24 settembre 2010    

Il Sud allo Stato: batti un colpo! (di Romano Pitaro )


Sabato 25 settembre la Calabria manifesterà a Reggio e, visto il gran daffare  intorno all’iniziativa del “Quotidiano della Calabria”,  sarà di sicuro una giornata memorabile. Le adesioni alla manifestazione, immediate quelle di  Cgil/Cisl/Uil, mondo delle associazioni, imprenditori,  Istituzioni culturali  e  buona politica, evidenziano la vivacità e la reattività della società civile calabrese.  E’ pur vero che il Sud è dentro un baratro, che vive una stagione d’insuccessi e guarda al futuro con preoccupazione. Ma ancora ha la forza di affermare le proprie ragioni. Il punto è che non bisogna deluderne le aspettative.  Perché se avverrà, questa volta  sentiremo un fragoroso   “crac”   nella parte che lo  tiene agganciato all’Italia.  Il distacco non lo promuove soltanto il  federalismo hard, ma anche il disinteresse di  uno Stato che, avvitato su se stesso, smarrisce la bussola. La cosiddetta “secessione dolce” coincide con l’abbandono  sistematico  del Sud al suo infelice  destino.  Se dopo la manifestazione non venissero risultati, si confermerebbe  l’idea che l’Italia è acefala. Priva di  un’idea solida degli interessi nazionali da salvaguardare; e, peggio ancora, si capirebbe che la bilancia pende ormai pericolosamente dalla parte dei poteri oscuri, illegali.  Lo flagellano, il Sud, in questa stagione difficile,    la forza politica che ha la golden share del  Governo - la Lega  che slega  con la sua idea di federalismo -  ministri giocherelloni,  dediti alla battuta discola piuttosto  che a risolvere i problemi  e, in aggiunta,    quotidiani illustri come il Corriere della Sera,  che pubblica set di editoriali in cui il Sud  è la “bestia” affamata di cui il Nord ricco che guarda alla Baviera, prova vergogna. E tuttavia, pur senza il promesso Piano Marshall (estate 2009), pur senza la Banca per il Sud (tratteggiata dal Governo, ma avversata  dalle banche del Nord), pur senza le infrastrutture di base  e senza le risorse finalizzate per la bonifica delle sue aree depresse ma incredibilmente  stornate per pagare le multe che l’Europa  infligge ai produttori nordici di latte che violano l’assegnazione delle quote, il Sud continua a pulsare.   Anzi, pur oppresso da mafie corrosive e violente,  resiste. Si agita. Addirittura organizza manifestazioni e convegni. Come sta accadendo in Campania (dove sabato 25, in contemporanea con la manifestazione “No ‘Ndrangheta” di Reggio, Fini, Veltroni e Saviano ricorderanno un eroe dei nostri tempi,  il sindaco di Pollica Angelo Vassallo assassinato dalla mafia). E in Calabria: a parte l’appuntamento di sabato, il giorno prima, il 24, a Isola Capo Rizzuto è previsto un convengo  sulla “legalità come impegno di tutti”, organizzato dalla   Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità, al quale prenderanno parte magistrati, esperti e due ministri, Alfano e Maroni. Mentre il 29, a Polsi, la Polizia terrà la sua festa nel santuario divenuto, suo malgrado, l’icona per eccellenza  della mafia e dei suoi summit. Insomma, quando  lo danno per spacciato e della sua società civile si racconta quasi esclusivamente  l’ipocondria,  il familismo, l’assenza di  spirito civico, ecco che il Sud sorprende. A chi insiste, con scienza e metodo, utilizzando media potenti per diffondere  “letture” distruttive che,  in sostanza,  mirano a dare l’idea di un Sud non migliorabile e da cui il Nord ricco farebbe  bene a sganciarsi per  tempo, la società civile meridionale offre una secca  smentita  e dimostra che il Paese, ancora una volta, come è successo in altri tragici momenti, si può salvare  soltanto se resta  unito.  