7 aprile 2009    

Perché i media nazionali ignorano Saverio Strati (di Romano Pitaro)


Lo scrittore Saverio StratiUna cavalcata di messaggi  e un’impennata di risvegli. Affetto e  solidarietà  per Saverio Strati.  Tutto qui? Forse no.  Però, anche se la giostra si fermasse ora, sarebbe una bella lezione. Intanto,  non si creda che Strati e il suo dolore (ha denunciato in una lettera al Quotidiano della Calabria una condizione di grave disagio economico)  sia un affare solo calabrese. E’ invece una ferita enorme, che riguarda l’intera Italia.  L’abbandono di Strati è il risvolto di ciò che Gian Enrico Rusconi (L’Unità del 3 febbraio) ha definito “un Paese decaduto e  sfaldato, in preda a un imbarbarimento dei costumi”.      
Lo spettacolo mediatico nazionale  ogni giorno tritura migliaia  di notizie. Però di Strati neanche un rigo o un’immagine. Se un uomo della tempra dello scrittore di Sant’Agata del Bianco, è costretto a confessare: “Non ho i soldi per la spesa”,   l’Italia dei grandi giornali e delle tv spazzatura non gli riserva neanche  un box  in terza o uno spazio a tarda sera. 
Badate: neanche un rigo su un foglio nazionale. La moglie di Bonolis è intervistata da riviste importanti,  ma Strati, scrittore da cui non si può prescindere  per capire la narrativa italiana contemporanea e il meridionalismo,  è ignorato. Morto vivente che cammina. E forse, col suo  fardello di citazioni classiche,  infastidisce il  sistema mediatico che per non incepparsi deve ingurgitare tir di  banalità. Contro  questo demonio che ha eletto l’istantaneità a proprio ideale supremo e  solletica il peggio della “società inselvatichita” all’insegna dell’ottimismo di maniera,  Benedetto XVI e il cardinale Bagnasco forse  dovrebbero  osare di più.
Ma se cosi è per i giornali, la tv pubblica nazionale, che non nega una ripresa  neppure  a pluriassassini rei confessi, su Strati avrà fatto chissà quanti servizi,  per  amplificare il suo j’accuse  e sensibilizzare  l’opinione pubblica. Macchè!  Su Strati, nel mezzo di un guazzabuglio  di programmi demenziali e senza qualità, messi all’indice persino dalla relazione rassegnata al Parlamento dal  Presidente dell’Autorità per le Comunicazioni, niente di niente.
Nel suo saggio (La veduta corta, il Mulino),   Tommaso Padoa Schioppa ricorda  che nel novembre del 2008 la regina Elisabetta d’Inghilterra, in visita alla London School of Economics, a proposito del disastro finanziario, chiede: “Perché nessuno se n’è accorto?”  La risposta è, appunto,  lo sguardo corto della società.   Il dantesco “Or chi s’è tu che vuò sedere a scranna/ per giudicar di lungi mille miglia/con la veduta corta di una spanna?”
Bè, l’indifferenza verso Strati  è il segno di “quella veduta corta” dei nostri giorni. Che affligge come un cancro  anche  i media. Impastati in un nichilismo  che non spinge a  occuparsi  delle cause degli eventi  e li induce ad appiattirsi sull’istante, proprio come si conviene alla “modernità liquida” 
descritta mirabilmente  da Zygmunt Bauman.
Inoltre, un  autore prestigioso come Strati ha il torto di essere calabrese e di non avere santi in quel paradiso dove Fabrizio Corona è un  dio  ai cui piedi s’inchinano le agnostiche folle televisive. Indoviniamo  che c’è un  Paese senza più  memoria,  leggendo le dure  parole di Strati. E che se una
regione non conta nelle stanze dei bottoni del potere politico, che tutto muove (specie nella tv pubblica), anche i suoi figli di talento sono messi da parte. 
Del resto un Paese che, nel cataclisma economico   mondiale, per non smarrirsi del tutto  crede per davvero che gl’immigrati siano il male assoluto, come potrebbe occuparsi di Strati e dei suoi libri?   Come potrebbe interessarsi dell’autore del Selvaggio di Santa Venere, il  mostro mediatico che riflette e amplifica, fin nelle pieghe più nascoste il disorientamento generale?
Ha ragione Aldo Grasso, quando dice che è tutto un autoscatto: i premi mondiali, persino lo Strega (pare si sappia già il nome del prossimo vincitore), ma soprattutto la tv italiana che si parla addosso “ e non ama  confrontarsi con le alterità”. 
Questa è l’andazzo. Caro Strati. Dunque,  si rassegni al tempo che viviamo. E ad entrate nel pantheon dei grandi,  ma  post mortem.  La Calabria, che avrebbe interesse a valorizzare un protagonista del suo spessore, dato che il suo “non essere” nel circuito dei media che influenzato l’immaginario collettivo, dipende anche dal fatto che non ha  uno scrittore potente  e di successo che ne racconti le vicissitudini,   è   impotente. Non ce la fa a infilarla in uno dei tanti contenitori mediatici nazionali perché, nel cliché imperante, essa può generare solo  delitti, mafie, sfracelli ambientali e ruberie.    
In un Paese normale, “E’ il nostro turno”, avrebbe dovuto  essere il manifesto di  un’intera generazione di nuovi  politici tenuti  nelle retrovie.
O di una generazione conculcata da anziani leader che non mollano neanche se li scotenni: in politica, nel sindacato, nell’imprenditoria e nelle varie Accademie.  E’ invece  il titolo, dimenticato,  di un grande libro di Strati (Mondatori 1975). Di cui gli italiani di questo secolo  non sapranno mai nulla dalle tre reti della Rai, dai giornali più  venduti e  dai   magazine infarciti di pubblicità. 

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