29 settembre 2010    

La notte, le vacche nere e la piazza colorata (di Romano Pitaro)


A proposito di “notte e vacche nere”  (il rischio in cui poteva incorrere  la manifestazione di ieri) di hegeliana memoria.  Nulla s’è dissolto, perché le differenze,  solide e fondate,  restano  inalterate.    La piazza colorata   di Reggio Calabria   ha  tracciato ieri    linee  marcate e lanciato  messaggi netti.   C’è un nucleo di verità fondamentali sulla mafia  che ha  trovato una narrazione coerente  negli interventi dal palco e  che inchioda le classi dirigenti del Paese alle loro responsabilità.   La manifestazione

All’idea, secondo cui la  mafia  (commistione di criminalità economica, politica e sociale)  rende indistinguibili colpevoli e innocenti, al punto che la mafia si respira un po’ dovunque,  la piazza  ha risposto che  non  tutto è mafia.   L’alibi, per non assestarle colpi mortali, non tiene più.  La mafia non è solo violenza, ma un pezzo di potere che da sempre ha un canale di dialogo con lo Stato.  Ci sono ragioni, affari  ed interessi che ne rendono possibile la sopravvivenza. Quell’idea, “tutto è mafia…”, da cui discende che la   mafia è imbattibile, per cui ogni sforzo è vano,  non può   poggiare più sull’ ipotizzata  inesistenza di una sana  società civile che,  omertosa e connivente,  renderebbe invulnerabili  i   poteri criminali.

La piazza di Reggio dice che la gente c’è ed  è stufa della mafia.   Ecco, dice la piazza:  noi non siamo mafia. E brucia, così, l’altro stereotipo per cui in un  Mezzogiorno  tutto mafia   non è opportuno investire  o potenziare le infrastrutture che servono allo sviluppo. Non siamo noi a sorreggerla, a coprirla, a foraggiarla.   Tant’è che la notte è nera e le vacche pure, ma noi, guardate: siamo colorati.  Noi siamo “cittadinanza responsabile”, incompatibili con le logiche  della mafia. Pertanto,  se la mafia regna, la responsabilità è della Repubblica italiana che non si è adoperata per stroncarla. Che, anziché favorire le indagini giudiziarie  a tutto campo, sembra mirare  a depotenziarle.  Si focalizzino le zone grigie, dice la piazza,  e si  rimuovano i comportamenti collusivi.  La manifestazione ha  indicato direzioni precise.  Ha accusato il sacco della democrazia,  messo in atto da parte delle élite in sintonia con i poteri oscuri,   e reclamato,  con grumi intensi  di emozioni, libertà  e sviluppo.  Che sono possibili se lo Stato funziona, se la mafia perde la partita e l’economia riprende a marciare.  

Un popolo, sganciato per un giorno da bandiere di parte  e liturgie politiche,   è andato  alla ricerca  di quel profumo di libertà che in democrazia  costituisce l’assenza non surrogabile. Nelle vie  di una città del  Sud in cui è lancinante   il contrasto fra tradizione e modernità, questo popolo, ha anche detto:  è bello   sermoneggiare sui diritti costituzionali. Saremo pure  terra di plurimillenaria  civiltà, ma, a conti fatti,  siamo, nel terzo millennio ,   cittadini a metà.  In tutto, dovunque.  Il disagio sociale è dilagante, la protesta, inascoltata, cova risentimento ed odio.   La gente che sfila a Reggio   denuncia  l’asfissiante presenza della ‘ndrangheta,  generatrice di  paure e di  un malinteso senso dell’onore, ma anche  la sordità di  uno Stato, aggiogato dagli  egoismi separatisti,    che, per soprammercato, è come se volesse  abbandonare  il  Sud, benché non coltivi  alcun  progetto  alternativo.  Per la prima volta da 150 anni, la questione meridionale è intesa non come un problema da risolvere ma come un problema di cui liberarsi. Sintetizziamo l’orientamento che ammorba il Paese:  dopo un secolo e mezzo, è chiaro che il Sud non è riformabile, allora al Nord conviene provocare nei fatti la secessione.   Se l’Italia  non elabora  il suo  futuro, ma lascia briglia sciolte agli istinti  più spregiudicati,  il Sud più svantaggiato, vera e propria polveriera sociale,  si sente in   pericolo e  solo.   A questa condizione intollerabile  reagisce la manifestazione del 25. Ed a chi le chiede  perché  ora e non prima, risponde con quel proverbio africano citato da Dambisa Moyo: “Il momento migliore per piantare un albero è 20 anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”.   Contro le ‘ndrine e  contro l’indifferenza al potere,   consapevole  dell’incapacità delle classi dirigenti di mettere a frutto  l’ingente massa di risorse affluita e di  cogliere l’ opportunità di un Sud crocevia per i  Paesi dell’area  del Meg ed il Vecchio continente, la piazza grida: “ Riprendiamoci il futuro”.  E’ vero che l’epilogo di una giornata  che pretende la messa in quiescenza della  ‘ndrangheta   può apparire grottesco. Non con gli slogan  si gettano nell’immondizia  le mafie, che sono dentro le viscere dello Stato.  Se è per questo, però,   neanche con un esercito di maestri, come suggeriva Gesualdo Bufalino (senza dire che  i maestri li stanno licenziando). Dal punto di vista  “marxiano” ,   la cultura può poco contro una holding del crimine che mette in circolazione 40 miliardi di euro all’anno,  opera nei mercati mondiali  e  ne ossequia le  regole. Va da sé che contro un progetto economico criminale, occorre un progetto non solo culturale (che non c’è), ma anche  repressivo ed economico, che ridia speranza alla massa di disoccupati, su cui la ‘ndrangheta ha presa,  e sicurezza agli imprenditori.  La manifestazione ha avuto successo ma non è nient’altro che un ottimo avvio: l’ invito della gente alla politica di rivendicare il suo primato attraverso buone pratiche amministrative;  e un’intelaiatura, imbastita   in pochi giorni, su cui le rappresentanze orizzontali, se non intendono ricadere nel torpore,   hanno adesso  l’occasione di approfondire l’ impegno.   In tanti decenni dopo l’Unità,  se oggi al Sud la mafia è più forte e riesce a organizzare indisturbata i suoi processi di riconversione gestionale e di ricambio del management, la Repubblica ha il dovere di interrogarsi.  E capire cosa vuol fare non di un pezzo del Sud andato a male, ma di se stessa. 

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