17 novembre 2008    

Abruzzo: «Il futuro dei giornalisti è digitale» (di Romano Pitaro)


Gli editori reclamano  700 prepensionamenti,  pur  in assenza  di crisi aziendali. Ma chi paga?  Risposta: “Non lo fate, altrimenti l'Istituto  previdenziale dei giornalisti salta in aria”.  La proposta di nuovo contratto per i giornalisti include il taglio degli scatti d’anzianità. Che fare? Risposta: “Il Contratto dei giornalisti 1959/1960  è legge, perciò impedisce agli editori di tagliare gli scatti o di ridurli  per i colleghi giovani”. 
Franco Abruzzo Interrogativi e  dubbi; complessità, generate da leggi  che s’intrecciano con   norme contrattuali,   acuite dalle trasformazioni che squassano i media in questi anni  Come uscirne, dunque,  se non ricorrendo all’oracolo di Delfi?  Non è una battuta.  Perché per fortuna l’oracolo  c’è.  E dà ogni giorno  il suo responso. Senza tradire la fama di  Cavaliere senza macchia e paura che l’ha contraddistinto  per 18 anni, prima come cronista giudiziario negli anni  cupi del terrorismo e poi  alla guida dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia.  Non è Apollo e non l’Olimpo l’ispira, ma uno  sgualcito testo della Costituzione sempre aperto sulla sua scrivania. Di lui, quando ha lasciato la Presidenza dell’Ordine,  hanno scritto: “Le sue delibere erano un inno ai diritti sanciti dalla Costituzione”.   
Tutti i giornalisti italiani sanno chi è  l’oracolo di Sesto San Giovanni. Franco Abruzzo non  giace al sole greco, vive  in un appartamento nell’ex Stalingrado d’Italia. Però, prima di temprarsi al freddo delle giornate milanesi,  per 23 anni s’è riscaldato al sole del Sud.  Suo padre, Vincenzo,  lavorava alle Poste di Cosenza, e a casa portava tanti giornali  Sfogliandoli scoprì la vocazione.  Abitavano    allo Spirito Santo, via Petrarca 22.  Suo nonno, di Luzzi, per due volte ha traversato  l’Oceano. Lui, nel ’62, per stare in tema, s’è ficcato nella sua Fiat 600 comprata a rate. Ed ha scalato l’Italia: giù la Sila era verde e limpida a Milano c’era la neve.
Dice, sorseggiando un succo d’ananas in Piazza San Babila: “La scelta dell’emigrazione per  i calabresi è un dato familiare”. Abruzzo è stato   cronista   d’assalto nella Milano degli anni ‘60 e ‘70, prima di diventare caposervizio  al “Politico” e ai “Fatti della Vita”.  E’ approdato nella capitale economica  con l’intenzione di lavorare   al  "Giorno" diretto da Italo Pietra;   in seguito, 
chiamato da Gianni Locatelli,  è stato caporedattore centrale al "Sole 24 Ore".
In trincea, armato di fiuto e  taccuino,  s’è occupato di terrorismo rosso: “C’è una pagina amarissima che mi lega a Walter Tobagi, ucciso dalle Brigate rosse il  28 maggio 1980. E’ il  29 gennaio 1979, la mattina i killer di Prima Linea avevano ucciso  il sostituto procuratore Emilio Alessandrini. La sera ricevo una telefonata dal procuratore capo della Repubblica, Mauro Gresti e un invito perentorio: venga subito da me. Lavoravo al Palazzo di Giustizia da 7 anni come cronista del ”Giorno” e mi occupavo di terrorismo, mafia a Milano e del  crack Sindona.  Gresti è lapidario: oggi abbiamo tenuto una riunione in  Prefettura e abbiamo deciso di  avvertire coloro che sono in pericolo di vita. Lei,  con  Leo  Valiani e Walter Tobagi, è tra questi. Leo Valiani vive a Milano da clandestino, come nel periodo 1943/1945. Sappiamo che è molto amico di Tobagi,  domani mattina alle 8 me lo  porti qui. Raggiungo in fretta la sede del giornale. Chiamo  Walter e lui mi chiede: hai paura?  Rispondo che non  mi va di fare l’eroe, e che ero emigrato per lavorare. Ho la voce incrinata. Penso a mia moglie e alle mie bambine. La mattina successiva siamo da Gresti, il quale ci dice che non ha uomini per garantirci la scorta. E’ presente un colonnello dell’Arma che  spiccica poche parole: “quelli sparano tra le 8 e le 8.30. Vi conviene uscire di casa dopo le 9”.
