2 febbraio 2009    

Hanno mirato in alto (di Enzo Ciconte)


Il 16 ottobre 2005, a Locri veniva ucciso Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria. Un delitto atroce, come tutti gli omicidi, ma anche sfrontato perché commesso davanti a molti testimoni con l’arroganza di chi si sente sicuro di poter tenere una pistola in mano ed avere il volto scoperto perché confida che nessuno oserà testimoniare.
 Lo scranno in Consiglio regionale di Francesco Fortugno
Nessuno immaginava che potesse accadere un fatto così enorme. Un fulmine a ciel sereno. E perciò il colpo è ancor più forte. Arriva all’improvviso senza un segno, senza che niente lo faccia presagire. La Calabria non è abituata a omicidi eccellenti. In Sicilia, dove c’è una lunga e tragica storia, omicidi di questo tipo sono finiti dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio che si sono portati via i giudici Morvillo, Falcone e Borsellino con le donne e gli uomini delle scorte.
 
Hanno colpito le istituzioni calabresi come mai era successo. Hanno mirato in alto. Ma, per quanto inatteso, l’omicidio di Fortugno è stato il punto terminale di un lungo attacco alle istituzioni. Senza che nessuno se ne accorgesse, in Calabria, negli ultimi anni ci sono stati oltre 300 episodi di intimidazioni pesanti che avrebbero dovuto allarmare. Accanto agli imprenditori e ai commercianti già da tempo sotto scacco nel mirino erano finiti sindaci, consiglieri comunali, regionali, dirigenti di partito. Lo stesso presidente della Giunta regionale Agazio Loiero aveva ricevuto pesanti lettere minatorie. E ancor prima, un assessore della precedente giunta regionale, Saverio Zavettieri, si era salvato solo perché la sua casa era munita di vetri blindati che lo aveva protetto da un proiettile a lui indirizzato. Altre volte nel corso degli anni passati gli imprenditori avevano dovuto subire attacchi e intimidazioni. Molti avevano ceduto e avevano pagato il pizzo, altri avevano lasciato la Calabria e costruito il proprio futuro altrove, alcuni di loro erano stati uccisi, altri ancora rimanevano in Calabria e cercavano di resistere come potevano. La novità erano gli attacchi alla politica. Diretti. Mirati. Frequenti. Attentati. Incendi. Lettere minatorie. Telefonate nel profondo della notte quando uno squillo procura un tuffo al cuore perché non si sa mai cosa possa essere successo a familiari che sono fuori casa o a parenti anziani. Le forze politiche calabresi non hanno riflettuto a sufficienza su questi aspetti della realtà, quasi che avessero timore ad affrontare l’asprezza e la durezza delle cose, quasi che ritenessero normali quegli accadimenti. Eppure non era mai accaduto niente di simile nella storia della Calabria perché prima lo scontro era tra partiti o tra uomini di partito, mentre adesso tra i partiti c’è un nuovo soggetto politico che usa le armi e la violenza al posto dei comizi e delle assemblee. Con Fortugno arriva il salto di qualità, la svolta inaspettata.
 
Oggi si può cominciare a riflettere come hanno fatto Enrico Fierro con i suoi reportage diventati un saggio e Michele Cucuzza col suo libro “Ma il cielo è sempre più blu” con l’ausilio delle persone da lui intervistate. In queste pagine mi colpiscono molto le parole dei giovani di Locri. E di loro vorrei parlare. Le domande poste, portano quei giovani a ricostruire i desideri, i sentimenti, il loro vissuto, il modo come hanno reagito a quell’omicidio che veniva dopo tanti altri omicidi tutti rimasti impuniti a Locri e dintorni, a descrivere la loro volontà – posso dire cocciutaggine? – a voler rimanere in Calabria, nella loro terra tra parenti ed amici, nei luoghi abituali della loro infanzia, porta quei giovani ad esprimere i sogni che devono fare i conti con una realtà quotidiana dove può capitare che il tuo migliore amico o un suo familiare cadano vittime di un agguato e la loro morte ha l’agghiacciante ritmo dell’ineluttabilità. Bandiere a mezz'asta a Palazzo Campanella
 
Non sono eroi questi ragazzi. L’avevano già messo in evidenza con “I ragazzi di Locri”, edito dal Consiglio regionale calabrese, i giornalisti Annarosa Macrì e Gianfranco Manfredi insieme ai fotografi Adriana Sapone e Franco Cufari. Sono ragazzi normali, con aspirazioni normali, con voglie, curiosità, affetti, gioie, aspirazioni simili a quelli dei loro coetanei di altre parti d’Italia, al nord e al sud. Ed è questa la loro forza straordinaria: essere rimasti normali in una situazione che normale non è perché è impregnata di violenza, di fatti di sangue che, come loro stessi raccontano, si portano via amici o conoscenti che spariscono da un giorno all’altro senza un  perché; essere rimasti normali in una realtà dove i mafiosi – che qui si chiamano ‘ndranghetisti con un nome impronunciabile – cercano di cambiarti la vita, il modo di pensare e di fare.
 
