2 febbraio 2009    

La 'Ndrangheta e il delitto Fortugno (di Gianfranco Manfredi)


Definire la ‘ndrangheta alla luce del delitto Fortugno -  “delitto limite”, e insieme delitto spartiacque -  è più che mai impegnativo. Il profilo umano e politico-istituzionale della vittima, le modalità dell’omicidio, la data e il luogo scelto per l’agguato rivelano un livello criminale  mai espresso prima in Calabria.
 
Si è detto: delitto terroristico. Certo a Fortugno si arriva al culmine di una diffusa, ampia “campagna” intimidatoria, mai così pesante in Calabria, contro amministratori locali e personalità politiche regionali.
 I rilievi della ''Scientifica'' a Palazzo Nieddu del Rio
Assessori e consiglieri regionali in carica, sindaci e amministratori di decine di comuni sono stati – e purtroppo sono ancora – bersagli di attentati, minacce, danneggiamenti. E’ un’escalation che non ha precedenti. Si arriva persino, è il caso di Sinopoli, a un Comune “sciolto dalla mafia” o, come a Lamezia dove, dopo due scioglimenti di amministrazioni precedenti per inquinamento mafioso, l’amministrazione guidata da Gianni Speranza vive ed opera “sotto scorta” insieme agli imprenditori che si sono rifiutati di piegare la testa.
 
Ma, tornando a Fortugno, due anni dopo sono ancora più evidenti  le connotazioni simboliche dell’omicidio. Come credere che il vicepresidente del  Consiglio regionale possa essere stato ucciso da un’isolata combriccola mafiosa di paese? Avrebbe mai osato, da sola, organizzare e compiere l’uccisione del vicepresidente dell’Assemblea regionale, esponente del partito alla guida del governo della Calabria? E avrebbe mai scelto di eseguire il delitto platealmente, il giorno delle elezioni primarie dell’Unione, e proprio in un seggio elettorale?
 
Difficile, insomma, catalogare questo delitto come un omicidio di periferia, con matrice, mandanti e movente di livello esclusivamente criminale e di piccolo cabotaggio.
 
Delitto di alto valore eversivo, quello di Francesco Fortugno. Un delitto “frattura”: scompagina analisi, travolge ricerche, studi ed esegesi, provoca smarrimento e angoscia.
 
Forse solo il presidente Ciampi, che ha subito abbracciato la famiglia della vittima e il Consiglio regionale, e gli straordinari ragazzi di Locri sono stati davvero tempestivi nell’acquisire piena consapevolezza del livello della sfida, nel cogliere l’agghiacciante eppure semplice messaggio di potenza egemonica lanciato con l’eliminazione di Fortugno. Così, evidentemente, ha deciso di uccidere e parlare oggi la ‘ndrangheta. Per dire forte e chiaro, col suo linguaggio, chi comanda oggi in Calabria.
 
Malgrado circa due secoli di storia che ne documenta lo straordinario radicamento in Calabria e nonostante la scoperta di stabili succursali impiantate in almeno quattro continenti, la ‘ndrangheta rimane il fenomeno mafioso più sottovalutato dello scenario criminale italiano. E anche quello ancora meno indagato, più impunito e quindi più insidioso.
 Il palazzo della "Questura" di Reggio Calabria
 Così quanti, sia nelle istituzioni che nella società civile, resistono e lottano contro le cosche mafiose in Calabria hanno dovuto sempre impegnarsi su due fronti: da una parte combattere boss, gregari e complici della ‘ndrangheta, dall’altra contrastare le gravissime, perduranti sottostime e minimizzazioni del fenomeno.  
 
 Spesso confusa (anche dalla letteratura e dal cinema) con retaggi del brigantaggio post-unitario,  ritenuta meno pericolosa rispetto alla camorra e soprattutto rispetto alla mafia siciliana (considerata, forse non senza ragione, “la madre di tutte le mafie”) la ‘ndrangheta è stata sempre collocata in un contesto arcaico, relegata in orizzonti contadino-pastorali, confinata in una società arretrata, sottosviluppata. E’ stata prevalente, insomma, l’equazione “regione di ‘serie b’ uguale mafia di ‘serie b’”.
 
