11 febbraio 2009    

Quale futuro per le aree interne? (di Romano Pitaro)


S’aggira un fantasma inquieto per le strade gonfie d’acqua della Calabria. Quasi si materializza, ogni volta che si esprime stupore per smottamenti e disastri. E’ il fantasma delle aree interne con cui ci si ostina a non voler fare i conti. Segno di una politica minimale.
Se uno ci capita in inverno, nei “paesi ombra” della Calabria, non vedrà detriti di case, forni, chiese, piazze, ma un paesaggio d’oltretomba: anfratti senza vita e l’ assenza di rumore che non è silenzio. Un'immagine dell'antico centro storico di FabriziaAll’imbrunire, è come violare una zona di confine. In Italia “piccolo è bello”. La qualità della vita nei 3644 borghi con meno di 2000 abitanti (di cui la metà è a rischio estinzione) è alle stelle, prospera il turismo ed il commercio. “Piccolo” in Calabria, specie se in collina e in montagna, va invece coniugato con disastro. Cosi se l’ “osso” è abbandonato, i guai scivolano violentemente sulla “polpa” delle coste.
Come non capirlo? Un fantasma: d’altronde anche i luoghi muoiono, benché gli antropologi sostengano il contrario. Perciò è tempo d’andare oltre la possibilità di sostenere che vivo è anche ciò che non palpita. Se c’è fetore di morte tra i borghi delle Serre, dell’Aspromonte e della Sila, dove lo sguardo della modernità neppure arriva, un allarme bisogna pure lanciarlo.
Non per salvare le tante “Cleto” o le montagne dagli sventramenti, quella è una fase superata. Ma per dare l’eterno riposo alle aree interne e poi chiamare i becchini, per evitare che dalla putrefazione dei cadaveri si sprigionino altri veleni.
Esistenze costrette all’immobilismo, con le stimmate della necessità impresse sul corpo: è la sola umanità che resiste in quelle zone. Anime in cerca di un senso; dialogo pubblico che ristagna; tristezza negli occhi dei giovani pronti ad emigrare, che si tramuta in angoscia quando la partenza è impossibile, perché non c’è più un buco nel mondo in recessione dove sbarcare il lunario.
C’è una Calabria morta fra le colline ed i boschi. Dagli stupendi scenari incontaminati, ma che ha perso il contatto con la modernità. Che con dignità soffre e attende che qualcuno scriva l’epitaffio: “estinta per dimenticanza”. E’ la povertà sobria, che per pudore non stende la mano e si tortura in piedi S’offende se non le parli, anche se non l’aiuti: attitudine antica del fatalismo che giustifica ogni cosa.
Mentre a questa umanità non è concesso altro che ritrarsi, in assenza di un progetto complessivo di rilancio, i vuoti lasciati liberi nell’entroterra sono colmati dalla speculazione economica e dalla criminalità. Lembi di terra e di società sono risucchiati dal sottosviluppo e dalle sue piaghe. Uomini e donne che hanno addirittura creduto di poter cambiare il mondo ( le lotte dopo le alluvioni a Fabrizia e Nardodipace sono assurte a simbolo della voglia di riscatto sociale della Calabria).
La modernità nelle aree interne è giunta con la tv e i telefonini; il resto se n’è rimasto sulla costa, tra i rimbombi delle discoteche e gli sfracelli urbanistici. La Trasversale delle Serre, il sogno di unire in un baleno i due mari al cuore verde e spirituale di questa parte del Mezzogiorno, pensata nel 1966, è una vergognosa incompiuta.
Il discorso da farsi è lungo. Oggi però non si può che guardare con realismo all’epilogo di un tormentato viaggio: la bandiera è ammainata e le forze sono scemate. Sicché la riflessione non può indulgere sulla tiritera nostalgica dell’abbandono, perché si è dopo l’abbandono. E viste le strettezze del bilancio dello Stato e la crisi finanziaria mondiale, non c’è neppure la speranza di un miracolo che ridia una chance a piazze senza popolo, edifici cadenti, montagne sventrare.
Se residua un po’ di lucidità nella società calabrese, non c’è tempo da perdere. Serve un elettroshock. Dopo una ricognizione dei luoghi. Da quanto tempo lo Stato non ci mette piede? Le aree interne forse non stimolano il senso estetico della nostra politica. Eppure altri, più blasonati, ci sono andati. Nelle Serre è giunto anche Luigi Einaudi, il Presidente della Repubblica ha dato conforto agli alluvionati del ’51; e a Fabrizia, ai 250 rimasti senza casa, regalò 2000 lire ciascuno. Da quella visita sembra siano trascorsi secoli.
In realtà, neanche ad Einaudi riuscì di risolvere granché, cosi qualche tempo dopo scrisse al Capo del Governo (nelle Serre De Gasperi ci andò nel ‘53) : “Mi chiedo che paese sia il nostro, se nel 1951 si scrivevano cose che ancora oggi non trovano nessun tipo di attuazione?”
La Calabria - è stato detto cento volte - senza le aree interne, dove si è svolta la sua storia, la sua vita economica, religiosa, senza la tutela, la salvaguardia e la valorizzazione dei paesaggi, dei prodotti e delle ricchezze architettoniche dell’entroterra, sarebbe poca cosa. Il mare e le coste, sempre più congestionate, affollate un mese all’anno, il turismo e la cultura, sono strettamente legate al destino della zona interne.
Ma questa consapevolezza non basta più. I paesi interni sono già terra desolata, in un decennio i crolli demografici toccano punte del 40/ 50 per cento. Né possono accontentarsi delle analisi sugli errori dei gruppi dirigenti che hanno svuotato il Sud. Tanto meno di teorie che mirano a fondare “un’etica ed un’estetica del restare”. Troppo poco.-

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