Ma il calabrese giunto a Milano con la Fiat 600, s’è occupato anche  di mafia. Di Luciano Liggio, che aveva organizzato diversi sequestri di persona al Nord  e lo minacciò, durante il processo,  indicandolo col dito. Ci fu una  larga eco sui giornali e sui tg.  E’ andata cosi: “Qualche giorno prima mi era stata rubata l’auto, una Giulia 1300, nel garage di casa, poi un  nostro tipografo era stato bloccato in una via di Trezzano sul Naviglio  e un tizio dal forte accento siciliano gli aveva detto: dite ad Abruzzo che gli spezziamo le gambe.  Nell’aula del processo, dopo il furto dell’auto, Nello Pernice, spalla di Liggio, ironizzava: Certo, senza auto, è duro andare in giro.  Anche don Agostino  Coppola, nipote di Frank  detto  ‘Tre dita’,  sorrideva e diceva: sono pulito come l’acqua della Sila. Lo avevo battezzato il parroco della mafia”.
Vita spericolata insomma. Ma soprattutto Abruzzo è stato (è)  un faro per chi deve orientarsi nei labirinti giuridici del giornalismo. Esperto  d’ ogni chance  offerta    dai  contratti e d’ogni  trucco nascosto nelle  pieghe normative. C’è chi l’ha definito “un giurista prestato al giornalismo”.   Scrive da anni  di problemi legati alle professioni intellettuali e di temi giuridici d'attualità legati al diritto di cronaca e di critica, nonché alla privacy e al diritto del lavoro giornalistico su importanti riviste giuridiche.
Oggi  insegna Storia del giornalismo e diritto dell’informazione all'Università degli Studi di Milano  Bicocca e all’Università Iulm. A Catania, durante un convegno su giustizia e informazione, ha parlato per un’ora filata:  il presidente del consiglio nazionale forense, Nicola Buccico, ha sorpreso la platea quando ha detto che Abruzzo è un giornalista,  cosi  ha proposto la sua iscrizione, a titolo d’onore, nell’albo degli avvocati. 
Giornalista e   maestro del diritto giornalistico. Che, però,  ha iniziato la professione non nella ricca Lombardia, ma nella Calabria di mezzo secolo fa. Perché Abruzzo,  considerato  tra “i  5062 italiani notevoli” dal  Catalogo dei viventi redatto da Giorgio dell’Arti e Massimo Parrini, è (si definisce cosi) “un calabrese tosto di Cosenza”. Dov’è nato il 3 agosto del ‘39. E dove  ha iniziato il mestiere girovagando  nelle redazioni calabresi del  Tempo  e del  Giornale d'Italia.  E c’è ancora  la Calabria, dopo tanti anni,   negli occhi di questo signore attempato. Nostalgico del  cristallino  mare calabrese d’un tempo, “Oggi - confessa -  quando scendo in Calabria m’incazzo  se  vedo il mare  sporco, cosi me ne  torno subito  a Milano”.  E mentre acciuffa nei ripiani della memoria  l’immagine del nonno d’America,  che allo scoppio della prima  guerra mondiale torna   a difendere casa sua, grazie a una coscienza italiana inoculatagli dalla lettura del libro Cuore (ferito sul Piave morirà 9 anni  dopo);  mentre ricorda le visite da scolaro nel Vallone di Rovito, dove nel 1844 furono fucilati i fratelli Emilio ed Attilio Bandiera ed altri undici calabresi,  ed ammette che “In quel vallone è nata la mia coscienza di italiano”, io  penso a cosa ha rappresentato questo veterano del giornalismo  dalla schiena dritta.  