Ne fa fede persino un dato secondario e apparentemente ininfluente quale il disconoscimento della calabresità di due fra i più importanti capimafia italoamericani, due boss di assoluto rilievo come Frank Costello e Albert Anastasia fatti passare puntualmente come “siciliani” o “napoletani”. 
 
Il primo (ovvero Francesco Castiglia di Lauropoli di Cassano, nel Cosentino), conosciuto come “il primo ministro” di Cosa Nostra americana, nel ’51 comparve davanti al Comitato Senatoriale presieduto dal senatore Estes Kefauver, per rispondere dell’accusa di essere a capo di un sindacato mafioso capace di accumulare 20 miliardi di dollari all’anno.
 
Il secondo, Anastasia,  all’anagrafe Umberto Anastasio di Tropea, ha esercitato per quasi un ventennio il “controllo” delle attività portuali illecite a New York (contrabbando ed immigrazione clandestina) ed è stato consacrato nell’immaginario collettivo per la sua fine nel 1957, crivellato di pallottole su una poltrona della sala da barba del Park Sheraton Hotel di Manhattan, una scena riproposta dal cinema infinite volte.
 
Ignorata dalla letteratura, dal cinema, dal teatro, dalla televisione, la ‘ndrangheta, nelle poche occasioni in cui è stata considerata, ne è venuta fuori, insomma, con un profilo talmente distorto da finire con l’alimentare ulteriore confusione allargando la diffusa ignoranza sull’argomento.
 
Non sono estranee a questo ritardo neppure le più alte cariche della magistratura come testimoniano le relazioni inaugurali degli anni giudiziari pronunciate dai Procuratori generali fino alla fine degli anni Settanta, in qualche caso anche in seguito, e non solo in Calabria.  E lo stesso Parlamento non ne è immune, se è vero che solo a metà degli anni Settanta viene proposta l’istituzione di una Commissione d’indagine sul fenomeno e che solo nel ’76 un gruppo di parlamentari dell’allora Pci, ha compiuto una ricognizione specifica nelle province calabresi.
 
Questo deficit di conoscenza ha pesato non poco sul ritardo con il quale le istituzioni hanno iniziato a prendere nella dovuta considerazione il fenomeno.
 
Solo negli ultimi decenni il velo che ha avvolto il mondo della ‘ndrangheta si è, in parte, squarciato, grazie alle ricerche storiche, alle indagini giudiziarie, alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ne è venuto fuori è un quadro sicuramente inedito, inaspettato e sconcertante. Quello cioè di un fenomeno esistente già al momento dell’Unità d’Italia, con caratteristiche in gran parte simili a quelle odierne,   strutturato nella società meridionale non come escrescenza patologica, come certa pubblicistica ama rappresentare i fenomeni mafiosi, bensì – come ha evidenziato uno dei magistrati più impegnati su questo fronte , il sostituto della procura nazionale Vincenzo Macrì - “come componente strutturale, essenziale e storicamente consolidata. Parte integrante, insomma, della storia, della cultura, del modo d’essere di questa parte del Paese”.
 
Bisognerà, però, aspettare sino al 2000 perché la Commissione parlamentare Antimafia si occupi espressamente del fenomeno aprendo, con una relazione specifica, squarci di estremo interesse. In apertura la relazione del senatore Figurelli prende atto del ritardo accumulato nel tempo affermando: “Oggi è non solo necessario, ma anche possibile, uscire dallo stereotipo duro a morire di un fenomeno tipico dell’arretratezza, di un’organizzazione rozza e arcaica, rinchiusa in Calabria o perfino solo in Aspromonte nella monocultura dei sequestri di persona. Oggi è non solo necessario, ma anche possibile bruciare il ritardo di conoscenza, di comprensione e di azione, eliminare il conseguente status di impunità di cui la ‘ndrangheta ha potuto godere e di cui ha fatto uso per rafforzare, estendere e riprodurre  a seguito dei colpi subiti ogni sua ramificazione e attività.” (Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari – Relazione sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Calabria – approvata il 26 luglio 2000).
 Il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso con i magistrati della DDA reggina
 Non a tutti, però, anche fuori dalla Calabria, è sfuggita la consapevolezza della sua pericolosità. Giovanni Falcone segnalava (Che cosa è la mafia, in Micromega n.3-1992) che “la ‘ndrangheta è caratterizzata da modelli di comportamento relativamente arcaici, senza per questo essere meno pericolosa delle altre forme di criminalità organizzata, con cui condivide le caratteristiche essenziali, come il controllo del territorio, l’influenza sugli organi amministrativi locali, l’estorsione di denaro a danno delle imprese e l’organizzazione del traffico di droga”.
 
