|
16 settembre 2010
|
|
25 settembre: la Calabria contro la 'ndrangheta (di Romano Pitaro)
|
Ad un giornale, un pezzo della libera informazione di questo Paese in affanno, tocca lanciare la proposta di scendere in piazza contro la mafia a Reggio Calabria il 25 settembre. L’iniziativa è atipica ma l’Italia del Sud, soprattutto alcune aree come la Calabria, è in una condizione di grave sofferenza, stretta nella morsa della criminalità organizzata, che l’altro giorno ha assassinato il sindaco di Pollica Angelo Vassallo, e il sottosviluppo storico, acuito dalla crisi economica dei nostri tempi e dalla crisi della politica. Non un movimento politico, si badi. Non il sindacato, e neanche le associazioni, che pure ci sono e sono combattive, ma un organo d’informazione scritta ha suonato le campane e dato l’allarme: “Il nemico è dentro le mura, accorrete!” La libertà di stampa, benché di recente abbia rischiato d’ essere sopraffatta, in terra di mafia diventa addirittura l’estremo baluardo della democrazia. L’appello lanciato dal direttore del “Quotidiano della Calabria” Matteo Cosenza (cui hanno subito aderito associazioni, Cgil, Cisl e Uil, l’Università e la buona politica), dimostra la veridicità dell’asserzione - datata 1829 - di Chateaubruiand: “Io ho sempre considerato la libertà di stampa coma tutta una costituzione”. Se, infatti, i diritti elementari dei cittadini sono calpestati da un potere parallelo a quello dello Stato, corrosivo e violento, la libertà di stampa avverte che il nodo scorsoio, prima ancora che intorno alle parole (gli attrezzi della sua mission), va stringendosi al collo delle opinioni di ognuno di noi, della libertà d’iniziativa economica e della dignità stessa delle persone. E va da sé che quando diritti di tal fatta sono assediati, la democrazia, che “non è una forma di governo perfetta”, diceva Winston Churchill, “ma è la migliore che abbiamo”, rischia di tramutarsi in altro. E lo assume, questo impegno singolare per un quotidiano, non soltanto rischiando sconfinamenti o di restare impelagato in polemiche giustificate sebbene fuorvianti (attenti alla ‘mmuina’, le manifestazioni da sole non servono, la piattaforma rivendicativa è generica, ecc…), ma anche - si faccia attenzione - in Calabria. Ossia, non in una serafica plaga dell’Occidente grasso, casualmente attraversata da illegali espressioni di dissenso, ma nella più povera regione d’Italia. L’ultima d’Europa, che, però - guarda caso - ha sfornato la mafia più potente e ricca (si calcola che il giro d’affari della ‘Ndrangheta sia di 44 miliardi di euro l’anno). Un Sud dove, come nella “Guerra di Piero”, non c’è più il tempo di sfornare un commento su un delitto di mafia che subito ne sopraggiunge un altro. In rapida successione, la mafia intimidisce imprenditori, politici, amministratori comunali, giornalisti. Colloca addirittura una bomba a casa del procuratore generale presso la Corte di Appello di Reggio Calabria, Salvatore Di Landro (già “attenzionato”, però non sufficientemente protetto) e, subito dopo, prima su una spiaggia (Soverato) spedisce un killer in pieno giorno ed in mezzo ai bagnanti a stroncare una vita e successivamente, nel corso di un’ affollata festa religiosa (Palermiti), invia un altro killer che, a fuochi d’artificio iniziati, ammazza ancora. Così, ora che - dopo il terribile assassinio del sindaco di Pollica - il Mezzogiorno si sente abbandonato ed impotente contro un avversario sanguinario e plurisecolare, e l’opinione pubblica scopre che il “re è nudo”, nel senso che, nonostante le migliaia di reboanti successi dello Stato contro le cosche, la mafia è tutt’altro che