Un riferimento  per tutti i giovani che in Italia si avvicinavano alla professione e s’imbattevano in un groviglio d’ostacoli. Lui era l’altra campana.  Il presidente dell’Ordine della Lombardia, l’Ammiraglia del giornalismo italiano che bombardava i residuati fossili della corporazione  asserragliati, nelle grigie stanze degli Ordini regionali, a gestire un potere d’accesso alla professione con criteri discrezionali.
 Nel 1978, con Walter Tobagi e Massimo Fini, questo “calabrese tosto”   ha fondato la componente sindacale di “ Stampa democratica ”. Dopo aver fatto parte per anni  del Consiglio nazionale della Fnsi, è stato lo “storico presidente”
dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Per 18 anni (fino al  2007). E’ stato presidente dell'Associazione "Walter Tobagi" che gestisce l'Istituto "Carlo De Martino" per la Formazione al Giornalismo (in 30 anni ha preparato ben 650 giornalisti professionisti).
Alla guida dell’Ordine ha avviato un’intransigente battaglia a favore del rinnovamento della professione e per il suo ancoraggio ai principi dell'indipendenza e della libertà di cronaca e di critica. Ha sostenuto  il principio dell'aggancio della professione giornalistica all'Università (battaglia vinta il 9 luglio 2007 con il varo della laurea magistrale in Giornalismo) e alle scuole riconosciute dall'Ordine. Ha indirizzato l'azione dell'Ordine della Lombardia verso una  puntuale applicazione dei canoni deontologici e del rispetto delle regole contrattuali nelle redazioni attraverso l'iscrizione nel Registro dei praticanti di quanti (circa 4 mila), esercitando la professione in “nero”, vivono di giornalismo. Franco Abruzzo assieme a Gaetano Afeltra, direttore de ''Il Giorno''
Sul tema della commistione informazione-pubblicità, Abruzzo è stato inflessibile. Anni roventi quelli in cui grandi direttori di testate sono stati costretti a recitare il mea culpa. Nella Milano da bere, di  Craxi e del  fior fiore d’ imprenditori proprietari di testate gloriose e nella città dell’editoria per antonomasia, la testardaggine  di calabrese gli è servita per intraprendere un’azione coraggiosa. Polemiche tante ma  l’ha spuntata: “E sai perché? Ho sempre avuto come stella polare la nostro magnifica e splendida  Costituzione, che sancisce  l’uguaglianza giuridica dei cittadini di fronte alla legge”. Sul suo “Codice dell’informazione e della comunicazione” hanno studiato per sostenere l’esame di giornalista, migliaia di professionisti  e quando, di recente, il  quotidiano “La Sicilia” ha pubblicato  il testo  della lettera di un detenuto al 41 bis senza affiancargli alcun commento (neanche per spiegare ai lettori il ‘chi è’ di  Vincenzo  Santapaola), ha tuonato: “L’obiettività  non significa neutralità per il giornalista che è tenuto a una ricostruzione dei fatti  e a non deludere la fiducia dei suoi lettori. Quel quotidiano, agendo in quel modo, è venuto meno ai suoi doveri di informare in maniera completa e documentata la pubblica opinione”.
Finito oggi? Dopo decenni di battaglie campali  e accese  discussioni, chi immagina Abruzzo nei panni di un vecchio rammollito a zonzo per Milano, si sbaglia.  Adesso, prima di sederci in Galleria,  mi accenna al  suo viaggio.  Ci sta pensando da un po’.  Io sospetto che sia un viaggio particolare, da fare con la moglie  e le due figlie.  Invece è un viaggio della memoria. L’epico  viaggio dalla Calabria per raggiunge, la prima volta, Milano.