 La ‘ndrangheta che si differenzia dai modelli siciliani e campani per le diverse origini storiche, ambientali e culturali (pur avendo in comune con le altre mafie metodi e comportamenti, ”valori” di fondo e cultura, concezione del mondo e atteggiamento verso lo Stato) ha una specifica connotazione organizzativa.
 
Invece di una strutturazione piramidale, verticistica, ha elaborato una propria organizzazione marcatamente orizzontale che ne spiega la longevità, l’eccezionale flessibilità alle più varie vicende politiche e l’ impermeabilità alle attività repressive che l’hanno interessata.
 
 La mafia calabrese è strutturata, infatti, in locali ciascuno dei quali ha giurisdizione su un territorio determinato che in genere corrisponde a quello di un singolo comune o a parte di esso nel caso  di centri importanti o città. Laddove la densità mafiosa è maggiore, si hanno, infatti, “locali” anche nelle frazioni, nei rioni, nei quartieri, e, se si considera che il numero dei componenti di un “locale” non può essere inferiore a 50 affiliati e può anche giungere in casi particolari a diverse centinaia, si può facilmente arguire quanto l’esercito della ‘ndrangheta, nella sola Calabria, superi di gran lunga la cifra di 5000 unità che le stime ufficiali continuano a fornire all’opinione pubblica.
 
I “locali”, inoltre,  non esistono solo in Calabria, ma in tutti i luoghi in cui l’emigrazione calabrese ha fatto arrivare uomini della ‘ndrangheta. Sicché non ci sarà da meravigliarsi se in Lombardia siano oltre cento i “locali” attivi, poco meno quelli del Piemonte e Liguria, e varie decine nelle regioni dell’Emilia Romagna, in Veneto e così via. A questi si devono aggiungere, poi, i “locali” sparsi per il mondo, in Francia (Costa Azzurra), Germania, Svizzera, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Centro e Sud America, ed in Australia.
 
Insomma, una immensa quanto elastica rete organizzativa, la cui particolarità risiede proprio nella eccezionale capacità di  riprodurre in ogni luogo il medesimo modulo organizzativo d’origine, di averne conservato l’identità peculiare adattandola a luoghi, a culture, contesti ambientali economici e sociali del tutto differenti rispetto ai paesi di provenienza.
 
Nei loro  ambiti territoriali i locali sono sovrani: non esiste in Calabria un capo unico, un padrino dei padrini e manca pure una direzione unitaria (mentre di recente sarebbero stati istituiti organismi sovraordinati alle cosche in seguito all’ultima guerra di mafia che ha avuto per epicentro Reggio).
 
Quest’originale modello organizzativo non comporta che i collegamenti siano inesistenti o casuali e sfilacciati. Al contrario sono fitti, rapidissimi e funzionali, vertendo su singole questioni o sulla necessità di stabilire alleanze nei frequenti, inevitabili, conflitti con altri gruppi criminali. 
 
Percepita come un’entità rozza e primitiva, la ‘ndrangheta ha, a ben guardare, una struttura organizzativa che, se da un punto di vista storico è certo eredità di un passato arcaico e per alcuni aspetti tribale, sul piano pratico ha finito col rivelarsi un indubbio fattore di dinamismo e modernità. Se la trama organizzativa dovesse subire una smagliatura, c’è subito pronta un’altra ‘ndrina di un ambito territoriale confinante a ricucire la rete soppiantando funzionalmente, temporaneamente o in via definitiva, la struttura venuta meno.
 