Essere rimasti normali ha dato loro la forza di reagire, di indignarsi di fronte all’enormità di quanto era successo. I racconti di Anna Maria Pancallo e di Aldo Pecora, le cose dette da Maria Grazia Messineo, da Benedetta Fiorenza, detta Benny, da Gabriele Cataldo, da Livio Ravanese e dagli altri ragazzi che hanno animato il Fo. re. ver. sono straordinariamente semplici e profondi, illuminanti. Ci dicono come all’inizio di tutto ci fu uno striscione bianco, quasi a dire che non c’erano parole sufficienti per esprimere il loro dolore e la loro rabbia, poi, il giorno dopo, uno striscione con una scritta fulminante: “E adesso ammazzateci tutti”. Parole semplici, chiare, immediate, efficaci che hanno fatto il giro del mondo. Leggiamo bene quella scritta. E’ una sfida, certo!, che solo giovani di quell’età potevano lanciare in quel modo, ma c’è anche, credo, un messaggio positivo che dice: se siamo uniti non ci possono ammazzare tutti. Una lezione importante, che è bene tenere a mente.
 
Scendendo in piazza, davanti a tutti, davanti alle televisioni di tutta Italia questi ragazzi hanno mostrato l’orgoglio e la fierezza della loro terra che non sono un prodotto odierno, ma hanno un’origine e una storia antica. Un movimento spontaneo, come viene ricostruito nel libro, che li ha spinti a trovare il coraggio di spezzare l’omertà e di dire: adesso basta. La loro protesta ha messo in luce il profondo contrasto tra il volto pulito di una nuova Calabria – viva e immersa nel futuro – e il volto di chi ha ucciso e di chi ha ordinato l’esecuzione che appartengono alla Calabria del passato, oscura, violenta, arretrata. Due Calabrie tra di loro inconciliabili. Senza i volti di quei giovani, nelle case di tutta Italia sarebbero arrivate, come è sempre accaduto, le immagini di una Calabria chiusa, violenta, selvaggia, ripiegata su se stessa, persa per sempre. Se il clichè di un tempo non s’è ripetuto è grazie a quei volti pieni di voglia di vivere e di determinazione; è grazie anche ai loro invisibili genitori che non li hanno ostacolati e ai loro insegnanti che li hanno incoraggiati e sostenuti.
 
Per capire fino in fondo la portata e l’importanza di questa rivolta giovanile occorre guardare al contesto. A Locri e nella Locride la ‘ndrangheta è un prodotto antico, nata nel cuore dell’Ottocento e vissuta con molteplici sfaccettature che le hanno consentito di sopravvivere anche al fascismo che non è riuscito a debellarla. Negli ultimi decenni si è profondamente trasformata rispetto al passato. Fino al gennaio del 1975 aveva governato la ‘ndrangheta uno dei vecchi patriarchi, Antonio Macrì, originario di Siderno, ma con una grande influenza su tutta la zona. Non si aspettava quelle pallottole arrivate alla fine di una partita a bocce, un rito abituale che preludeva il rientro a casa. Fu assassinato all’età di 71 anni. I suoi funerali furono memorabili. 10.000 persone, forse di più, seguirono il feretro di un uomo che tutti sapevano essere uno dei massimi capi della ‘ndrangheta. Guidò un processo ambizioso: allacciare rapporti e impiantare propri rappresentanti in Canada, da Toronto a Montreal ad Ottawa, in Australia, da Melbourne ad Adelaide a Griffith, negli Stati Uniti d’America, nell’area del New Jersey. Faceva le cose in grande, don Antonio, e per questo cresceva giorno dopo giorno in rispetto ed autorità. Eppure non riuscì ad impedire i sequestri di persona, se dobbiamo prestare fede alla vulgata ‘ndranghetista che ci ha raccontato come lui li osteggiasse. E invece nei comuni che dalla Locride s’inerpicano lungo i costoni dell’Aspromonte, splendida montagna che si affaccia sul mar Jonio, erano sorte delle ‘ndrine agguerrite che si erano specializzate nei sequestri di persona. Si è scritto parecchio su questo orrendo e barbaro delitto. Si è detto che era un retaggio del passato, espressione di una criminalità primitiva, primordiale, rozza, violenta e disumana.
 
