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6 maggio 2009
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Il Gobbo del Quarticciolo: un saggio di Bruno Gemelli (di Romano Pitaro)
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Qui ci vorrebbe un Gobbo. Anzi il “Gobbo del Quarticciolo”. Per i romani, che non l’hanno mai dimenticato, “il re degli impuniti”. Lui sì, saprebbe cosa fare. Reciderebbe i nodi che affaticano l’Italia dei nostri giorni. Non si attarderebbe in sofismi. E poi s’approprierebbe di una banca. In Calabria, poniamo, il Gobbo saprebbe come azzerare il debito della sanità. Senza trattative: via tutto ciò che è muffito. Lancerebbe dal balcone la burocrazia corrotta e, una volta risanato il bilancio, destinerebbe buona parte delle risorse alle sue cliniche private. E’ il suo stile: un’azione buona e una scellerata. Abile col coltello, ma non solo. Per diventare “eroi” serve astuzia. E lui, un poveraccio di Gerace, s’è ficcato in un crocevia decisivo della storia italiana. Tra l’estate del ’43 e giugno del ’44. Al punto da far congetturare che l’ordine di eliminarlo sia partito da Togliatti. Dopo la sua fine, la leggenda. E scoppia la stagione (ma è mai terminata?) dei misteri italiani. Non a caso, il mio professore di filosofia al Galluppi di Catanzaro, Giuseppe Plastino, colto e fascista, chiamava Andreotti “il Gobbo del Quarticciolo”. Non per l’analogia dell’incurvatura. Ma per il suo essere al centro di trame e doppiezze. Quelle che hanno stritolalo il vero “Gobbo del Quarticciolo”. Partendo da una condizione miserrima: povero in canna e nella Calabria affamata degli Anni ’30 e ’40. Urtando poteri in via di assestamento e provocandoli con la sua indole di malandrino indisciplinato, di strada il Gobbo ne ha fatta. Se è vero che di fame non è morto. Ma sparato. Il 16 gennaio 1945. Nell'androne di un palazzo di via Fornovo 12 nella Roma città aperta. Sei proiettili. Uno alla testa. Da chi? Perché? Dai carabinieri che lo cercavano per la morte di un militare inglese? Da una spia dei nazisti, Er Cipolletta, un killer assoldato dagli infiltrati del circolo “Unione Proletaria”? O dai comunisti che lo consideravano “una scheggia impazzita della Resistenza”? Ecco il primo mistero dell’Italia liberata. Che per alcuni versi anticipa l’altra messinscena italiana: la morte di Salvatore Giuliano. Non solo abile di coltello. Vista la pagina di storia in cui giganteggia, sebbene l’ufficialità della Resistenza abbia espulso ogni contaminazione con la malavita romana, e l’apporto dato alla liberazione con la scelta di stare con i partigiani (ma sempre da bandito), l’arguzia al Gobbo non è mancata. Lo scavezzacollo di Gerace, dov’è nato il 1926, se vivesse oggi, sarebbe un politico callido. O un boiardo di aziende para-pubbliche. O un esponente dei poteri occulti. E non se ne starebbe in disparte. Si comporterebbe da par suo: da bandito (non si sa quante persone abbia ucciso) e da partigiano ( un mito nella Roma in lotta contro i nazisti). Una vita violenta, che a un certo punto tifa per la democrazia. E poi si fa turpe. Ha imparato alla scuola dei poveri calabresi “il Gobbo del Quarticciolo”. Di lui non si sa molto. Neppure della gobba. Se è stato un dono di natura o le botte della madre. Ma un saggio di Bruno Gemelli (edito da Città del Sole), ci ragguaglia sull’essenziale. Certo, avesse incontrato sulla sua strada un Victor Hugo, scrive Pasquino Crupi, che sigla l’introduzione, a quest’ora del Gobbo sapremmo anche quanti peli aveva nel naso. In particolare, “Il Gobbo del Quarticciolo: vita e morte del calabrese Giuseppe Albano”, dà conto del suo soggiorno calabrese e della sua “adolescenza aspra”. Dalla nascita fino a 14 anni: Gerace prima. Locri dopo: garzone di un barbiere, in un bar, in un emporio. Già era un capo, con la fionda e la mira micidiale; e lo sguardo del lestofante. Prima di diventare il mitico “ Gobbo del Quarticciolo”, Albano è un calabrese del suo tempo. Emigrato, all’età di 14 anni, nella Roma Sud-Est dei quartieri popolari: Quarticciolo, Tor Pignattara, Centocelle, Quadraro. Covi di partigiani inaccessibili peri i nazifascisti. A Roma iniziano ad arrestarlo per furti. Fin quando diventa il capo della sua feroce banda al Quarticciolo. Divenuto un mito della resistenza ( i contatti con il Gobbo li prese Aldo Natoli, dirigente comunista, in seguito tra i fondatori del Manifesto e più in là Franco Napoli, socialista calabrese) il 10 settembre del ’43, il Gobbo affronta un manipolo di tedeschi