16 luglio 2010    

''Federalismo? No, grazie''. Parla il costituzionalista Roberto Bin (di Romano Pitaro)


Due anni fa il “caso Calabria” è finito nel testo di diritto costituzionale adottato dalla facoltà di giurisprudenza della “Bocconi” e curato dai professori Roberto Bin e Giovanni Pitruzzella.  Tanta notorietà grazie all’ingegnosa ipotesi - bocciata dalla Corte costituzionale nel 2004 -  con cui il legislatore calabrese si proponeva di sconfiggere l’ “equilibrio del terrore” che regnerebbe nelle Regioni e dovuto al fatto che se il Governatore molla l’intera legislatura finisce. Il legislatore calabrese provò, invano,  a  temperare  il presidenzialismo  con   l’elezione diretta anche del  vicepresidente. Oggi, 40 anni dopo la loro nascita, professor Bin, è verosimile pensare di introdurre nel nuovo testo di diritto costituzionale  un “caso Regioni” con questo titolo: “Fine del regionalismo”? Roberto Bin insegna diritto costituzionale all’Università di Ferrara. Ha diretto la rivista "Le istituzioni del federalismo" ed è nel comitato di direzione delle riviste "Quaderni costituzionali", "Le Regioni" e “Rivista di Diritto costituzionale”. Ecco la sua risposta: “Si può dire che esiste un “caso Regioni”, che ha  forse un triplo volto. Il primo è storico: le Regioni sono state create nel 1970, con 22 anni di ritardo durante i quali la legislazione italiana ha rafforzato il centralismo ereditato dal regime sabaudo e da quello fascista. Le Regioni sono state “inventate” e paracadutate in un sistema burocratico blindato, centralizzato e gerarchico. Trovare uno spazio tra  ministeri, amministrazione statale decentrata e amministrazione locale non è stato semplice. E ancora meno semplice è stato inventare una “politica regionale”, visto che tutte le organizzazioni economiche e politiche, partiti in testa, hanno mantenuto una forte organizzazione verticistica, con la propria  direzione al centro. L’autonomia è anzitutto autonomia politica, e questa ancora oggi emerge sporadicamente e solo in alcune Regioni. Il secondo volto è il falso federalismo. E i falsi federalisti. Oggi tutti i partiti si dicono “federalisti”, la Lega più di tutti. Ma dopo 7 anni di governo quasi ininterrotto, in cui la Lega ha ricoperto con la sua massima autorità il ministero delle Riforme e del Federalismo, registriamo un trend verso un governo centralistico mai visto in Italia. Sembra che mentre dr. Jekyll in Padania strombazza di secessione, devolution e federalismo, mr. Hyde, a Roma, si comporti come il peggior seguace di Scelba. I ministri leghisti, e gli altri “federalisti”, fanno parte del Consiglio dei ministri che delibera misure legislative di un centralismo mai visto (basti leggere la c.d. “manovra”) e impugna ogni legge regionale anche minimamente innovativa, che sia prodotta da maggioranze di destra o di sinistra non importa. E il cosiddetto federalismo fiscale, che dovrebbe segnare il trionfo del federalismo leghista, è  sostanzialmente una bufala, un intrico da cui difficilmente si verrà a capo con un disegno chiaro. La Lega dimostra solo una cosa: la verità del vecchio e saggio principio per cui chi sta nella “stanza dei bottoni” non è per nulla interessato a decentrare il potere così difficilmente conquistato. 