Pochi hanno riflettuto sul fatto che il sequestro di persona è un delitto complesso che spesso aveva inizio al nord, con la cattura dell’ostaggio che, dopo aver attraversato l’intera penisola indisturbato, veniva portato in Calabria e liberato dopo il pagamento del riscatto. I sequestri erano la migliore spia del radicamento già avvenuto della ‘ndrangheta nelle regioni del nord. Ma non erano molti quelli disposti ad ammettere questo fatto. Si è dovuto attendere il 1993 per avere dalla Commissione antimafia la prima relazione sulle infiltrazioni mafiose nelle zone non tradizionali. I soldi ricavati dai riscatti prendevano delle direzioni precise: acquisto di immobili e acquisto di camion, betoniere, pale meccaniche ecc. per poter partecipare agli appalti pubblici. Ma l’aspetto più nuovo fu l’investimento nell’acquisto di partite sempre più rilevanti di droga, di ogni tipo di droga. Mano a mano che le ‘ndrine effettuavano queste scelte di carattere economico scemavano i sequestri di persona fino ad esaurirsi poiché oramai si era concluso il loro ciclo che era servito ad accumulare il denaro che era stato utilizzato per gli investimenti.
 Il vice presidente del Consiglio Francesco Fortugno nel corso di un intervento in Aula
Una ‘ndrangheta dinamica, dunque, che si lasciava alla spalle il traffico di sigarette  estere che pure a Locri aveva avuto il suo momento di gloria quando furono intessuti rapporti con Cosa nostra siciliana dando vita ad un intenso periodo di interscambio criminale tra Calabria e Sicilia con i connessi intrecci internazionali per far arrivare sulle coste joniche le casse di sigarette che lì venivano sbarcate e da lì venivano smistate per raggiungere i mercati delle piazze delle maggiori città italiane. La ‘ndrangheta degli appalti e del traffico di droga era in quel periodo una ‘ndrangheta proiettata fuori della Calabria, in Italia e all’estero, in un mercato senza confini. Cominciarono a girare soldi, molti soldi, più di quelli circolati al tempo dei sequestri di persona, e cominciarono le divisioni nella ‘ndrangheta di Locri dove si fronteggiarono due famiglie – i Cataldo e i Cordì – in una lunga e sanguinaria faida tuttora non conclusa.
 
Ecco, i ragazzi di Locri hanno reagito ad una ‘ndrangheta dinamica, attiva e niente affatto arretrata. Questa è una delle ragioni per cui la loro protesta ha provocato un moto profondo in tutta Italia. La presenza del presidente Ciampi in Calabria segnalava come fosse forte la sensibilità della comunità nazionale. Chi come me, nell’anno appena trascorso, ha girato spesso per le scuole del centro e del nord ha potuto toccare con mano quanto quell’esempio dei giovani di Locri avesse colpito i loro coetanei d’altre parti d’Italia. Hanno girato anche i giovani di Locri – e in alcune realtà ci siamo incrociati – portando la loro esperienza e il loro entusiasmo che mostra il volto di una Calabria pulita che non si arrende e che ha voglia di andare avanti. Gli studenti del nord erano stati colpiti anche dai giovani palermitani di Addio pizzo, un altro straordinario movimento giovanile che chiama a raccolta la società civile. Un tempo la società civile – ognuno di noi – era chiamata a fare il tifo per chi non pagava il pizzo; ora questi giovani interpellano la nostra sensibilità e ci dicono: noi diciamo addio al pizzo, tu vieni a sostenere concretamente il movimento facendo acquisti nei negozi che espongono questi cartelli.
 
Locri, Palermo: movimenti nuovi che provocano onde lunghe. Lo abbiamo visto con le indagini giudiziarie. Sono state rapide, come raramente accade. E hanno già prodotto risultati importanti. A quanto pare i magistrati avrebbero individuato chi ha sparato e anche il mandante, colui che avrebbe dato l’ordine. Tutto sarebbe maturato a Locri, senza una decisione di una nelle ‘ndrine operanti localmente e senza un ordine venuto da fuori; e tutto perché un caposala voleva fare un favore – peraltro, a quanto pare, non richiesto – a un candidato alle elezioni regionali che non era diventato consigliere regionale perché Fortugno aveva preso più voti. Eliminato Fortugno, sarebbe subentrato il primo dei non eletti. Una spiegazione del genere racchiuderebbe tutto quello che è successo entro l’ambito locale di Locri e il suo ospedale dove per anni il presunto mandante avrebbe lavorato fianco a fianco con Fortugno e con sua moglie, Maria Grazia Laganà ora deputato dell’Ulivo. I magistrati sono arrivati a queste conclusioni; credo provvisorie, mi auguro non definitive.
 
