15 aprile 2010    

Il meraviglioso Ponte sul Garigliano (di Domenico Iannantuoni)


Devo onestamente affermare che non mi sarei mai aspettato di scrivere un libro su un ponte ma, come spesso avviene nella vita e quando meno uno se lo aspetta, capitano dei fatti, diciamo, un po’ particolari e che tendono ad uscire dallo schema della razionalità quotidiana. Dapprima, generalmente, si attribuiscono alla casualità minimizzandone l’importanza e dimenticandoli rapidamente ma poi, specie in occasione di alcuni eventi a loro concatenati, il loro ricordo riaffiora alla mente in modo vivido e preciso.
S’inizia così a pensare, dapprima ponendosi qualche dubbio, che quei “fatti”, proprio per caso, non potevano essere accaduti e allora pian piano si sente il desiderio sempre più intenso di approfondirne ragione e significati, nel tentativo di darne umana interpretazione.
Nel mio caso, per spiegare il motivo di questo lavoro, vi dirò che un giorno, leggendo un paio di articoli storici sulle Due Sicilie, argomento che mi sta a cuore da molti anni, ne trovai uno riguardante la battaglia del Garigliano.La copertina del volume di iannantuoni
Il drammatico racconto si concludeva con la morte dell’eroe borbonico, il siciliano Col. Matteo Negri, e insieme con lui quella di diverse centinaia di soldati delle Due Sicilie, impegnati nella resistenza di retroguardia per rallentare l’avanzata dei piemontesi verso Gaeta (ottobre 1860).
Nella descrizione della battaglia, opera di un anonimo scrittore che visse personalmente tutta la campagna militare da Marsala a Gaeta, si dava spazio anche ad alcune notizie vagamente tecniche su un meraviglioso ponte in ferro, quello sul fiume Garigliano, che gli eroici difensori avevano il compito di mantenere.
Lì per lì provai una sensazione di compiacimento per il solo fatto che questo ponte dava un certo prestigio allo Stato delle Due Sicilie, ma soprattutto ne rimasi incuriosito come un ingegnere può esserlo di fronte a un qualcosa di misterioso che deve necessariamente essere analizzato, sintetizzato e catalogato.
Dopo alcuni anni di ricerca infruttifera sull’argomento, decisi di recarmi sul posto per visionare personalmente questo fatidico ponte sul Garigliano.
Qui ebbi la sensazione di osservare una struttura che già conoscevo ed ogni particolare mi appariva chiaro nella sua strutturazione e nella sua funzione meccanica. Fin qui nulla di singolare, poiché a tutti credo sia capitata una cosa simile, cioè di provare la sensazione di aver già vissuto un evento.
Subito dopo, mentre ero in procinto di lasciare il luogo, alcuni giochi di luce prodotti da un sole quasi al tramonto, disegnarono sull’impalcato del ponte alcune linee d’ombra molto particolari e che, almeno così mi parve, sembrava che volessero indirizzare l’attenzione sulle sommità delle maestose colonne che sostenevano le catene di ferro.
Il ponte era stato da poco ristrutturato e non ancora aperto al pubblico per le visite, sicché, l’ambiente particolarmente solitario, poteva sicuramente giocare brutti scherzi d’immaginazione ed evitai così di approfondire in quel momento le mie osservazioni.
Passò qualche tempo e, a dire il vero, ogni tanto il mio pensiero tornava al ponte sul Garigliano e a quelle ombre, quando un bel giorno mi capitò di acquistare su internet un certo numero di “Annali Civili” delle Due Sicilie.
Appena mi furono recapitati li guardai con superficialità per poi accantonarli, come spesso si fa, ordinandoli secondo una priorità di lettura.
Qualche tempo dopo accadde un’altra “cosa” a dir poco singolare.
Tornando a rovistare tra gli annali, alla ricerca di alcune notizie utili alla pubblicazione sui sito della nostra Associazione Culturale, notai che uno di questi presentava un gruppo di pagine non rifilate; le cosiddette pagine “intonse”
Ebbene, immaginate la mia meraviglia quando scoprii che quelle pagine contenevano esattamente il capitolo di G. Filioli con l’intera descrizione tecnica del ponte sul Garigliano dell’ing. Giura!
Purtroppo mancavano le tavole grafiche, ma la descrizione tecnica era così precisa che riuscii a disegnare, senza alcuna fatica, tutte le strutture principali del ponte sospeso.