 Cuore e perno fondamentale della ‘ndrangheta è però la famiglia naturale e tutto l’ambito parentale facente capo agli esponenti di maggior spicco criminale dell’organizzazione. Se per la mafia siciliana è il paese o il quartiere cittadino di appartenenza a designare e qualificare il legame e la pertinenza dell’affiliato a una cosca, in Calabria prevale invece decisamente l’indicazione del cognome della famiglia (o del gruppo di famiglie alleate) più importante alla quale un affiliato appartiene per legami di sangue oppure di parentela, naturale o artificiale (pensiamo alle reti di “comparaggi” che si ramificano attraverso la celebrazione di battesimi, cresime e matrimoni).
 
 Sono le famiglie mafiose in prima persona, più che le organizzazioni territoriali, a svolgere direttamente le attività criminali, a uccidere, estorcere, rapire, a rapinare, gestire traffici internazionali di armi e droga, ad accumulare ingenti risorse economiche e a riciclarle, a corrompere apparati pubblici e a stringere patti scellerati con altri gruppi criminali o con altri poteri palesi e occulti  e con servizi segreti più o meno deviati.
 
L'arresto di Salvatore Ritorto presulto killer di Francesco Fortugno Se il “locale”e in genere tutte l’ossatura organizzativa si limita a esercitare una sorta di “potere legale” e costituisce il luogo d’incontro e di mediazione sul territorio delle famiglie, sono queste ultime, quasi sempre clan, a dominare la scena all’interno della stessa ‘ndrangheta: sono i clan e le Famiglie che  svolgono effettivamente il potere reale e praticano quindi all’esterno e sulla società civile il dominio della violenza criminale.
 
 In un certo senso accade che in Calabria le famiglie degli ‘ndranghetisti prevalgano sulla ‘ndrangheta, al  contrario di quello che succede in Sicilia dove, per scongiurare  la concentrazione del potere su un unico ceppo familiare, si sono addirittura codificate apposite norme, ed è vigente, come ha spiegato il pentito Leonardo Messina (interrogatorio della DDA di Palermo, 30.6.92) la “regola secondo cui, laddove le famiglie di sangue sono composte da numerosi elementi, non possono far parte contemporaneamente di Cosa Nostra più di due fratelli”.
 
A flessibilità e duttilità nella strutturazione corrisponde invece nella ‘ndrangheta un’estrema rigidità nelle regole associative, ferree ed inderogabili. La mafia calabrese è diventata una formidabile èlites criminale capillarmente diffusa nella regione d’origine e dotata di una sua vasta ragnatela internazionale grazie all’adozione di un codice normativo valido sia all’interno dell’organizzazione, nella quale ogni tradimento è stato e viene sempre immancabilmente punito con la morte, sia all’esterno, attraverso l’uso della intimidazione sistematica – fino alla ferocia più estrema – nei confronti delle vittime e di eventuali testimoni o ostacoli istituzionali. E’ tradizione della ‘ndrangheta l’esercizio della violenza più efferata, con efficienza e prevedibilità, contrariamente a una risposta statuale, caratterizzata storicamente in Calabria da incertezze, inefficacia, ritardi e disattenzione. In molte aree della regione, a confronto con uno Stato distante e distratto ha prevalso il potere più vicino della ‘ndrangheta, sia in termini di rapporti di forza sia di modelli culturali, diventando così dominante e acquisendo persino ampi margini di (ambiguo) consenso popolare in quanto autorità in grado di regolare conflitti, reprimere e controllare  la microcriminalità e condizionare le ataviche rivalità tra gruppi familiari (le cosiddette “faide”, catene di delitti che si tramandano, vendetta dietro vendetta, di generazione in generazione).
 