C’è’ chi parla di  “fine ingloriosa del regionalismo”. Si apre un nuovo ciclo per le Regioni, magari con l’istituzione del  Senato delle autonomie locali, oppure c’è da temere il peggio?
La crisi delle Regioni è parte della crisi del Paese. Ed è una crisi anzitutto politica. Questo è un paese in declino e le Regioni ne sono parte. Non è con una o più riforme costituzionali che si risolve questa crisi. Siamo guidati, a tutti i livelli, da gente che si dimostra quotidianamente incapace a svolgere il suo ruolo, e come fanno sempre gli incapaci, si nasconde dietro il sogno di grandi cambiamenti. Non sono in grado di scrivere leggi ordinarie che abbiano un capo e una coda (la “manovra” da questo punto di vista è un bell’esempio!), dimostrano un’inconsapevolezza tecnica imbarazzante, e vorrebbero modificare il sacro testo della Costituzione! Certo, l’inserimento delle Regioni nelle istituzioni e nei processi decisionali sarebbe molto importante, ma prima di imporlo con le riforme costituzionali bisogna sperimentarlo con le prassi politiche di ogni giorno. E invece il Governo si vanta di decidere in pochi minuti sui temi più importanti, abusa dei decreti-legge e stritola il dibattito parlamentare con i voti di fiducia. Poi deve fare marcia indietro, si vede bacchettato dalla Presidenza della Repubblica, dalla Corte costituzionale, dai giudici e se ne indispettisce. La cooperazione  interistituzionale è un fatto di cultura politica alla cui mancanza nessun congegno costituzionale o legislativo può supplire. All’epoca dell’introduzione dell’elezione diretta, lei suggeriva alle Regioni meridionali di non inseguire le regioni del Nord. Sono passati dieci anni, ma  per rilanciare il regionalismo non è servita neppure  la riforma del titolo V della Costituzione.
Cosa suggerisce oggi alle Regioni del Sud che  in caso di federalismo ‘hard’  rischiano di soccombere?Il costituzionalista Roberto Bin
La riforma del Titolo V ha subito due criticità: la prima, dovuta al fatto che era tecnicamente fatta male; la seconda, che è stata boicottata. Fatta male, perché ispirata alla ricerca di effetti speciali, alla professione di grandi principi, non alla soluzione tecnicamente consapevole dei problemi che avevano impedito l’organizzazione razionale dei processi decisionali in Italia. Boicottata, perché la riforma è stata gestita da un Governo e una maggioranza che non l’avevano voluta e che hanno fatto il possibile per ignorarla. In nome del federalismo, è ovvio! Quanto poi alle Regioni del Sud, francamente non mi sembra che siano né una categoria omogenea né che abbiano differenze così nette con le Regioni del Nord. La Puglia non mi sembra una Regione in crisi, né male amministrata; la Calabria lo è da sempre, forse anche perché i calabresi preferiscono vivere altrove piuttosto che scornarsi in casa; la Sicilia è uno scandalo, per la dissipazione della ricchezza che ha e che riceve. Certo, c’è la ben diversa tradizione della cultura amministrativa, ma anche questo è spesso un mito. Milano è stata sepolta dai rifiuti come lo è tuttora Napoli o Palermo; ma a Salerno e in molto comuni del napoletano la raccolta  differenziata c’è da tempo e funziona, mentre nella “civilissima” Bologna no. E la corruzione non mi sembra mancare nelle città del Centro e del Nord. Il federalismo “hard” non esiste e quello che si sta delineando non ha nulla di federalistico.
Federalismo tutto di segno negativo?
Non tutto. Contiene un principio importante: quello di responsabilità. E’ l’unico principio che scriverei in ex novo in Costituzione. Le comunità locali devono rispondere integralmente della gestione finanziaria da parte degli amministratori che essi hanno eletto. Il che significa che se un ente sfora il bilancio, la popolazione deve pagare più tasse per ripianarlo. Questo duro insegnamento è forse mancato in Italia, e non solo al Sud. Io ti voto, ti scelgo, e rispondo dei risultati del tuo governo! Ed invece gli amministratori  che hanno provocato il dissesto del Comune di Catania sono diventati uno senatore e l’altro “governatore” della Sicilia! E il bilancio è stato ripianato dal Governo: grande lezione di federalismo, no? Non ha  dato il suggerimento alle Regioni del Sud. Suggerirei a chi vive nel Sud di prendere sul serio le elezioni e far valere la responsabilità politica dei propri governanti. Cioè abituarsi all’autentico senso dell’autonomia, liberandosi dalla passiva accettazione di un sistema di governo che nessuno ha loro imposto.
Secondo lei l’unità del Paese è a rischio? 
Quello che mi preoccupa è il declino del Paese tutto. La sua divisione è uno spauracchio che può far breccia nella testa incolta di qualche esaltato padano. Il declino è invece una realtà che ci coinvolge tutti. I picchi della descolarizzazione si registrano in Lombardia e Veneto, il che vuol dire che nelle nostre “punte di diamante” si sta perdendo di vista quello che è l’unico motore possibile dello sviluppo nei paesi avanzati: l’istruzione e la ricerca. Mentre le difficoltà economiche portano a tagli sistematici proprio a queste voci. Continuiamo  a produrre ottimi laureati al Nord come al Sud, e questi sono costretti a esportare la loro formazione all’estero. Tutto quello che chi ci governa è riuscito ad inventare è di ridurre gli investimenti per la formazione dei giovani.  La divisione del paese è uno slogan che fa breccia solo nelle aree di più accentuata descolarizzazione. E i discorsi attorno al federalismo sono solo discorsi, vaghi e confusi. Il problema del declino è invece serio e tocca duramente le nuove generazioni. Anche per questo un po’ più di autonomia servirebbe.  Quanto mi piacerebbe che ci fosse qualche Presidente di Regione che avesse il coraggio di chiedere, magari con un referendum consultivo, qualche euro in più di Irpef per investimenti mirati in questa direzione, di proporre una “tassa di scopo” per affrontare un problema di cui si deve parlare e si deve affrontare. Ed invece continuiamo a subire il linguaggio incivile di chi parla delle tasse come fosse il pizzo, continuando a promettere di “non mettere le mani in tasca agli italiani”. A promettere, s’intende, perché le tasche degli italiani sono ormai sfondate.


 segnala pagina ad un amico
 CHIUDI