Altre stranezze accaddero ancora fino a farmi giungere alla determinazione di approfondire l’argomento, ritenendo ormai sufficienti gli inviti che il “caso” mi aveva riservato.
Non voglio qui dilungarmi oltre per non sottrarre al lettore il gusto di quel minimo di “suspense” che anche un argomento tecnico come quello del ponte sul Garigliano è in grado di riservare.
In tutta questa vicenda ho anche scoperto che un ponte può essere qualche cosa di più di un semplice traliccio utilizzato per scavalcare fiumi o bracci di mare.
Un ponte può anche diventare il collegamento tra il passato ed il presente e tra questo ed il futuro.
Ciò che è utile ancora aggiungere, perché il lettore possa comprendere meglio queste pagine, che spesso parlano più di Storia che di tecniche dei ponti, è che noi non ci troviamo solo di fronte ad un’opera, quella del ponte sul Garigliano, unica al mondo e superba per i suoi contenuti ingegneristici, ma anche davanti al risultato di un complesso processo evolutivo proto industriale di uno Stato, quello delle Due Sicilie, che dimostrava di essere all’avanguardia tra gli stati preunitari italiani e certamente non ultimo in Europa e nel mondo.
Questo ponte appare quindi ai visitatori, soprattutto quelli infarciti di miti risorgimentali, come potrebbe apparir loro un’astronave extraterrestre, tanto avveniristica è la sua struttura. Osservando quest’opera diventa impossibile giustificare la vulgata di un Sud arretrato, se dobbiamo poi affermare anche queste sue superiori capacità tecnologiche.
E’ qui che scatta il meccanismo del cosiddetto “revisionismo” e cioè la necessità di riscrivere pezzi di storia che sono stati stottratti all’umanità per scopi gretti. Domenico Iannantuoni
Se riconoscere i più alti onori accademici all’ing. Giura e divulgarne il suo genio è per il sottoscritto un dovere deontologico, come dovrebbe esserlo per tutti gli ingegneri del mondo, riportare alla luce le verità storiche nascoste, per quanto scomode esse possano essere, è un dovere sociale cui nessuno può sottrarsi e nemmeno le massime istituzioni dello Stato.
Fortunatamente, nel corso degli ultimi trent’anni, numerosi scrittori, giornalisti, storici, letterati, prelati, militari e perfino uomini dediti a tempo pieno alla politica, hanno affrontato con passione un faticosissimo lavoro di recupero di quei fatti taciuti o mistificati, per i più svariati motivi dalla storiografia ufficiale, contribuendo in sostanza alla nascita di una nuova scuola di pensiero che è stata chiamata, in modo molto tecnico, “scuola revisionista”.
In effetti, il termine non è di per sé né felice né tantomeno idoneo ad identificare l’ormai vastissimo contributo letterario disponibile, sia su carta stampata sia su web.
Il significato etimologico del verbo revisionare sarebbe quello di “rivedere attentamente, sottoponendo a disamina e analisi un fatto o un documento”. L’effetto del “revisionare” è quello di correggere, cambiare o modificare il documento originale.
Il revisionista apparirebbe più che altro come colui che rivede quindi una cosa per renderla più efficiente o al limite più giusta e subito il pensiero va ai “revisori dei conti”, che hanno appunto il compito di verificare ed eventualmente correggere, per poi validare, un bilancio aziendale.
Alcuni storici, quando vengono etichettati di “revisionismo”, tendono generalmente ad offendersi poiché ritengono il termine più correlato ad un’azione di revisione di motori o impianti, che necessitano di manutenzione o di sostituzione di alcuni componenti usurati.
Come è possibile dar loro torto?!
Siamo tutti d’accordo che un fatto storico realmente avvenuto non può essere revisionato nel senso meccanico del termine, ma solo confutato, confermato o corretto per l’insorgere di nuovi elementi in precedenza sconosciuti o tenuti nascosti. Se ciò che ne esce è una cosa completamente diversa da quella precedente in termini di date, nomi di personaggi o altri dettagli, ma resta uguale l’impianto politico e l’idea collegata al fatto storico, possiamo affermare che il revisionista ha svolto il compito tecnico di perfezionamento.
In questo caso possiamo parlare quindi di riscrittura degli eventi che è appunto uno dei compiti permanenti degli storici in quanto tali.
