21 maggio 2009    

Una rete Rai alle Regioni? Calabrò: ''Non se ne parla neanche...'' (di Romano Pitaro)
Intervista al Presidente dell'Agcom



Un Paese federalista non dovrebbe prevedere almeno una rete televisiva pubblica gestita alle Regioni?


Secca la risposta, in questa intervista che spazia su più campi,  del presidente dell’Agcom Corrado Calabrò: “Per carità. Già la RAI è rallentata nella sua missione di servizio pubblico da un coacervo di interessi partitici. Creare una rete televisiva gestita dalle Regioni contrapporrebbe Istituzioni a Istituzioni. Corrado calabrò, Presidente dell'Autorità garante delle ComunicazioniAbbiamo già le sedi regionali della RAI che forniscono ogni giorno notizie di carattere regionale. Inoltre, non dimentichiamoci del ruolo svolto in Italia dall’emittenza locale: più di un terzo delle frequenze sono riservate all’emittenza locale:  siamo il Paese in Europa con il più elevato numero di televisioni locali.  Nessun altro Paese in Europa e nel mondo riserva un terzo delle frequenze alle emittenti locali”.

Come si prepara l’Autorità per la Garanzie delle Comunicazioni in questa fase di tensione alle stelle per garantire il pluralismo, la qualità dell’informazione televisiva e la netta separazione fra informazione e pubblicità, ossia  un pezzo decisivo della  Costituzione italiana?

“La qualità dei programmi in televisione non s’impone”,  puntualizza Corrado Calabrò, presidente dell’Authority per le  comunicazioni da quattro anni. Che aggiunge: “La si ricerca con impegno, se si crede in essa. Noi possiamo cercare di spostare l’asticella verso l’alto, ma non più di questo. Innanzitutto, interveniamo nei confronti dell’emittente che svolge l’attività di servizio pubblico radiotelevisivo. Ad esempio, abbiamo imposto alla RAI di introdurre un sistema interno di verifica ex post della qualità percepita (dai telespettatori) nei propri programmi (il cd. qualitel), in modo che il palinsesto non sia orientato solo alla massimizzazione degli ascolti ma anche all’incremento della qualità della programmazione, ch’è la vera missione del servizio pubblico. Da un punto di vista più generale poi, l’Autorità cerca di influenzare il livello medio della televisione facendo entrare nel mercato nuovi operatori e fornitori di contenuti indipendenti che possano aumentare la qualità dell’approfondimento e dell’intrattenimento televisivo”.

Come giudica la sovrapposizione tra informazione e pubblicità e la sovrapposizione tra spettacoli di intrattenimento e promozione commerciale?

Per la televisione commerciale è inevitabile; d’altronde queste tv si finanziano con la pubblicità: il mercato vuole questo. Vede, il male non sta di per sé nella pubblicità, la quale spesso è di ottima fattura  e creativa. Il male sta nel sottomettere le trasmissioni al dominio dei pubblicitari. In Francia il criterio di sopprimere la pubblicità in alcune ore serali nella
Tv di Stato pare che non abbia funzionato. Ma anche la Spagna si sta mettendo
su quella strada. Comunque il criterio tendenziale dovrebbe essere questo: il canone deve servire a finanziare quei programmi che il mercato spontaneamente non sarebbe in grado di fornire al pubblico e non già a replicare analoghe trasmissioni presenti nel palinsesto delle tv commerciali. Altre  televisioni, come la BBC, ci forniscono modelli apprezzabili per la separazione del servizio pubblico dalle trasmissioni commerciali. Lei ha asserito che i programmi del servizio pubblico e quelli della tv commerciale hanno subito un’omologazione al ribasso che “sbiadisce la missione del servizio pubblico e colloca la nostra televisione al di sotto di altre televisioni europee”. Un'altra immagine di Corrado Calabrò, mentre interviene in un convegno


A suo avviso, la poca attenzione per la realtà meridionale da parte del servizio pubblico è figlia di questa anomalia o ha altre ragioni?

