8 luglio 2008    

L'opportunità federalista: intervista al prof . A. Campi (di Romano Pitaro)


Ha un curriculum fitto di  pubblicazioni  sulle trasformazioni dei sistemi democratici  nel corso del Novecento. Da quando dirige la Fondazione FareFuturo di Gianfranco Fini, neo presidente della Camera, è ospite di  programmi culturali  in cui spiega che "il rischio che si presentino situazioni e   fantasmi del ventennio sono frutto di un cattivo automatismo ideologico". Il giornalista Romano Pitaro, Direttore dell'Agenzia di Stampa ''Calabria Informa''
Lo intervistano i grandi quotidiani e i tg nazionali  quando si tratta di  ricostruire quel filone di storia del pensiero  definito "realismo politico" o di avere opinioni su  temi, autori e movimenti politici della destra italiana ed europea. Per cinque anni è stato Segretario generale della Fondazione Ideazione ed uno degli animatori del bimestrale del centrodestra. E' editorialista del Mattino  e collabora con  Libero  e il   Foglio.
Il professore Alessandro  Campi, 47 anni vive a Perugia dove insegna Storia delle dottrine politiche all' Università. Non è nato però in Umbria,  ma nel capoluogo  della  Calabria. Figlio di un appuntato dei carabinieri, dopo la  maturità scientifica è andato via da Catanzaro, ma   ricorda "con affetto"  i tanti  amici di quei tempi e le sue prime "esaltanti esperienze" ai microfoni di Radio 104 Catanzaro che, nella seconda metà degli anni '70, da via Filanda   diffondeva  voci e suoni  nell'etere.
A Catanzaro ritorna, "quando mi invitano alla presentazione di libri o a dibattiti culturali. Nitidi i suoi ricordi: " Una città urbanisticamente sgradevole, cresciuta negli anni in modo disordinato, ma viva e schietta sul piano umano e vivace sul piano intellettuale, una città a tratti indolente e sonnolenta, ma autentica e orgogliosa, priva di violenza e come tale anomala nel panorama calabrese. Una città con un tratto a suo modo signorile, con una borghesia professionale culturalmente curiosa e un popolo  molto attaccato alle sue tradizioni. La ricordo priva di gerarchie sociali e di formalismi. Una città molto egualitaria.  Indimenticabili per me i  luoghi simbolo della città: Villa Trieste, attaccata alla caserma dei carabinieri dove mio padre lavorava e dove da bambino mi recavo spessissimo, e i giardinetti di San Leonardo, dove ho ciondolato per anni insieme ai miei amici e compagni di studio".
A Catanzaro ha scritto i suoi primi articoli: "Rammento con piacere la stagione delle radio libere e quella delle mie prime esercitazioni giornalistiche, con OggiSud fondata e diretta da Nino Doldo, e con Beppe Soluri. Ho mantenuto assai vivo il ricordo dei docenti che ho incontrato negli anni trascorsi al Liceo Siciliani. In particolare Gennaro Marzullo, mio professore di filosofia: non condivideva le mie scelte politiche ma le rispettava e incoraggiava. Fu lui a consigliarmi la lettura di alcuni autori di destra che, a suo giudizio, mi avrebbero culturalmente arricchito: Giuseppe Prezzolini e Augusto Del Noce. La mia formazione politico-culturale è nata con quelle letture". 
Autore di un recente saggio (edito da Marsilio), interessante e in parte dissacrante, intitolato  L'ombra lunga di Napoleone ( sottotitolo: da Mussolini a Berlusconi) in cui più che esplicitare una tesi di destra muove una serrata critica alla democrazia italiana per come si è venuta formando. A volte  si lascia tentare da  un giudizio negativo per le cosiddette personalità "esemplari" della storia che in parte giustifica per essere il frutto di processi storici ben precisi; nel caso di Mussolini  della piccola borghesia all'indomani del conflitto mondiale e,  nel caso di Berlusconi, della piccola e media borghesia all'indomani della cupezza degli anni di piombo italiani.
Il Prof. Alessandro CampiProfessore,  lei sostiene che ci sono delle grosse diversità fra An, Fi e Lega in riferimento ai codici genetici della destra, ma quelle  differenze  non teme possano provocare nel medio periodo  un'implosione della coalizione oggi al governo del Paese? Quanto sta accadendo in questi giorni sulla giustizia forse è un esempio. 