In genere l’incidenza percentuale di documenti nuovi può modificare alcuni punti di vista dei fatti storici così come furono tramandati, giustificandone una rilettura e quindi la pubblicazione più o meno di successo di qualche libro sull’argomento in questione.
Nel caso invece di eventi importanti taciuti del tutto, l’Autore che dovesse portarli a conoscenza del pubblico svolgerebbe un compito di “scrittura ex novo” della Storia, facendo in sostanza del giornalismo remoto, che spesso può scardinare intere teorie storiche e politiche o addirittura demolire miti di personaggi fino ad allora ritenuti eroici o crearne di nuovi.
In genere il ruolo del “revisionista” è quello di individuare le omissioni, le bugie e le mistificazioni.
La scuola revisionista, almeno quella italiana, andrebbe quindi più interpretata come quell’atteggiamento orientato a rivedere e modificare i principi fondamentali di un’ideologia, quasi sempre quella dominante, proponendo concetti in genere rivoluzionari. Il revisionista è un personaggio dissacratore e scomodo a tutti gli effetti.
Dissacratore, perché ogni volta che introduce elementi di novità, doverosamente basati su documenti inoppugnabili e non solo su semplici opinioni, si scontra con un pubblico ormai con- formatosi su assunti storici, in genere divenuti dogmi indiscutibili, specie quando questi sono stati reiterati sui libri di testo per alcune generazioni.
E’ il caso della nostrana “agiografia risorgimentale” che si basa appunto, in larga parte, sulla mitizzazione di concetti, di fatti ed uomini artatamente costruiti e propalati da una scientifica propaganda che dura ormai da oltre 146 anni.
Il revisionista è anche scomodo, perché si scontra inevitabilmente con tutte quelle “istituzioni” che traggono vantaggio di  stabilità nel mantenimento di una preconfezionata verità storica.
Diceva Paul Joseph Goebbels, ministro della propaganda nel Terzo Reich della Germania nazista dal 1933 al 1945: Una bugia? Ditela dieci, cento, mille, un milione di volte e diventerà realta!
In parte aveva ragione, solo in parte perché si era dimenticato di aggiungere che comunque le bugie hanno sempre le “gambe corte”
Infatti la Storia non è una favola che si può “stortare” a piacimento per lungo tempo. Essa altro non è che la descrizione del tracciato degli infiniti eventi che l’umanità compie nel tempo; eventi tutti correlati a quelli precedenti con precisione matematica. Viene sempre il giorno in cui l’attualità conferma o confuta la verità degli eventi precedenti per renderne ragione o meno.
Oggi in Italia viviamo uno di questi momenti di verifica che si evidenzia appunto con il crescente numero di “revisionisti”, in genere privi, purtroppo, di risorse mediatiche di largo consumo e spesso addirittura ostacolati nella distribuzione delle loro opere scritte; queste infatti non basta che siano stampate in eleganti edizioni se poi non trovano gli opportuni canali di vendita, quasi sempre riservati solo a certa stampa più conformista.
Proprio per questo il loro mezzo di comunicazione per eccellenza è diventato “internet”, uno spazio infinito e dalle infinite opportunità di contatti.
Questo loro apporto costante e progressivo di nuove idee basate su documenti inediti e che fornisce nuove chiavi di lettura della Storia del nostro più recente passato, per intenderci il periodo che va dalla rivoluzione francese per giungere fino a noi passando per il risorgimento, ha determinato una rapida mutazione del pensiero politico verso la nota questione meridionale; mutazione tendenzialmente positivista e ormai orientata verso una chiara rivalutazione del Sud e del ruolo fondamentale da esso sostenuto nel processo di crescita del sistema economico italiano.
Purtroppo i media, al contrario, tendono ancora ad esercitare, verso il Mezzogiorno, un’evidente azione di riduzione, quasi mai giustificabile, mantenendo assordanti silenzi stampa tutto ciò vi è di buono, oppure, preferibilmente, esaltandone solo i sintomi del suo abbandono quali la malavita, l’arretratezza culturale, la disorganizzazione o la mancanza d’iniziativa.
Raramente i media puntano il dito sulla vera causa che mantiene in sofferenza ormai da quasi centocinquant’anni il Mezzogiorno, cioè quella perdurante volontà nazionale, tutta di natura imprenditoriale, che vuole rallentarne il processo di sviluppo, e per far questo si cela dietro una altrettanto perdurante ipocrisia politica, che a parole rilancia ad ogni piè sospinto il progetto di sviluppo del Mezzogiorno, ma nella pratica ne organizza il depauperamento.
