva portato i buoi a rovinare la semina sui terreni assegnati ? 
Certo, aveva dalla sua la forza. La supponenza dei ricchi e il disprezzo per i nullatenenti. Lei aveva fiutato il vento della storia.  Occorreva resistere. Insieme ce l’avrebbero fatta. Invece i colpi di fucile furono la risposta secca  e bestiale del latifondo calabrese all’orgoglio contadino, che qualche mese prima era tracimato, festante,  nelle campagne del Marchesato.
Quel  periodo di lotte contadine (1943-1953) iniziate a Calabricata con un assassinio,   ebbe con epilogo  purtroppo, come scrisse Paolo Cinanni in un suo memorabile saggio, il  fallimento della riforma agraria e  l’esodo di massa obbligatorio per milioni di contadini disillusi che finirono nei “ghetti dell’immigrazione”
“Imparate una lingua ed andate all’estero “incitava il presidente del Consiglio dei ministri dell’epoca,  De Gasperi.  Il tentativo di Gullo di riformare l’agricoltura meridionale era abortito. Il nuovo ministro dell’agricoltura, il democristiano  Antonio Segni, che subentrò a Gullo, agevolò  la grande proprietà e  attraverso una serie di scelte legislative e in un clima d’indifferenza premeditata del Governo  verso le esigenze dei cafoni del Sud,    parti l’offensiva dei proprietari terrieri  contro le cooperative contadine”.
Molta della terra conquistata nell’inverno del  1946 e del 1947 fu perduta l’anno successivo. Fu recuperata dagli agrari la  terra migliore. Nel 1954 l’inchiesta parlamentare sulla miseria nel Meridione  mise in luce che l’85 per cento delle famiglie  povere si trovava al Sud, con Calabria e Basilicata ai primissimi posti .Il reddito pro capite, fatta 100 la media nazionale, era di 174 in Piemonte e di 52 in Calabria. L’80 per cento dei comuni calabresi  era senza  edifici scolastici o aveva scuole sistemate in edifici malsani e pericolanti, l’85 per cento  dei comuni non aveva canali di scolo e acquedotti insufficienti . Per ogni 1500 abitanti vi era un solo posto letto negli ospedali. Il  45 per cento della popolazione era analfabeta.
Tra il 1949 e il 1955 le speranza di un cambiamento per il movimento contadino erano incentrate sulla riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Ma la prima si sgonfiò immediatamente e la Cassa -  commenta  Russo in una recente prefazione al suo libro -  “dopo aver creato dighe, strade , ponti ed acquedotti, ha investito buona parte dei 100 mila miliardi fino alle metà degli anni ’80 nella industrializzazione senza sviluppo”.  
Dalla conclusione delle lotte contadini, prese inizio  l’enorme contributo dato dai meridionali in tutto il mondo ed a tutte le Nazioni. Lacrime e sangue  hanno contrassegnato la loro esistenza. Nelle opere pubbliche più imponenti del mondo hanno speso energie e sudore. Hanno vissuto in tutte le periferie del mondo industrializzato, nelle baracche svizzere e nei cantieri dei grattacieli di New York. 
Oggi che moltissimi di quei contadini emigrati vantano figli illustri inclusi  nelle grandi società capitalistiche di cui sono diventati esponenti importanti, assistiamo però al riacutizzarsi della questione meridionale. Al punto che non sarebbe blasfemo  affermare l’inutilità del sacrificio di Giuditta Levato, delle vittime dell’eccidio di Melissa, degli uccisi nella strage di Portella della Ginestra.
Come allora l’esigenza di un riequilibrio del rapporto Nord/Sud presenta tratti  drammatici, al punto che il presidente della Repubblica Ciampi, a Caltanissetta, critica i ritardi sul Mezzogiorno e scandisce: “ Il divario tra Nord e Sud è inaccetabbile”.
I termini della questione sono naturalmente mutati, ma è evidente che alla fame dei contadini di allora è subentrato “l’urbanesimo malato” delle grandi città del Sud (Napoli, Reggio Calabria, Palermo).  “La piaga del Sud coincide” , come asserisce Rosario Villari “con la disoccupazione giovanile” e, insieme,  col suo patrimonio di cervelli, costretto a fuggire perché nel Sud, in gran parte di esso, non ci sono prospettive. C’è, inoltre,  una pericolosa crisi delle istituzioni cui si accompagna la debolezza della società civile i cui pezzi migliori (comprese le cosiddette “minoranza combattive”)  sono minacciati,  o tenuti sotto scacco dalla criminalità organizzata.
Nonostante la tenacia con cui donne impavide come Giuditta Levato hanno provato a mutare il corso della storia, i problemi del Mezzogiorno sono, in buona parte, rimasti senza risposta. E oggi come mai si avverte un’ assenza di peso specifico del Mezzogiorno nella vita del Paese. Il Sud conta poco nelle scelte più importanti. 
Non sono mai stati aggrediti i fattori reali dell’arretratezza del Mezzogiorno, i nodi strutturali, che s’ identificano, perlopiù, con la  povertà tecnologica e istituzionale.
Quel mondo dei contadini del Sud  “serrato nel dolore e negli usi, negato alla storia e allo Stato, eternamente paziente”, quel mondo immerso “nella sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”, come lo dipinge Carlo Levi nell’ineguagliabile Cristo si è fermato ad Eboli , s’era  infine  svegliato.  S’era messo contro i baroni. Superando paure ed incertezze. Disposto, a dispetto d’ogni previsione, a sconfiggere “lo sconsolato senso d’inferiorità”. Si è messo in discussione respingendo ogni fatalismo e dando spazio al protagonismo dei singoli individui.  Questo, in estrema sintesi,  il messaggio della contadina di Calabricata che si può cogliere dalla sua personale tragedia ed in tutto ciò che lei simboleggia (l’attaccamento alla terra, il protagonismo delle donne, il rifiuto di subire l’arroganza, il desiderio di un mondo migliore e di giustizia sociale).   
Quel mondo del  Sud dell’Italia  non bisogna dimenticarlo. C’è anzi da fare una delicata, meticolosa e laboriosa ricucitura dei tanti strappi storici  che si sono verificati.  Per indicare, con lucidità,  le questioni che sono, ancora oggi, sintetizzabili nella immarcescibile “questione meridionale”.Perché, nonostante  le suggestive  espressioni di Levi  non siano più attuali, spesso siamo costretti a prendere atto che  non è  mutata l’atmosfera cupa di quel periodo.
Una parte del Paese subisce la mafia (ed avverte poco la presenza dello Stato), la disoccupazione generalizzata  e lo  sviluppo senza modernità.  Anche oggi - dati Istat - la maggior parte delle famiglie povere risiede in Calabria. Ma soprattutto soffre una solitudine accentuata dall’assenza di un serio dibattito nazionale sulle sorti del Sud, che possa suscitare una forte presa di posizione politica, economica, sociale, commisurata alla gravità dei problemi.  
Al momento, non vi è alcuna  regia che si occupi dei drammi sociali del Sud,  che è parte notevole del Paese e senza la quale non si va da nessuna parte. Altro che Europa, con un Sud in parte disintegrato nella sua stessa identità umana.  E’ forse tempo, quindi,  per comprendere che, dopo tante disillusioni,  la questione meridionale non può essere considerata come una semplice appendice di qualcos’altro. Va, invece, affrontata coma la più seria questione politica e culturale del Paese.

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