Io non parlerei di una questione meridionale:  Rai tre fa ogni tanto dei buoni servizi sulla Calabria, piuttosto direi che, in generale, il servizio pubblico è spesso poco attento a tutte le realtà del Paese, dal Nord al Sud; intendo le realtà importanti, non i fatterelli di cronaca, o di cronaca nera. Ricordiamoci del ritardo con cui è stato analizzato il fenomeno del Nord-est”.

L’Agcom ha ricevuto 60mila segnalazioni. Ha irrogato, lo scorso anno, sanzioni per 8 milioni di euro. E’ intervenuta contro le clausole capestro dei contratti, contro la fatturazione di servizi non richiesti, contro i ritardi negli allacciamenti e malfunzionamenti vari. Presidente, chi le dà più filo da torcere?

“Vede, il settore ha dato grandi benefici ai consumatori; è infatti l’unico che negli ultimi dieci anni abbia visto diminuire costantemente i propri prezzi. Sono inoltre stati introdotti nuovi servizi, nuovi apparecchi, nuovi software, nuovi contenuti. È però indubbio che esistono ancora patologie legate al rapporto consumatori-operatori. Soltanto nelle ultime settimane abbiamo irrogato ai gestori fissi e mobili sanzioni per circa 3 milioni di euro
per violazione delle norme in materia di portabilità del numero, servizi non richiesti ed indici di qualità”. 


L’Italia ha il primato, tra i Paesi europei, dei trasferimenti di numeri telefonici da un operatore all’altro. Questo che significa?

“Significa che il mercato fondamentalmente funziona, e che gli operatori si
fanno concorrenza sottraendosi reciprocamente clienti. In particolare, la mobilità del numero è fondamentale per assicurare agli operatori che entrano ora di poter competere ad armi pari con le imprese già presenti sul mercato. È quindi senz’altro un segno di salute del settore. Con la prossima campagna elettorale, l’Agcom sarà chiamata a tutelare il pluralismo”.


Cosa fare per evitare le solite polemiche?

Le polemiche sono inevitabili, soprattutto durante le campagne elettorali in cui infuria la polemica e la posta in gioco è molto elevata. In quei momenti è importante che chi presiede una Autorità di controllo non si faccia coinvolgere da attacchi che alle volte sono anche molto aggressivi. Ma se ciò avviene in tutte le tornate elettorali, è anche vero che poi, quando la situazione si è calmata, tutti, anche quelli che inizialmente ci hanno criticato, ci danno atto di aver esplicato il nostro dovere con rigore, equilibrio e obiettività. Un riconoscimento, questo, che ci è venuto anche da organizzazioni come l’OSCE e il Consiglio d’Europa, molto attente ai diritti dell’uomo e al funzionamento delle democrazie parlamentari”.
Le campagne elettorali si fanno quasi interamente in televisione. A suo avviso,  siti di social networking (YouTube o Facebook) sono soltanto complementari rispetto ai grandi players fornitori di contenuti tradizionali?


“È certamente un altro mondo, sono altri servizi, che tendono a una
maggiore interazione nella comunicazione. E siccome le ore del giorno sono sempre 24, se un ragazzo passa il proprio tempo davanti al Pc è chiaro che sta sostituendo la tv tradizionale con qualcos’altro. In particolare, c’è una tendenza mondiale alla graduale riduzione del consumo televisivo a fronte di un deciso aumento del tempo speso davanti ad internet. Obama, nella sua recente campagna elettorale, ha fatto leva su rapporti via Internet, che danno l’impressione di essere personalizzati; in realtà centinaia di persone rispondevano, per lui, sul suo sito. Ma in Italia la comunicazione in televisione a fini politici e elettorali è ancora predominante”.


Ha parlato, nella sua ultima relazione al Parlamento, di un mutamento ontologico delle trasmissioni televisive che mirano ad informare il pubblico. Forse erano meglio le classiche tribune elettorali?