E’ opinione diffusa comunque che, entro breve tempo, almeno i media più intraprendenti inizieranno a valorizzare il pensiero revisionista, aspramente critico verso il violento processo di unificazione italiana, trovandosi nella doverosa necessità di giustificare il fallimento del modello produttivo ad indirizzo prettamente nordista.
Magari, paradossalmente, ciò potrebbe accadere proprio nel tentativo di sostenere “la Questione Settentrionale”, nata da poco come espressione di un malessere, tutto cisalpino, che inizia sorprendentemente a far sentire l’unità d’Italia come un peso e non più come un’opportunità di crescita.
Il fatto è parecchio singolare poiché tutti sappiamo che il progetto di unificazione dell’Italia, naturalmente non quello in chiave federalista di cattanea e giobertiana memoria, bensì quello nazionalista, realizzato sotto la corona sabauda e travestito poi, dopo il secondo dopoguerra, in forma repubblicana, nacque proprio dove oggi inizia ad essere contestato massicciamente, nel Nord.
Questo malessere verso un’unità ritenuta ormai non più utile, si evidenzia oggi con le derive federaliste delle regioni del Nord Italia, derive che non sono preoccupanti per l’aspetto politico in sé, e che anzi potrebbero essere finalmente da sprone ad un riequilibrio produttivo del “sistema Italia”, ma perché giungono dopo un secolo e mezzo di relievo costante di risorse di ogni genere dal Mezzogiorno d’Italia che, è doveroso ricordarlo, passò da Stato più ricco tra quelli preunitari qual’era, all’ombra di sé stesso quale è oggi.
L’inaccettabile quanto perversa sottrazione di ricchezze materiali, umane, tecnologiche e scientifiche fu, ed è tuttora, nascosta all’attenzione di tutto il popolo italiano, che è educato dalla classe politica dirigente a vedere, per esempio, l’emigrazione dal nostro Sud verso il Nord come un atto di amore verso chi, poveretto, non ha nessuna opportunità di lavoro o peggio di sopravvivenza nel suo luogo natale.
In realtà questa emigrazione, ipocritamente chiamata “immigrazione” e che più sagacemente qualcuno ha definito “autodeportazione”, poiché avveniva e avviene ancora oggi a spese del migrante, è il semplice risultato di un cinico progetto di colonizzazione economica, che ha ormai raggiunto livelli insostenibili sia eticamente sia praticamente.
Non è quindi casuale che già da parecchio tempo assistiamo ad una crescente affermazione di un pensiero storico-socio-politico che tende a restituire al Mezzogiorno d’Italia non solo i valori dei primati scientifici, tecnologici e sociali che gli appartennero e tuttora gli appartengono di diritto, ma anche, naturalmente, tutte quelle prerogative di “nazione” che fu autonoma, indipendente e ricca sotto governi propri e legittimi, poi usurpati con l’annessione militare del 1860/61.
Insieme con la caduta del Regno delle Due Sicilie cadde naturalmente in disgrazia politica anche gran parte della sua classe dirigente di primo livello, privando così il Sud di ogni seria possibilità di progresso, come i fatti hanno dimostrato.
E’ questa la tesi dei “meridionalisti revisionisti” che, raccogliendo le premonizioni di Francesco II di Borbone, Pietro Calà Ulloa, Giacomo Savarese, Giacinto dè Sivo e tanti altri ancora (coevi dei fatti che portarono al processo di unificazione), ritengono che l’attuale situazione di divario di sviluppo tra Nord e Sud d’Italia dipenda proprio dal progetto risorgimentale di unificazione, che avrebbe volontariamente privato del diritto al progresso il Sud, per agevolare incondizionatamente la crescita economica ed industriale del Nord d’Italia.
Naturalmente ciò poté accadere anche per una significativa partecipazione di una parte della classe politica meridionale, quella unitarista e filosabauda che, dopo un suo primo illusorio coinvolgimento negli affari della nuova “Italia” ne fu estromessa, ovviamente ricompensata con incarichi importanti solo di facciata.
Una volta esaurita la generazione dei collaborazionisti meridionali al processo di unificazione, quelli della prim’ora, iniziò una naturale e progressiva ascarizzazione della classe dirigente del SUD, ormai incondizionatamente subalterna a quella delle regioni del Nord, dove si stava concentrando a passi celeri lo sviluppo economico del paese.