Era un martedì di  febbraio.  Andava via da Cosenza: 46 anni fa.  Con un nodo in gola, una notte insonne e la Fiat 600.  Aveva 23 anni. A Campotenese sosta per la notte,  roso dai dubbi: “Sentivo i pensieri che s’attorcigliavano e m’ impedivano  di proseguire. Pensavo a Giustino Fortunato: l’emigrazione come destino delle genti meridionali, la Calabria l’osso del Sud; ai miei insegnanti  del Liceo Telesio e a  donna Raffaella Barca, la  maestra delle elementari che mi aveva insegnato a scrivere a  4 anni; alla  guerra del 1943 con  i tedeschi della divisione Goering in casa,   la scuola occupata dagli sfollati, le aule senza vetri, i cappotti ricavati dalla coperte americane, le gallette dal sapore forte;  alle ore trascorse in oratorio con don Alfonso Sammarco; alla morte di mia madre quando avevo 16 anni. Un ingorgo di ricordi.  L’indomani mattina mi vennero in soccorso le parole del mio  professore di storia:  Milano ha fatto l’Italia.  Se doveste decidere di andare via, puntate su Milano e basta. Milano vi renderà liberi.  E così ripartì per il mio viaggio di sola andata.  In effetti,  Milano ha deciso nel bene e nel male, dal ‘700 ad oggi, tutte le svolte nazionali, dall’Illuminismo al Risorgimento,  Grande Guerra,  Fascismo, la  Resistenza, il  Centrosinistra,  Tangentopoli e la Lega Nord e oggi a Forza Italia.  Idem  per i giornali, qui sono nate le grandi testate. La mattina mi  spronò  il mio grande  sogno di  fare il  giornalista al “Giorno” e mi rimisi nella 600.  Mio nonno materno, nel 1906, aveva cercato fortuna a Filadelfia,  altri miei  parenti erano andati in Argentina e in  Brasile. Tutto sommato, io non andavo poi cosi lontano dalla mia Calabria”.
E sei stato accolto bene? “Si,  Milano è una  metropoli civile ed europea che non volta le spalle a nessuno. I   calabresi  hanno  contribuito a farla  grande  con la loro  fantasia, con la loro tenacia di teste dure.  Al “Giorno” il  clima era buono. Si scherzava sui terroni  e sui polentoni. Io ero preso di mira per il mio accento calabrese.  Riuscivo a far sorridere i colleghi raccontando che ero un longobardo del Sud tornato a casa. Non tutti sapevano  che Cosenza era stato il più meridionale dei ducati longobardi,  che sulla costa tirrenica c’è un paese che si  chiama Longobardi  e che dietro Vibo Valentia  c’è una  vallata dei Longobardi. I lombardi avrebbero scoperto i cugini terroni solo con il terremoto dell’Irpinia, terra di paesi longobardi. Sotto una chiesa vennero trovate diverse croci longobarde d’oro simili a quelle rinvenute a Trezzo sull’Adda. L’unità del Paese è forte”.
Ha il pregio della chiarezza Abruzzo. Anche quando parla della Calabria di oggi:  “In Calabria alligna una strana ma piccola stirpe di oppositori sociali, che hanno in Gioacchino da Fiore, Telesio, Francesco di Paola e Campanella i simboli esaltanti  dotati di spirito profetico. Quando c’è da dire qualche no, è facile imbattersi in alcuni calabresi, portati, come ha scritto Corrado Alvaro, a non accettare mediazioni, ma a schierarsi per il bene o  per il male, da una parte o dall’altra. I calabresi non conoscono la via del Purgatorio. Amano  volare nei cieli azzurri del Paradiso oppure bruciare tra le fiamme dell’Inferno. Ma i calabresi oggi non si devono aspettare nulla dai conterranei della diaspora. Arrivano i nostri, è stato soltanto un bel  film. I calabresi debbono prendere nelle mani il loro destino e costruirselo. E’ il momento della responsabilità e dei doveri”. 
Ancora:” Porto un grande amore per la mia terra, ma anche un grande odio quando vedo malaffare, delinquenza e rassegnazione. Repaci ha parlato di una Calabria grande e amara, Alvaro ha detto che  i calabresi hanno nel sangue il senso del giusto e dell’ingiusto. E’ ora che vincano il grande di Repaci e il giusto di Alvaro. Contro la ‘ndrangheta credo che vadano utilizzati mezzi eccezionali e misure fermissime. Dobbiamo però ricordarci che lo Stato siamo tutti  noi: è assurdo dire che lo Stato giù non c’è”.  