Le cosche calabresi detengono inoltre, malgrado i notevoli colpi subiti dall’organizzazione, un record di impunità ai livelli di vertice. I capi più lucidi e consapevoli, ne hanno piena consapevolezza: poco turbata dalle tempeste giudiziarie e repressive che su di essa si sono abbattute negli anni ’90,  la ‘ndrangheta non sembra nutrire alcun dubbio che il futuro le apparterrà. Uno degli esponenti della più potente organizzazione mafiosa operante nella Piana di Gioia Tauro, nel ‘96, nel corso di conversazioni  intercettate ebbe a dire testualmente: “abbiamo il passato, il presente ed il futuro…”. Per ribadire un dominio esclusivo e totale sul territorio e sulle iniziative di sviluppo allo stesso collegate. Un concetto che può essere assunto come la considerazione che ha di sé l’organizzazione, per la quale non sembra esistano preoccupazioni legate all’azione repressiva dei corpi dello Stato.
 
Come ogni storica organizzazione criminale la ‘ndrangheta ha regole interne da società segreta che codificano il reclutamento e l’accesso ai vari gradi della complessa gerarchia ai quali corrispondono livelli di prestigio e di potere. Riti d’iniziazione e liturgie, formule, giuramenti e commistioni con la sacralità (la ‘ndrangheta venera San Michele Arcangelo ed ha eletto come proprio “tempio” l’antico santuario della Madonna della Montagna di Polsi, in Aspromonte) sono importantissimi perché, come in tutte le associazioni, ergono confini e barriere e creano legami.
 
L’origine è avvolta nel mistero. Anche se già i viaggiatori inglesi, francesi e tedeschi che nel ‘700, lungo le rotte del Grand Tour, si avventuravano nella più remota e inospitale provincia d’Europa, non mancavano di rilevare la presenza di fenomeni che in qualche modo appaiono un’anticipazione della ‘ndrangheta. Fra tutti,  Stendhal, nel suo diario di viaggio, annota la seguente considerazione:
 
“Prima o dopo il calabrese si batterà benissimo per gli interessi di una società segreta, che gli sta montando la testa da dieci anni a questa parte. Son già passati diciannove anni da quando il cardinale Ruffo ebbe un’idea del genere: probabilmente queste società (definite dall’autore stesso come una sorta di “carboneria di campagna”) esistevano magari prima di lui”.
 
L’intuizione dello scrittore francese è illuminante: la ‘ndrangheta si forma come società segreta e trova subito un modello organizzativo di società segreta nelle logge massoniche all’epoca clandestine e nelle società segrete similari importate in Calabria dalla Francia (da Marsiglia sul finire del Settecento, poi coi francesi di  Murat, infine con le sette patriottiche antiborboniche)  che fiorirono nella prima metà dell’Ottocento e per tutto il secolo XIX.
 
 Secondo le regole della ‘ndrangheta, l’adesione è tradizionalmente riservata: bisogna essere maschi e calabresi. Regola antica; che come tutte le regole registra evoluzioni e ammette eccezioni. Le cronache e gli atti giudiziari segnalano già parecchi casi di ingresso di mafiosi campani (per tutti, si ricorda  Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova Camorra Organizzata, preventivamente “iniziato” nella ‘ndrangheta) e pugliesi e  la “doppia affiliazione” di esponenti siciliani. Anche il maschilismo più codificato non costituisce una barriera invalicabile: oltre ai tradizionali ruoli di fiancheggiatrici e di pedine sottomesse delle “strategie matrimoniali” e accanto a un sempre maggiore coinvolgimento delle donne (madri, mogli, figlie e sorelle di ‘ndranghetisti) nella gestione di affari criminali e di imprese “pulite”, si verificano anche casi di complicità sempre più pregnanti e addirittura di affiliazioni femminili in piena regola.
 