Forse, ma il mondo sta andando avanti e non possiamo di certo tornare indietro. E’ necessario però applicare i principi di obiettività, lealtà e corretta informazione. Il linguaggio televisivo tende ad essere sincopato, anziché ragionato. L’affermazione perentoria fa premio su quella argomentata, quand’anche non rispondente alla verità. Spetta al conduttore guidare la trasmissione con grande professionalità senza scivoloni che fuorviino l’opinione pubblica”.

La multimedialità in Italia in cosa si differenzia rispetto agli altri Paesi?

Da noi la tv generalista la fa ancora da padrona. In effetti, in Italia la bassa alfabetizzazione informatica della  popolazione italiana rende il presidio della tv tradizionale ancora forte. Ma le cose stanno cambiando anche da noi. Soprattutto per una fascia della popolazione, che ora ha accesso al satellite, a internet ed anche alla tv in mobilità. Non
vorrei però che vi fosse una crescente divaricazione tra chi accede alle
nuove piattaforme trasmissive e chi invece dipende unicamente dalla televisione gratuita. In sostanza il mio timore è che al tanto dibattuto digital divide geografico si sovrapponga una forma più strisciante e meno appariscente, quella di un vero e proprio cultural divide tra differenti fasce della popolazione italiana”.


In Europa il passaggio al digitale è in forte avanzamento, nel 2007 si
sono avuti 71 milioni di utenti. In Italia a che punto siamo?


“Come spesso accade in Italia, anche per la tv digitale abbiamo avuto un percorso non lineare, di stop and go, a seconda delle decisioni prese dai Governi che si sono succeduti in questi ultimi anni. Ma ora ci siamo rimessi in carreggiata: oltre il 50% delle famiglie italiane dispone di un accesso televisivo in digitale e la Sardegna, in cui il passaggio è già avvenuto, oggi la più vasta area all digital in Europa.  Ad essa si uniranno, già nei prossimi due anni, tutte le più grandi regioni italiane, fino ad arrivare al 2012 in cui tutto il Paese sarà in digitale”.

Un Paese federalista non dovrebbe prevedere almeno una rete televisiva pubblica gestita dalle Regioni?

“Per carità. Già la RAI è rallentata nella sua missione di servizio pubblico da un coacervo di interessi partitici. Creare una rete televisiva gestita dalle Regioni contrapporrebbe Istituzioni a Istituzioni. Abbiamo già le sedi regionali della RAI che forniscono ogni giorno notizie di carattere regionale. Inoltre, non dimentichiamoci del ruolo svolto in Italia dall’emittenza locale: più di un terzo delle frequenze sono riservate all’emittenza locale: siamo il Paese in Europa con il più elevato numero di televisioni locali. Nessun altro Paese in Europa e nel mondo riserva un terzo delle frequenze alle emittenti locali”.

Quali storture sono più gravi avendo come metro di misura esclusivamente l’audience?

“L’esasperazione dell’audience falsa l’impostazione e la percezione delle trasmissioni.  L’audience certo è un aspetto che una TV che si finanzia con la pubblicità non può trascurare, ma la dipendenza quasi ossessiva dall’audience minuto per minuto (il cosiddetto minutaggio), è questo  che strozza, è questo che fa abortire trasmissioni valide, è questo che non consente di seminare il seme della qualità oggi, dandogli il tempo di germogliare. Il  gusto si educa, si forma nel tempo. In questo la televisione a pagamento è avvantaggiata rispetto a quella gratuita e generalista. Infatti tutto il mondo registra una diminuzione di ascolti a vantaggio della televisione  on demand.  Questa punta a creare un bouquet complessivo di programmi che copre una porzione assai ampia degli interessi dei telespettatori (dall’informazione alla cultura, dallo sport al cinema, dal tempo libero ai servizi di utilità); ciò in modo da spingere i consumatori a spendere per acquistare i servizi televisivi. L’altra faccia della medaglia di questa offerta è però che, essendo a pagamento, solo una parte limitata di cittadini può accedervi. Da qui il ruolo del servizio pubblico, che, pur essendo necessariamente gratuito, non deve sparare nel mucchio ma deve offrire un adeguato ventaglio di contenuti di qualità. I processi che si fanno in tv e nei mezzi di informazione suscitano perplessità, specie quando si anticipano le sentenze di un regolare processo o quando addirittura si creano mostri”.