in perlustrazione. Partigiano a suo modo: mirava ad uccidere e infliggere castighi. Qualche mese dopo, ammazza tre tedeschi e la reazione dei nazisti fu spietata. Furono catturati tutti i gobbi di Roma, si salvò grazie all’aiuto dei partigiani. Italia libera, l’organo del Partito d’Azione cosi lo descrisse: “E’ il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo…” Poi la svolta: la cattura da parte della Pai (Polizia Africa Italia) e il carcere di via Tasso, dove i nazisti praticavano la tortura che lui evitò. Anzi i nazisti lo impiegarono come barbiere. Fu l’unico tra gli arrestati dopo la strage delle Ardeatine (in cui morirono quattro calabresi) a non essere fucilato. Di qui i sospetti di tradimento. Destinati ad aumentare quando, fuori dal carcere, lavora con la Questura. Si avvicina all’area ambigua di coloro che tentano di riciclarsi, saltando sul carro del vincitore e stringe un sodalizio con “Er Guercio”, squadrista della prima ora, deciso a impedire che i comunisti prendessero il potere. Corrado Alvaro in “Quasi una vita” lo stronca: “Il Gobbo del Quarticciolo era in rapporti con la monarchia. Sempre la monarchia, quando deve difendersi con la violenza, si allea con la criminalità lazzarona”. Fino a 14 anni un miserabile, a 17 un capobanda rispettato in tutta Roma e a 18 anni e 8 mesi assassinato. Vita breve, ma quando un carattere forte incrocia un’epoca storica ribollente il tempo non conta. Giuseppe Albano al centro di trame, doppiogiochisti e misteri altroché se c’è stato. Non si è ritratto, perché la povertà lo obbligava a stare al gioco. Ma il gioco lo conducevano altri nella Roma borghese, papalina e ministeriale. Il gustoso saggio di Gemelli fa il punto sul vero “Gobbo del Quarticciolo”. Sottraendolo, per la prima volta, all’iconografia nazionale, partigiana o complottarda amplificata dal cinema (il film di Carlo Lizzani è del 1960 ed ebbe tra gli attori Pasolini nel ruolo di “Er Monco”, il numero duo della banda del Gobbo) e dalla pubblicistica. Spesso si è esaltata la globalizzazione, di cui ora non si contano i detrattori, perché caccia le vite umane nel bel mezzo dei flussi storici per un nonnulla. Sicché anche il più sperduto sfigato del mondo, può assurgere alla notorietà. Ma non ha avuto bisogno della tv, di facebook, Google o Twitter il malavitoso di Gerace, per ficcarsi nel groviglio da cui è nata la Repubblica italiana. Come ha fatto? Domanda oziosa. Quando mai un carattere puntuto, benché contrastato, non conquista lo spazio che la sua intraprendenza esige? E’ questa la storia del Gobbo di Gerace. Divenuto, non per merito dei media o dei social network, un paladino della Resistenza romana durante i 271 giorni di occupazione nazista. Protagonista di film, favole, riti e miti. Eroe a metà: bandito e partigiano. Spiega Gemelli: “E’ stato una vittima della povertà e della crudeltà calabrese, uno dei tanti caduti nella lotta per la vita. Se la verità sciogliesse mistero e ambiguità l’avremmo già dimenticato”. A Gerace usava la fionda. E se schernito l’ira lo accecava. A Roma, costretto a stare nel serraglio delle borgate, per imporsi cavava la pistola. Ma “il nemico pubblico numero 1 di Roma” ( cosi scrisse dopo la sua morte il giornale dell’Azione Cattolica), che indossava una tuta da aviatore americano col bavero d’agnello, nulla poté contro forze superiori che lo tolsero di mezzo appena capirono di non averne il controllo. Chi è mosso da compassione per questa vittima della prima trama eversiva dell’Italia post fascista, sappia che è stato ripagato dalla notorietà. Le sue gesta hanno fatto il giro del mondo. Ispirando cineasti, morbosi noir e direttori di rotocalchi. Né le donne gli sono mai mancate. Un tombeur de femmes. A parte la fidanzata, Iolanda Ciccola, poi laeder di “Sinistra Rivoluzionaria”, Gemelli racconta di suoi “strabilianti incontri femminili”. Le cronache assicurano “che era molto gettonato dalle donne. Quando lo seppellirono, ci fu una processione femminile”. Nell’ora della morte l’amore non gli è mancato. Il mistero, invece, l’ha tormentato anche da morto. La sua salma è rimasta, è vero, al Verano. Ma all’anagrafe mortuaria dei cimiteri capitolini e nei database di quella salma non c’è traccia. Trafugata? Da chi? Non è che la sua morte è stata una farsa e il Gobbo è ancora vivo? Se cosi fosse, potrebbe essere lui il “Grande Vecchio” - evocato mille volte - dell’Italia dei misteri, dei servizi segreti deviati e delle trame.
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