decapitata; ebbene, proprio ora, la manifestazione promossa dal “Quotidiano della Calabria” può diventare per la Repubblica italiana l’occasione preziosa per rinserrare le fila contro un feroce nemico comune. E adoperarsi, con l’assunzione di provvedimenti concreti ed efficaci, per spazzarlo via o metterlo in difficoltà. Parliamoci chiaro: c’è ormai poco da disquisire sulla mafia; sulla sua pericolosità e capacità di esercitare le funzioni di una vera e propria holding del crimine; sulla mafia e le sue implicazioni sociali; sulla mafia e i suoi documentati rapporti con parte del potere politico ed amministrativo di questo Stato che il prossimo anno ha in animo di festeggiare il suo 150mo compleanno, senza rendersi conto che, con gran parte del Sud ridotto a deserto sociale e terra di mafia, c’è poco di cui vantarsi. Diciamola tutta: le inchieste di magistrati in prima fila hanno illuminato, da tempo ed in modo esaustivo, la regia che governa gli intrecci mafiosi ed è in grado di permeare economie marce ed economie ben salde, sia nelle aree economicamente svantaggiate che in quelle opulente, nonché gli scenari locali, nazionali ed internazionali in cui la mafia opera, spavalda e indisturbata. Tuttavia, a fronte di tutto ciò, la risposta dello Stato non è ancora adeguatamente attrezzata per fronteggiare un avversario interno così agguerrito. Si può fare la lotta alla mafia senza magistrati? Con automobili senza benzina o senza pagare gli straordinari alle forze dell’ordine? Oggi, però, la domanda che assilla la coscienza democratica di questo Paese è assai semplice ed è uguale a Milano ed a Platì: ci dobbiamo rassegnare a convivere con la mafia o c’è ancora un soffio di speranza che le enormi ricchezze accumulate con la violenza possano essere sequestrate e destinate socialmente? L’invasività della mafia è avvertita dai meridionali non più soltanto come un evento malefico (uno tra i tanti) da tollerare stoicamente, ma col grave presentimento della irreversibile decadenza dello Stato democratico e delle sue classi dirigenti, che non hanno la forza di fermarla e di costruire, assieme ai cittadini, nell’Italia del Sud, una dignitosa prospettiva di vita dentro le regole costituzionali. Questa è la novità che dovrebbe inquietare le espressioni più alte delle nostre Istituzioni. Gli italiani che dappertutto avvertono l’odore di prepotenza che promana dalla mafia, pretendono di sapere dallo Stato se intenda scrollarsi di dosso inerzie e melliflue compromissioni, oppure se lo Stato, distratto da altre vicende, intenda procedere, come finora ha fatto, preoccupandosi di salvare la faccia, quando proprio non può farne a meno. E lasciare che, sostanzialmente, nulla cambi. Non intaccando, di fatto, la struttura economica, di comando e di fuoco di cui la criminalità organizzata dispone. L’impressione è che la società meridionale, con il corpo ancora caldo del sindaco di Pollica che reclama giustizia, sia ormai stanca. Avvinta dai peggiori sentimenti di sconfitta e di sfiducia che ne stanno minando il sostrato democratico di fondo. Cioè l’ esile, che però fin qui non si è mai spezzato, sentimento di appartenenza ad uno Stato che 150 anni fa, quando nacque, non fu tenero nei suoi confronti, ma che tuttavia rappresentò il superamento di povertà e diseguaglianze atroci, e incubò nelle masse popolari, che sarebbero emerse più tardi con la rivendicazione delle terre in mano al latifondo parassitario, la speranza di affermare, prima o poi, i diritti di uguaglianze e giustizia sociale. Oggi è oscurata la speranza in un futuro senza mafia e senza sottosviluppo. Le due piaghe che rendono la questione