Statuti, formule secolari e antichi comportamenti convivono nella ‘ndrangheta con strumenti e moduli operativi criminali efficientissimi, d’avanguardia. E’ il caso dei sequestri di persona a scopo d’estorsione, un reato che ha fatto registrare quasi un monopolio della ‘ndrangheta con 92 sequestri compiuti in Calabria (sui 561 verificatisi in Italia tra il 1968 e l’83) e ben 191 attribuibili a organizzazioni delle cosche calabresi, la cosiddetta “Anonima calabrese”. Anche nel caso dei sequestri, più che di eredità del brigantaggio, si tratta di un’attività legata a esigenze di controllo e sfruttamento (di “signoria” piena) sul territorio ma anche all’esercizio di una sorta di intimidazione permanente e preventiva nei confronti dei ceti impreditoriali locali, sottosposti in tal modo alla minaccia di cadere vittime dei sequestri e come tali facilmente piegabili alla pressione estorsiva.
 
 E così anche per i traffici internazionali di armi e stupefacenti. Soprattutto per la droga, le famiglie della ‘ndrangheta ricalcano le modalità collaudate negli anni Sessanta col contrabbando delle sigarette e sfruttano i canali e i contatti internazionali creati dai flussi migratori che fin dalla seconda metà del secolo scorso e poi massicciamente dal secondo Dopoguerra, hanno sparso nel  mondo (nelle Americhe, nel Nord-Europa e in Australia) numerose comunità provenienti dalla Calabria.
 
 Antico e moderno coesistono in perfetta simbiosi nelle cosche calabresi, non costituiscono una contraddizione ma un formidabile punto di forza. Basti pensare al familismo che, anziché fattore di fragilità, si è rivelato un innegabile vantaggio riuscendo a garantire impermeabilità alle indagini e una sbalorditiva  invulnerabilità rispetto al fenomeno del pentitismo. In Calabria sono molto più rari i collaboratori di giustizia, che altrove (nelle esperienze repressivo-giudiziarie siciliane, campane e pugliesi) sono stati determinanti nel consentire lo smantellamento di intere organizzazioni e per molti versi autentiche crisi strutturali.
 
Essendo la mafia calabrese basata su clan familiari, lo ‘ndranghetista che si pente deve per forza coinvolgere propri congiunti, spesso padri, fratelli, figli o altri parenti stretti.
 
 Ma se il familismo rappresenta una remora difficilmente sormontabile, c’è da aggiungere che anche quando arrivano a vuotare il sacco, i pentiti calabresi possono, tutt’al più, scompaginare una cosca o un paio di clan: soltanto, insomma, il gruppo mafioso al quale appartenevano prima di scegliere la collaborazione con la giustizia. La particolare organizzazione “orizzontale”, insieme al familismo, costituisce un formidabile scudo protettivo perché ogni affiliato può parlare di altre cosche solo per sentito dire, riportando confidenze altrui e non conoscenze dirette.
 
 Così rimangono ancora imprecisi e sfuocati, anche se per grandi linee ormai svelati, i contorni esatti dell’ incrocio torbido di ferocia e d’astuzia, di antistatalismo e profonde infiltrazioni nelle istituzioni, di legami con l’eversione e il terrorismo di sinistra e di destra e, soprattutto, con logge “eretiche” della massoneria che la ‘ndrangheta rappresenta, a dispetto delle più pervicaci sottovalutazioni. Una realtà di legami nascosti svelata lucidamente da molti collaboratori di giustizia “Non ci sarebbe mai stata in Calabria una ‘ndrangheta così forte e potente – ha sostenuto uno dei più noti, Giacomo Lauro- senza la complicità dei politici corrotti e dei professionisti della massoneria deviata. Non esisterebbe la mafia infatti senza questi appoggi”.
 