Lei aveva proposto un codice per disciplinare questi specifici aspetti all’Ordine dei giornalisti?

“Quando si espone alla gogna mediatica qualcuno che non è stato condannato, la sua reputazione viene lesa in una maniera che praticamente non viene più reintegrata. E' come quando si rompe un bicchiere: puoi pure incollare i vari pezzi ma non si torna più al bicchiere com'era prima che fosse rotto. È in questo contesto di sovrapposizione della rappresentazione alla realtà, di avvaloramento della realtà mediante la rappresentazione televisiva, che si colloca la trasformazione dei processi giudiziari in processi mediatici. Il livello di civiltà di uno Stato si misura innanzitutto dal rispetto per la giustizia, e da un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Ma non si può supplire ai tempi troppo lunghi della giustizia trasferendo il giudizio dalle aule giudiziarie alla televisione. La tecnica della spettacolarizzazione dei processi, che le trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, amplifica a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie che, per il loro carattere spesso semplicemente prodromico e cautelare, potrebbero nel prosieguo del processo anche rivelarsi infondate, con il rischio della degenerazione della trasmissione in una sorta di “giudizio sommario in diretta” che può diventare già esso stesso una condanna preventiva, inappellabile e indelebile. Col risultato ulteriore che, quando la sentenza interviene nella sede giudiziaria, se è conforme all’esito del “processo in Tv”, il pubblico la percepisce come una tardiva rimasticatura di quell’esito tempestivamente raggiunto; se, poi, è difforme la percepisce come una deviazione da quell’esito che nella mente di buona parte della gente è rimasto impresso come quello giusto. È per questo motivo che l’Autorità è più volte intervenuta in materia, con atti di indirizzo che hanno tentato disciplinare una materia così spinosa ma così centrale in uno stato di diritto, perché si tratta di conciliare valori costituzionali diversi: tutela della persona, ma anche tutela del diritto d’informazione, che comprende il diritto di informare e di essere informati. Saluto pertanto  con soddisfazione che, dopo un anno di laboriose riunioni, un gruppo di lavoro costituito presso la mia Autorità e composto da rappresentanti delle emittenti televisive, della stampa, dell’Università, da ex presidenti della Corte costituzionale e da un rappresentante del Consiglio superiore della magistratura, ha raggiunto l’accordo su un codice di autoregolamentazione che mira a inquadrare correttamente la trasmissione dei processi in Tv”.  

Si riflette sulla riforma della Rai, qual è la sua opinione? Tempo fa lei ha detto che la “ Rai è  “paralizzata da spinte e controspinte politiche” e che “non può competere e non può nemmeno funzionare, accettabilmente, combinata com’è.” Conferma?

“Confermo e sottoscrivo. L’ho detto così tante volte che oramai rischio di essere ripetitivo. Uno dei miei obiettivi è che alla fine del mio mandato la RAI arrivi ad offrire un servizio migliore rispetto a quando, quattro anni orsono, sono stato nominato alla guida dell’AGCOM. Gli ultimi sviluppi, con la predisposizione di nuovi programmi (RAI 4 e RAI Storia), sono finalmente incoraggianti; ma molto rimane da fare, soprattutto con riguardo all’abbraccio soffocante tra la RAI e la politica”.

Il mercato richiede lo sviluppo dell’alta velocità di dati, banda larga e ultra larga; il tasso di penetrazione della banda larga rimane, però, appena del 17,8 per cento mentre in Europa mediamente è del 23,3 e nel Paesi asiatici supera il 30. La stessa Agcom ha rilevato che l’Italia è in ritardo non solo in termini di diffusione, ma anche di qualità delle connessioni broadband, cioè ha velocità  di connessione più basse che altrove. In pratica da noi solo il 27 per cento degli utenti ha capacità di connessione con capacità di banda superiore ai 4 Mbps mentre negli Usa siamo al 41, Germania e Regno Unito al 46, Francia 54, Giappone 86. Si è di fronte a una debolezza italiana che dipende da che cosa?