meridionale di stringente attualità e che, insieme, mettono in risalto, la colpevole sottovalutata delle classi dirigenti. A tal punto siamo che già s’intravede, in Calabria in particolare modo (specie nella società aperta di Internet ), un approccio ai problemi non più razionale, volto ad organizzare la protesta, ma emotivo quasi nichilistico (ogni sforzo di rinnovamento è inutile), frutto di un’ annosa ed inappagata rivendicazione di diritti che rischia di sfociare in odio e risentimento sociale. E a rappresentare l’umore nero che pervade la società calabrese, meglio di tanti saggi e statistiche, possono servire i versi di Franco Costabile (“Il canto dei nuovi migranti”) che, nel 1964, diede voce all’angoscia di un popolo vinto e in fuga, sedotto dall’Unità d’Italia e poi abbandonato, dopo il fallimento della riforma agraria e i danni provocati, in un secondo tempo, dalla Cassa del Mezzogiorno e dalla politica della spesa facile (un verso di Costabile è eloquente: “…la cassa del Mezzogiorno/ ma io non so che stia costruendo/ se la notte o il giorno”). Quel popolo meridionale allora indirizzò ogni residua energia in un solo, disperato, urlo : “Ce ne andiamo/ Ce ne andiamo via con dieci centimetri di terra secca sotto le scarpe/ con mani dure/ con rabbia/ con niente/ Dai fichi più maledetti a limite con l'autunno e con l'Italia/ Noi vivi e battezzati dannati/ Noi violenti/ sanguinari/ con l'accetta conficcata nella scorza dei mesi degli anni/ Noi morti ce ne andiamo in piedi sulla carretta/ Avanzano le ruote/ cantano i sonagli verso i confini/ Via! Via dai feudi/ dagli stivali dai cani dai larghi mantelli/ Via dai Pretori dalla Polizia dagli uomini d'onore”. Oggi è quell’atmosfera di delusione e sconforto che riemerge. Il dolore atavico dei cafoni meridionali, denunciato dal poeta di Sambiase amico di Ungaretti, riappare in Calabria quasi immutato. E’ il dolore di chi ha sperato in un mutamento che non c’è stato, e che, pur avendo compreso da che parte sta il nemico, constata che lo Stato di diritto non ce la fa a sconfiggere la mafia, né a costruire una società più giusta:“L’occhio del mitra è più preciso del filo a piombo della Rinascita”. Cosi non resta altro da fare che arrendersi, fare le valigie. Non è lo stesso popolo raccontato negli Anni ’60 da Costabile (“Siamo i marciapiedi più affollati/ Siamo i treni più lunghi/ Siamo le braccia le unghie d'Europa/ il monumento al Minatore Ignoto/ Siamo l'odore di cipolla che rinnova le viscere d'Europa.”). E’ un popolo fatto di giovani laureati, talenti e “saperi” intrisi di passione e voglia di fare che, però, non trova posto a sedere nella società meridionale. Ovunque vadano, se non hanno il lasciapassare della politica clientelare o della mafia, ricevono lo stesso trattamento: porte sbarrate. Questo sentimento di sconfitta, che rischia di avvolgere la società calabrese in una spirale di fallimenti senza fine, fa da sfondo alla manifestazione di sabato 25 che, pur avendo come obiettivo la solidarietà ai magistrati ed alle forze dell’ordine, non può sottacere il vasto disagio sociale in cui la mafia pesca con facilità. La sfiducia nelle Istituzioni dà energia alla ‘Ndrangheta. D’altronde, se magistrati solidi come Nicola Gratteri, che rischiano la vita servendo lo Stato, non indulgono all’ ottimismo nel ragionamento sulla mafia, il giovane appena laureato, l’imprenditore che non vuole fuggire, le donne intelligenti della Calabria, in cosa possono credere? Quando alzi lo sguardo e non c’è traccia di futuro all’orizzonte, neanche a forzarti, la fuga, in fondo, non è una colpa. Se non c’è altro scampo, è legittima difesa.
|
|
|
|