Le differenze sono indubbiamente molte. An rappresenta l'evoluzione della destra missina e dunque ha alle sue spalle una storia cinquantennale. Forza Italia è nata dalla fantasia di un imprenditore geniale con un forte senso dello spettacolo e una capacità comunicativa unica. Quanto alla Lega si tratta di un "partito territoriale" nato intorno ad una sola parola d'ordine, quella del federalismo. Ma ci sono anche delle somiglianze altrettanto evidenti. Ad esempio, si tratta di tre partiti con una forte impronta leaderistica e carismatica. Berlusconi, Bossi e Fini non sono mai stati messi in discussione dai rispettivi partiti. E questo è un indubbio punto di forza rispetto ad una sinistra che negli ultimi vent'anni ha visto alternarsi alla propria guida numerose personalità: da Occhetto a Prodi, da Rutelli e Veltroni, da Fassino a D'Alema. Altro punto comune è che si tratta di tre partiti sostanzialmente estranei, dal punto di vista storico-politico e culturale, al "patto costituzionale" dal quale ha avuto origine la Repubblica italiana. Secondo alcuni ciò rappresenta un grave limite: la conferma che si tratta di una destra che non ha radici nella storia nazionale e che presenta un tratto per certi versi "eversivo". Ma al tempo stesso rappresenta un indubbio vantaggio: in un Paese che inclina al conservatorismo istituzionale e al formalismo giuridico, queste forze non vedono nella costituzione repubblicana un tabù inviolabile, una sorta di "tavola della legge" che nessuno potrà mai modificare. Ciò spiega, ad esempio, l'inclinazione modernizzante e la spinta al cambiamento che questi tre partiti hanno sempre manifestata. Non avendo un passato al quale ancorarsi, sono sempre stati tentati dalla spinta verso il futuro.
Come giudica il percorso che ha consentito al centrodestra di vincere le elezioni e di  imboccare la strada dell'unificazione? Crede siano compatibili il populismo protezionista  di cui mena vanto  una parte del centrodestra  con il coraggio di compiere le scelte innovative che il Paese attende?
Dopo la nascita del Partito democratico, la strada verso il partito unitario del centrodestra era praticamente obbligata. Berlusconi e Fini l'hanno imboccata dando vita ad un cartello elettorale più che ad un partito vero e proprio. Ma si tratta di una strada dalla quale sarà difficile tornare indietro. La lotta alla frammentazione partitica e all'ingovernabilità richiede la nascita, a destra e a sinistra, di due partiti a vocazione maggioritaria: Pd e Pdl si tengono l'uno con l'altro, il che spiega la strategia dialogante scelta da Berlusconi e Veltroni. Non si tratta di un "inciucio", come si dice polemicamente, ma di una strategia di cambiamento del nostro sistema partitico che i due nuovi partiti debbono condurre, e vincere, insieme. A meno che non si voglia tornare alla frammentazione partitica e all'ingovernabilità che hanno caratterizzato i due anni del governo Prodi.
 L'Italia ha tratto un respiro di sollievo dopo la vittoria del centrodestra, forse  perché le paure della modernità liquida non comprese a fondo dal centrosinistra sono state per il momento sopite. Adesso tremano, però, le aree più svantaggiate del Sud, perché è giunta l'ora del federalismo fiscale alla maniera di Bossi. Qual e la sua opinione?
Forza Italia e Lega hanno un'impronta inequivocabilmente nordista. Basta guardare la composizione dell'attuale governo per rendersi conto quanto poco rappresentate siano le regioni meridionali. E'un male o qualcosa di cui preoccuparsi? Ricordo solo che quando nei governi sedevano a decine esponenti politici meridionali - soprattutto notabili democristiani - le cose per il Sud andavano egualmente male. Certo, sono arrivati soldi a palate, ma con quali risultati per lo sviluppo economico e sociale? Con il federalismo fiscale le cose potrebbero addirittura peggiorare, come molti paventano. Ma forse per il Sud è giunto il momento di rimboccarsi le maniche e di smetterla con le lamentazioni. L'assistenzialismo non assicura la crescita, serve solo ad allargare le clientele politiche. La strada da seguire è dunque quella di un nuovo protagonismo politico e civile che deve coinvolgere tutti i gruppi dirigenti di cui le regioni meridionali ancora dispongono. Bisogna rendersi conto che la causa del sottosviluppo del Sud non può essere sempre e comunque imputata all'egoismo delle regioni settentrionali: ha anche - forse soprattutto - cause interne. Tocca dunque ai meridionali rimuoverle, credendo di più in se stessi e prendendo atto di tutto ciò che non va nel loro territorio: da una criminalità organizzata nei confronti della quale troppe volte si è preferito chiudere gli occhi ad apparati politici e amministrativi locali le cui inadempienza non possono più essere accettate o, peggio, giustificate. In altre parole, quella del federalismo fiscale potrebbe tradursi entro certi limiti in una sfida salutare per tutto il meridione d'Italia.
La lega, parte centrale dell'alleanza di centrodestra, incarna molti dei più vieti pregiudizi antimeridionali, come può una forza politica come An, che ha tra i suoi riferimenti culturali  de Maistre, Burke, Chateaubriand, andarci a braccetto?