Per comprendere quanto è accaduto e la valenza politico-mafiosa dell’omicidio dobbiamo gettare lo sguardo oltre l’evidenza della pista locale e ritornare con la mente a quella sera di un anno fa. Ricordiamolo: Fortugno è ucciso nel seggio elettorale dove si stanno svolgendo le elezioni primarie dell’Ulivo. La domanda che dobbiamo porci è: perché lì? Perché non in un altro luogo? La scelta del luogo non è stata casuale; è stata voluta ed è stata altamente simbolica. Si poteva uccidere Fortugno in mille modi e senza clamore, come è sempre accaduto. Viaggiava senza scorta, era solito percorrere, da solo e di notte, le strade isolate e aspre dell’Aspromonte, e per di più era un cacciatore. Lo si poteva uccidere sotto casa, di sera, e poi dire che forse essendo medico aveva visitato una signora e il marito non aveva gradito una visita notturna. Gli omicidi di mafia sono stati sempre caratterizzati da forti elementi di ambiguità, dove verità e bugia si confondevano perché non avevano confini netti. Si poteva seguire questa strada che ha dato buoni frutti mafiosi in passato. C’era una vasta gamma entro la quale scegliere le modalità migliori per commettere un omicidio senza alcuna teatralità e facendolo apparire per tutt’altro che un omicidio di mafia o un omicidio politico. Tra l’altro, in questo modo, si sarebbe salvaguardato nel migliore dei modi il primo dei non eletti che, si dice, si voleva favorire.L'Omaggio del Presidente della Repubblica alla salma di Franco Fortugno
 
Perché allora la ‘ndrangheta ha assunto una decisione così clamorosa che contraddice in modo così clamoroso sua storia antica e recente? E’ evidente che il luogo scelto voleva significare una cosa sola: rendere politico e spettacolare l’evento, mettere il timbro di una matrice senza dubbio mafiosa. E’ difficile credere che una decisione del genere possa essere stata presa a Locri, senza un avallo dei vertici della ‘ndrangheta calabrese. Anche se qualche recente collaboratore di giustizia ha detto che l’omicidio è stato deciso a Locri, e per ragioni di vendetta personale, è difficile convincersi di una tale riduttiva versione dei fatti. Per quanto se ne sa, le logiche di politica criminale della ‘ndrangheta portano in tutt’altra direzione. Non si uccide così una personalità del livello di Fortugno solo per un interesse locale. Al massimo la pista e l’interesse locale possono essere stati il pretesto, l’occasione per colpire Fortugno e non un altro esponente politico, oppure può essere un motivo aggiuntivo a interessi ben più corposi.
 
La decisione di eliminare in modo così solenne e teatrale il vice presidente del Consiglio regionale è stata assunta perché occorreva mandare un segnale molto chiaro e netto a tutto il mondo politico calabrese. L’omicidio era un messaggio esplicito dei vertici della ‘ndrangheta alla politica a non dimenticare la potenza della mafia calabrese con cui bisognava fare i conti e con cui bisognava scendere a patti. Era, dunque, una ragione, dal punto di vista mafioso, molto forte che metteva nel conto anche la reazione da parte dello Stato. L’esperienza del passato ha fatto pensare alla ‘ndrangheta che dopo una fiammata iniziale, lo Stato avrebbe ripreso il tran tran di sempre. Quello che non era stato messo in conto era la risposta dei giovani di Locri. Che sono poi i giovani di tutta la Calabria perché in gran parte della regione si sono mobilitati e sono scesi in lotta. Si dice Locri, ma, credo, si deve pensare all’intera Calabria. Si è mosso qualcosa di profondo. Non è stato un fuoco fatuo. Anzi, la caratteristica è che il movimento ha cominciato a strutturarsi. C’è l’idea di durare, di continuare. Un movimento che può dare fastidio a tanti. Ci saranno tentativi di dividere questi giovani, di metterli gli uni contro gli altri, di creare gelosie e competizioni, di innalzare qualcuno agli onori delle cronache e di metterlo sotto i riflettori delle televisioni per poi buttarlo giù  e dire che era come tutti gli altri, in cerca di pubblicità e di gloria personale. Qualcuno di questi giovani cederà, arretrerà. Faranno di tutto per fermarli. Se ci riuscissero sarebbe un peccato perché la Calabria ha bisogno di nuove energie, di vitalità fresche, di una nuova classe dirigente. Oggi, non domani.

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