C’è stato un momento in cui hai pensato di tornare? “Nel 1975 ricevo un’ affettuosa telefonata di  Giacomo Mancini  che mi invita a lavorare al Giornale di Calabria. Lo ringrazio e gli  spiego che ormai il mio destino professionale è segnato. Milano mi ha conquistato. In verità, anche oggi non resterei in Calabria. Lo dico con franchezza.  Milano offre grandi opportunità.  Mi sento italiano e a  casa mia a Milano come a Cosenza. Questa nostra Nazione è stata costruita dai nostri nonni, dagli emigranti con le rimesse e dai combattenti, 6 milioni di uomini su 35 milioni di abitanti  che sul Piave hanno forgiato l’unità vera della nostra Patria, soffrendo fianco a fianco, per 41 terribili mesi”.
Toni da amarcord ma  Abruzzo è combattivo. Al  giornalismo non ha mai  chiuso  le porte.  Lo mastica in ognuna delle sue infinite   sfaccettature e, da bravo maestro,  ne rende intelligibile ogni mistero: “Ai giornalisti consiglio di aggiornarsi con Internet. Il futuro è profondamente digitale. Ai giovani colleghi consiglio non solo di studiare molto, ma di acquisire una dimestichezza diabolica con Internet. Oggi il problema centrale  è quello della difesa della professione che gli editori vogliono distruggere. Gli editori vogliono assemblare i materiali presenti nella rete utilizzando giovani precari e affidare la parte nobile, i commenti, a persone di fiducia (ambasciatori e professori universitari).  Un nucleo di giornalisti professionisti molto qualificato provvede, invece, alla creazione, all’assemblaggio e alla fattura del giornale. Questo disegno va contrastato. Bisogna difendere il ruolo storico del giornalista, mediatore intellettuale tra i fatti e la gente. E  battersi perché chi ha  interessi privati in altri settori non possieda giornali. La prima contromossa è l’approvazione  di una legge sullo Statuto dell’impresa editoriale, che separi proprietà azionarie e redazioni. Sarebbe ottima, come negli Usa, separare il giornale che racconta i fatti e li  spiega dalle pagine dedicate ai commenti, pagine che dovrebbero avere un direttore diverso da quello della pagine dei fatti. La scommessa è il giornalismo indipendente: può ritrovare cittadinanza in Italia? L’alternativa pessima è il giornalismo schierato con i poteri della politica e dell’economia.”
Un fiume in piena questo giornalista/giurista in servizio permanente stabile: “La legalità deontologica è un valore da difendere contro chi pensa di ridurre i giornali a veicoli di pubblicità spacciata per notizia, di gossip, di foto raccapriccianti, di articoli elaborati incollando le agenzie di stampa.  Le inchieste sui problemi sociali ed economici devono tornare nei giornali. Non è possibile che i giornali buchino sistematicamente i grandi scandali economico/finanziari lasciando che se ne occupino i Palazzi di Giustizia: all’informazione spetta anticipare i fatti”.
Cosi parla l’oracolo di Sesto San Giovanni. Stanco affatto. Abruzzo, dopo mezzo secolo di professione,  ogni mattina si siede alla sua scrivania, guarda  i giornali, legge le centinaia di mail piovute da ogni luogo sul suo sito (www.francoabruzzo.it Giornalistici  per la Costituzione). Studia i casi critici che gli segnalano.  Li viviseziona e poi si pronuncia. Quando l’indice picchia sul tasto “invio” del computer, partono in tutte le direzioni del Paese 32mila mail. Un esercito di lavoratori della scrittura nei grandi e piccoli giornali, di professionisti   audiovisivi d’ogni ordine e grado, di grandi giornalisti o di precari angosciati dal futuro, ma anche moltissimi  avvocati, magistrati, apre le mail di Abruzzo. E ne ricava  chicche di saggezza, pensieri illuminanti, insperate chiavi di lettura.


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