Ad una regione povera come la Calabria, calpestata dalla  mafia più potente e ricca (si calcola che il giro d’affari della ‘Ndrangheta sia di 44 miliardi di euro l’anno) e in cui i delitti di ‘Ndrangheta si succedono senza posa, il Governo non può limitarsi a dire che ora, grazie al  federalismo,  dovrà fare da sé.  La responsabilità dei guai del Sud è delle classi dirigenti del Paese, anzitutto. Persino la dispersione colpevole della montagna di risorse pubbliche affluite al Sud, che anziché produrre sviluppo hanno acuito le diseguaglianze sociali, reca la firma dei Governi nazionali.   Qui ed ora, sabato 25 a Reggio,  la   Repubblica italiana  ha l’occasione preziosa per rinserrare le fila  contro un feroce   nemico comune.  E   adoperarsi, con l’assunzione di provvedimenti concreti ed efficaci, per  spazzarlo via o  metterlo in difficoltà.  Soltanto in questa cornice nuova, avrà senso il prossimo anno  festeggiare il  150mo compleanno dell’Unità. Altrimenti, con un  Sud ridotto a deserto sociale e consegnato alla  mafia, che di fatto vanifica i diritti costituzionali dei cittadini,   ci sarà poco da brindare.  Adesso   la domanda che assilla la coscienza democratica del  Paese è semplice ma dirimente: ci dobbiamo rassegnare a convivere con la mafia o c’è  ancora  un soffio di  speranza che le enormi ricchezze accumulate con la violenza possano essere sequestrate e destinate socialmente? Sullo sfondo   c’è una società civile  che avverte  l’invasività della mafia   non più  come una calamità  da tollerare stoicamente, ma col grave  presentimento della irreversibile  decadenza dello Stato democratico e delle sue classi dirigenti, che non hanno la forza di fermarla e di costruire, assieme ai cittadini, nell’Italia del Sud,  una dignitosa  prospettiva di vita.    Gli italiani  che dappertutto  avvertono l’odore di prepotenza che promana dalla mafia, pretendono di  sapere dallo Stato se intenda scrollarsi di dosso inerzie  e melliflue  compromissioni,  oppure se  intenda procedere, come finora ha fatto, preoccupandosi di  salvare la faccia, quando proprio non può farne a meno.   Non intaccando, di fatto,  la struttura economica, di comando e di fuoco di cui la criminalità organizzata dispone. Sebbene pronta a scendere in piazza, la società civile è avvinta dai  peggiori sentimenti di sconfitta  che ne  stanno  minando il sostrato democratico di fondo.  Cioè l’ esile sentimento di appartenenza ad uno Stato che 150 anni fa, quando nacque, non fu tenero  nei suoi confronti, ma che tuttavia rappresentò il superamento di povertà  e diseguaglianze atroci,  e incubò nelle masse popolari, che sarebbero emerse più tardi con la rivendicazione delle terre in mano al latifondo parassitario, la speranza di affermare, prima o poi,  i diritti di uguaglianze e giustizia sociale.  Fino ad ora ha avuto ragione il poeta di Sambiase amico di Ungaretti, Franco Costabile, nell’asserire che “L’occhio del mitra è stato  più preciso del filo a piombo della Rinascita”.  Naturalmente il popolo degli Anni ’60  raccontato da Costabile (“Siamo i marciapiedi più affollati/Siamo l’odore di cipolla che rinnova le viscere d'Europa”) oggi è un altro E’  fatto di giovani laureati, talenti e “saperi”  intrisi di passione  e voglia di fare che, però,  non trova posto a sedere nella società meridionale. A questo popolo è necessario dare risposte. Perché se alzi lo sguardo e non c’è traccia di  futuro  all’orizzonte, neanche a forzarti, la fuga, in fondo, non è una colpa.  Se non c’è altro scampo, è  legittima difesa. Ma se a questo triste  scenario non si  riesce a porre rimedio, è  lo Stato di diritto  che perde la partita.  

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