Il vero punto di frizione tra Lega e Allenza nazionale è effettivamente rappresentato dal tema dell'unità nazionale. La Lega ha rinunciato, almeno ufficialmente, alla secessione, ma il suo autonomismo non è solo amministrativo e fiscale: ha anche una connotazione politico-culturale in senso antinazionale. Non è un caso che sui giornali leghisti si leggano continuamente denunce del Risorgimento. Non è un caso, per fare un riferimento alla cronaca, che nessun ministro leghista (nemmeno Maroni, titolare del Viminale) abbia partecipato alla parata militare del 2 giugno. Quella leghista è una forma di secessione psicologica e culturale: per essi l'Italia non è più nemmeno un'espressione geografica. La loro fedeltà va alla Padania. Per Alleanza nazionale, al contrario, il valore dell'unità politica italiana è irrinunciabile. Proprio per questa ragione credo che la destra italiana abbia un compito assai importante da svolgere all'interno dell'attuale maggioranza di centrodestra: quella di garante, politica e culturale, dell'unità nazionale.
Destra/sinistra, quale destra quale sinistra?, oltre la destra e oltre la sinistra. Non una, ma decine di sue  pubblicazioni sul tema. Quasi, mi scusi,  un'ossessione intellettuale. Un impegno di studio serrato, ma anche una passione  per la destra, ebbene, professore, a suo avviso la destra italiana di cui An è l'erede è lusingata di avere un leader come Berlusconi alla guida della coalizione?
La leadership berluscononiana, per quanto controversa possa apparire, non può essere messa in discussione: è stata consacrata dalle urne ed ha dimostrato, in questi quindici anni, di avere una base sociale e politica tutt'altro che effimera. Certo, Berlusconi è un leader con caratteristiche molto particolari: la sua provenienza aziendalistica, la sua esuberanza, il suo modo di fare accentratore, la sua esibita antipoliticità, il suo senso dello Stato piuttosto approssimativo, possono non piacere. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che è solo grazie a Berlusconi e al suo indiscutibile carisma che in Italia si sono create le condizioni per un cambiamento politico-istituzionale finalmente in grado di dare al nostro sistema politico un minimo di stabilità. Senza il berlusconismo oggi non ci sarebbero né il Partito democratico né, probabilmente, una destra riformista e moderna come quella incarnata da Fini. L'uomo può non piacere, ma la sua capacità d'innovazione non può essere disconosciuta.
Lei guida la Fondazione Farefuturo di Gianfranco Fini, qual è la vostra idea sul Mezzogiorno italiano?
Il Sud, nell'idea della Fondazione, non può essere interpretato come un freno alla sviluppo dell'Italia o come un problema irrisolvibile. Deve invece essere inteso alla stregua di un'opportunità. Il che significa valutarne con attenzione le potenzialità dal punto di vista sociale, culturale ed economico. Il vero problema al momento sembra essere quello di una società civile piuttosto rassegnato e delusa, che preferisce non impegnarsi in prima persona, lasciando così la funzione di rappresentanza ad un ceto politico che spesso non appare all'altezza della situazione.
La Calabria vive una stagione difficile, la recrudescenza mafiosa si salda ad una sorta di distacco quasi gelido  con le autorità istituzionali,  politiche ed economiche del Paese.  Dal suo osservatorio privilegiato, come giudica l'isolamento di una regione di 2 milioni di abitanti che chiede inutilmente più  attenzione allo Stato?
Ci si appella allo Stato, ma poi, molto spesso, non se ne riconosce la legittimità sovrana. L'esempio della Campania di queste settimane è illuminante. Si pensa allo Stato solo come ad un dispensatore di finanziamenti e posti di lavoro. Lo si invoca in caso di calamità. Ma non ci si rende conto, per cominciare, che lo Stato non è un'astrazione giuridica o un entità distante dalla vita di ognuno di noi. Lo Stato è fatto dai cittadini che lo abitano. Insomma, l'esistenza dello Stato implica diritti, ma anche precisi doveri: per cominciare il dovere della legalità, l'obbligo di rispettare le regole. Quello che vedo operare in Calabria, purtroppo, è la tendenza a infischiarsene della dimensione pubblica e istituzionale, a darsi regole di comportamento che rispecchiano il proprio tornaconto immediato e non un qualche interesse generale o comune. Insomma, ci si richiama allo Stato come ad un feticcio, ma poi si agisce in modo quasi anarchico. Bisogna uscire da questo dualismo mortale, che è forse la causa principale dell'isolamento di cui lei parla. Il rispetto della legge, ad ogni livello e in qualunque occasione, è il primo passo per mettere in crisi la mafia e per farle terra bruciata dal punto di vista del consenso sociale.

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