“Da tre ostacoli di natura strutturale: la bassa alfabetizzazione informatica delle famiglie italiane; la storica assenza di infrastrutture alternative a quella in rame di Telecom Italia; e dal fatto che quando, in anticipo sui tempi, la SIP-STET col progetto Socrate programmò di collocare la fibra ottica nelle grandi città, venne stoppata.  Dal lato della domanda, è chiaro che se una persona non sa neppure usare un pc, sarà estremamente difficile che valuti l’acquisto di servizi internet a larga banda. Quindi la scarsa informatizzazione del Paese la scontiamo inevitabilmente con una bassa penetrazione del broadband. Dal lato dell’offerta, la dipendenza dell’intero settore dalla vecchia rete in rame limita le possibilità di offerta dei nuovi servizi convergenti da parte degli operatori, e quindi stimola meno gli utenti a domandare tali servizi. Non sono più i tempi delle Partecipazioni statali e d’altra parte da noi lo Stato non può intervenire come in Cina, in Corea, in Giappone, dove il Governo progetta di spendere 50 miliardi di dollari nell’infrastrutturazione del Paese con fibra ottica, prevedendo di averne un ritorno, in termini  di PIL, di 1.500 miliardi. Allo stesso modo si sta muovendo l’Australia. Noi siamo frenati da due cose: le regole comunitarie e la mancanza di mezzi finanziari pubblici da destinare allo scopo. La palla è quindi necessariamente agli operatori, e in primo  luogo a Telecom”.

C’è anche una questione meridionale in questo scenario?

C’è una questione nazionale. La larga banda dovrebbe essere ubiqua, ossia dovrebbe arrivare dappertutto, al Sud come al Nord. Lo dico io da tempo, ma ora lo dicono pure i Governi del Sud Est e dell’Oriente asiatico; lo dice, ultimamente, anche Obama. La diffusione del broadband è una grande questione non solo per il settore, ma anche per la crescita dell’intero sistema economico e per lo sviluppo sociale e democratico delle democrazie mature”.

C’è una relazione tra sviluppo delle infrastrutture a banda ultra larga  e sistemi economici?

“Assolutamente sì. È stato scientificamente dimostrato dagli economisti che le reti di comunicazione sono il più grande fattore di sviluppo dei sistemi economici avanzati. E questa relazione di causalità che va dalla reti al prodotto interno di una nazione è di tipo non lineare: ossia esiste una soglia, in termini di copertura delle reti (attorno al 50% della popolazione), che occorre superare affinché gli effetti sul PIL diventino considerevoli”.

Lei asserisce che le infrastrutture, nel campo delle comunicazioni elettroniche, dell’energia, dello smaltimento dei rifiuti, dell’alta velocità ferroviaria e delle metropolitane, sono il problema dell’Italia di oggi. Ma lei sa che in Calabria l’intero sistema viario è un colabrodo e che per ricevere delle foto via mail da Mongiana (Serre calabresi) a Catanzaro l’operatore del Comune impiega tre giorni a causa delle difficoltà della rete?

“Il fatto che il broadband rappresenti una questione nazionale non toglie che un intervento locale (di natura regionale o municipale) sia spesso utile, se non addirittura necessario. Esistono in tutto il mondo, ed in particolare nel Nord Europa (a Stoccolma, Amburgo, Rotterdam), importanti esempi di interventi delle amministrazioni locali che hanno portato alla creazione di reti municipali a larga banda. La strada alla ultrabanda può anche passare per una rete di infrastrutture locali interconnesse, piuttosto che per un’unica rete nazionale. Così si sta procedendo in Emilia, in parte del Veneto, nel Trentino Alto Adige; in Calabria qualche iniziativa in tal senso è stata avviata a Crotone”.


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