Un groviglio di interessi con i cosiddetti poteri occulti che, in definitiva, autorizza sul finire degli anni Settanta la creazione di un nuovo livello funzionale, una sorta di “super-’ndrangheta” senza più  limiti. Libera, cioè dalle pastoie delle vecchie regole dell’onorata società, con una spiccata vocazione a quei contatti e quelle entrature che le mancavano per il salto di qualità tanto agognato. Quella nuova struttura è stata chiamata la “Santa” e “santisti” i suoi appartenenti. Pochi all’inizio, i Piromalli e altri esponenti della l’élite della ‘ndrangheta (dapprincipio appena trentatrè personaggi), ai quali è stato concesso - in aperta deroga delle vecchie regole - di avere contatti con esponenti delle forze dell’ordine anche come confidenti, di entrare in logge massoniche (quelle più “disponibili” all’inquinamento o, addirittura, costituite ad hoc) al fine di farle funzionare come stanze di compensazione per ogni contatto con il mondo politico, imprenditoriale ed istituzionale.
 
  Analogo il salto di qualità in campo economico. Le modalità operative che avevano già consentito, intorno agli anni Settanta, di controllare prima i profitti del settore agrario, imponendo manodopera, gestendo i prezzi dei principali prodotti e di subentrare, poi, nella titolarità dei migliori possedimenti agricoli calabresi, sono state poi trasferite ed utilizzate nella scalata ai settori commerciale ed imprenditoriale. Ovunque, sia nelle città sia nei piccoli centri urbani, i clan presenti hanno aperto esercizi e scoperto i vantaggi della titolarità d’impresa, riversando cospicui capitali illeciti. “L’imposizione generalizzata sul territorio del cosiddetto “pizzo”, i flussi monetari provenienti dal controllo stabile del mercato internazionale degli stupefacenti, l’uso sempre crescente di attività usurarie – sostiene un magistrato attento come Salvatore Boemi - hanno determinato l’accumulazione di riserve monetarie che la ‘ndrangheta ha esigenza di reimpiegare e reinvestire proficuamente”.
 
 E di fronte ai rischi di confisca ai sensi della legge “Rognoni-La Torre”, col tempismo di sempre, la mafia calabrese ha modificato e variato il proprio impegno, utilizzando il metodo della “compartecipazione”. 
 
In Calabria oggi l’impresa e l’azienda “a partecipazione mafiosa” si presenta, quindi, come una realtà economica diffusa e dominante. Hanno innegabili vantaggi: abbondanza di capitali, facilità nel reperire ogni forma di manodopera, indebiti collegamenti nei rapporti con pubblici funzionari, mentre l’assenza di un diritto penale delle persone giuridiche consente loro di agire ed operare impunemente, con la sostanziale invasione dei mercati.   Il “socio ‘ndrangheta” è, pertanto, una delle risultanze investigative più significative ed inquietanti che pare sancire l’uscita di scena del calabrese onesto dal commercio e dall’imprenditoria.
 
  Le regole di malavita da sempre presenti nell’ordinamento mafioso non sono di certo cadute in prescrizione, anche oggi in Calabria qualunque opera pubblica è rigorosamente sottoposta dalla ‘ndrangheta alla dazione di tangenti che variano dal tre al cinque per cento della spesa complessiva prevista ma tale disarmante realtà rischia di risultare, perfino, riduttiva e secondaria di fronte alla verificata capacità del “socio mafioso” di partecipare ed avere la meglio nelle gare di appalto, di controllare in regime di monopolio interi comparti.
 
Le attività criminali degli ultimi venti anni, del resto, hanno assicurato una massa di profitti illeciti, difficilmente calcolabili, se non nell’ordine di miliardi, continuamente reimpiegati. Il traffico della droga, innanzitutto, attraverso il quale vengono ricavati  profitti pari all’80% circa del fatturato totale.
 
I clan calabresi hanno finito col monopolizzare il traffico della cocaina in Europa e addirittura le organizzazioni siciliane, un tempo dominanti, oggi devono farsi accreditare dalla ‘ndrangheta.
 
E la poderosa accumulazione di capitale realizzata complessivamente negli ultimi decenni spiega anche le rinnovate ambizioni di dominio sull’economia e sull’intera società. Un agghiacciante quadro di aggressività in cui si deve evidentemente collocare anche la tragica “lezione” impartita a Locri il 16 ottobre 2005 alle istituzioni e alla politica e che fa correre rischi gravissimi  non solo la società calabrese.
 

 segnala pagina ad un amico
 CHIUDI