Questa misera classe dirigente non riuscì mai ad opporsi, anzi, favorì il costante e progressivo disseccamento del tessuto economico e sociale del Mezzogiorno, fino a rendere possibili le spaventose emigrazioni a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo verso le Americhe, per giungere sino a quella più recente del secondo dopoguerra, veramente aberrante e di dimensioni bibliche, verso il Nord Europa, l’Australia e soprattutto le città del Nord Italia.
Quest’ultima emigrazione, di oltre dieci milioni di individui, che ancora oggi non si è arrestata, se da un lato consentì, come consente, la crescita dell’economia delle regioni settentrionali, dall’altro causò e causa l’ovvia riduzione di quella del SUD.
E’ questo uno dei paradossi del sistema Italia e contemporaneamente il motivo della sua permanente crisi economica che ormai perdura dal 1980, anno in cui possiamo fissare la fine del tanto declamato “boom economico” che durò solo un trentennio.
Uno degli scopi di questo libro è, per l’appunto, quello di far emergere una parte delle contraddizioni storiche, sociali e politiche che marcano oggi il divario Nord-Sud, parlando di un’opera d’ingegneria che avrebbe dovuto essere uno dei fiori all’occhiello dell’Italia, ma che non ha potuto esserlo, almeno fin’ora, perché opera meridionale.
Infatti noi sappiamo che la sola affermazione ufficiale di questo primato porterebbe immediatamente allo scardinamento di quelle certezze granitiche del nostro immaginario collettivo, che vogliono la supremazia tecnologica del Nord d’Italia come condizione precedente all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie.
Si dimostrerà che così non è parlando del ponte sul Garigliano, ma naturalmente, esistono centinaia e centinaia di testimonianze tecniche, scientifiche e letterarie che ci porterebbero alla medesima conclusione.
Questa del ponte è però particolare in quanto esso è stato oggetto di un recente “restauro-ripristino” che ha dovuto, o avrebbe dovuto, entrare nel merito del suo funzionamento meccanico risvegliando così una competizione tecnica, pur a distanza di oltre centottant’anni, non solo tra gli ingegneri di ieri e quelli di oggi, ma anche tra l’industria padana, attualmente assoluta dominatrice del mercato italiano, e quella del Mezzogiorno d’Italia che lo fu in tempi passati.
Al lettore resterà di certo l’incognita di quello che sarebbe potuta diventare l’industria meridionale, se non avesse subìto quella scellerata quanto scientifica demolizione, camuffata dietro una finta competizione che vide perennemente favorita l’industria settentrionale, illecitamente protetta da dazi a suo favore, imposti dai nuovi governi italiani a partire dal 1861.
Credo anche che il lettore si formerà l’opinione che quella demolizione fu un grave errore, che ancora oggi paghiamo in termini di potenzialità economica e di credibilità internazionale del nostro Paese.
Naturalmente il libro vuole anche essere un testo tecnico-storico alla portata di tutti, capace di fornire una discreta quantità d’informazioni pratiche sull’argomento dei ponti sospesi di prima generazione dove, per l’appunto, quello sul Garigliano rappresentò in l’Italia e nell’Europa continentare del 1832 l’opera più ardita in termini di luce superata, mentre nel mondo fu senz’altro la più avanzata soluzione strutturale del tempo definibile con lo slogan “Semplicemente Perfetta, Perfettamente Semplice”.
Per finire è mio desiderio ringraziare il prof. Luigi Cerritelli, l’ing. Renato Guida e l’ing. Silvestre Mistretta per il loro contributo matematico, scientifico ed ingegneristico, nonché per l’assistenza e tutti i loro saggi consigli che mi hanno aiutato non poco nel completamento del lavoro. Mia moglie Rossana, che ha pazientemente seguito le correzioni ortografiche e lessicali. L’amica Giulia Amato per tutte le sue preziose notizie sui luoghi ove sorge il ponte. I miei figli Luca, Marco, Paolo e l’amico Alan Torrisi per la preziosa coadiuzione informatica e per la bellissima composizione grafica di copertina. Mio padre Giovanni, assiduo e piacevole compagno di viaggio durante le mie missioni sul “Garigliano” e tutte le persone che hanno reso possibile questo libro, che dedico alla memoria del collega ing. Luigi Giura, uomo di specchiata moralità, tecnico e scienziato insuperabile, vanto dell’ingegneria delle Due Sicilie e dell’Italia nel Mondo.-


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