12 giugno 2008    

Terra e libertà. Il Saggio di Michele Drosi su Pasquale Poerio


«Per capire quello che avvenne a Melissa bisogna ricordare le drammatiche condizioni di quelle popolazioni. Mancavano dalla tavola del contadino, dei braccianti e dei lavoratori, la carne, il vino, lo zucchero. Bassi erano i salari, inesistenti i contratti. E per poter trovare lavoro, a migliaia erano costretti a trasferirsi nel crotose e a dormire sotto i portici di Piazza Pitagora o, a cielo aperto, helle grandi rnasserke dei baroni. La presenza del feudo aveva bloccato la crescita civile, sociale ed economica. I contadini mossero all’attacco del latifondo, con il sacrificio di tante vite umane, avendo individuato nella sua esistenza e nella sua conseguente distruzione la chiave per aprire la porta verso la liberta e il progresso. La copertina del Libro edito da Rubbettino
Le lotte di quegli anni aprirono la strada alla riforma agraria, innestando, pur tra limiti e contraddizioni, un fatto di civiltà dell’intero Mezzogiorno e del Paese. Melissa è attuale perché è
lezione che stimola ad un grande sussulto meridionalista che può consentire al Sud di essere una opportunità positiva, proprio mentre si aprono le porte dell’Europa.

Sono alcuni passaggi dell’intervento che Pasquale Poerio avrebbe dovuto svolgere, nella sala del Consiglio comunale di Catanzaro, sabato 9 novembre 2002, al convegno indetto dall’Associazione “Questione Meridionale” sul tema: “Fatti di Melissa; un nuovo meridionalismo” e che danno il segno di quanto egli sentiva fortemente il rapporto con la terra e con i contadini, dai quali aveva tratto ispirazione per il suo pensiero e la sua azione politica.
Ma, proprio qualche giorno prima, il 6 novembre, nel corso di una manifestazione della CGIL con il segretario nazionale, Guglielmo Epifani, nel Teatro Comunale di Catanzaro, perse l’equilibrio e cadde rovinosamente dalle scale mentre si accingeva a porgere un saluto ai numerosi lavoratori presenti. Proprio sul campo, quindi, mentre ancora continuava a lottare in difesa di quegli ideali che hanno permeato tutta la sua esistenza, è mancato all’affetto dei suoi cari e dei tanti che lo hanno conosciuto e stimato, dopo il ricovero all’ospedale Pugliese, nonostante le cure attente e premurose dei medici.
Figlio di un vecchio socialista, Anselmo, nato negli Stati Uniti e di una donna coraggiosa, Angela Curcio, Pasquale Poerio venne alla luce a Casabona, nel crotonese, l’1 ottobre 1921, prima dei fratelli Francesco e Carlo e delle due sorelle. Come si conviene al figlio primogenito di una famiglia contadina benestante, incomincia a studiare, frequentando le scuole medie a Crotone, poi il liceo Classico Morelli di Vibo Valentia e il conseguimento della maturità a Nicastro. Successivamente si iscrive alla facoltà di medicina presso l’Università di Pisa.
Sono anni difficili. Il 10 luglio del 1940 l’Italia è entrata ufficialmente in guerra e nell’Alto crotonese le condizioni di vita sono davvero drammatiche. Casabona è il cuore del feudo. Migliaia e migliaia di ettari di terra sono in mano a pochissime persone: i Berlingieri, i Barracco, i Lucifero, i Gallucci, i Caputi. I braccianti agricoli vivono in condizioni di assoluta miseria, in preda alla malaria, senza alcuna assistenza e con salari decisamente bassi. Davanti a questa situazione, Pasquale interrompe gli studi, e torna a Casabona.
Tenterà di riprenderli, senza mai concluderli, iscrivendosi a lettere a Bari, ma trovando il tempo di frequentare le lezioni di Aldo Moro a Scienze Politiche.
Forse, proprio in quegli anni, cresce in lui quel rispetto per le istituzioni che non lo abbandonerà mai, anche quando si batterà contro gli uomini che, nelle diverse circostanze, le rappresentano.
Pasquale Poerio in un comizio a CatanzaroGli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, decisivi per la formazione e le scelte di Poerio, presentano un quadro d’insieme particolarmente drammatico.
L’economia è allo sfascio, la fame incombe, nessun segno di ripresa economica e l’agricoltura torna ad essere il luogo-rifugio di disoccupazione nascosta e sottoccupazione reale. Braccianti  e contadini sono più poveri di prima e le popolazioni di montagna sono tornate a riconsiderare la raccolta delle castagne, delle ghiande e delle erbe spontanee, in un quadro di miseria reso più grave dal fatto che il regime di guerra ha fatto “saltare”, il sistema che aveva retto l’economia di alcune zone. Il 13 luglio 1944, il Ministro dell’Agricoltura dell’appena costituito “Governo di Salerno”, Fausto Gullo, è a Crotone. L’occasione della visita è determinata dal bisogno di incontrare i produttori di grano dei comuni del Marchesato, per ottenere la consegna all’ammasso di Stato di tutto il grano prodotto, compresa la quantità di grano che gli affittuari ed i terragisti avrebbero dovuto corrispondere ai prpoprietari terrieri, promettendo che se ciò fosse avvenuto i contadini avrebbero avuto diritto a un riduzione del trenta per cento del pagamento del fitto. L’incontro si svolge nel cinema Apollo in una giornata afosa, ma «festosa per la circostanza».
«Io vi partecipai», ricorda Poerio, appena tornato dall’Università di Bari, «con una nutrita delegazione della sezione del Partito comunista di Casabona, il mio paese. Mi impressionò soprattutto l’uomo per il distinto portamento. L’eleganza ben curata della persona, nonché il suo parlare semplice e chiaro, e soprattutto l’immediatezza del contatto umano che riuscì a stabilire con i contadini ed i massari che da tutti i comuni del crotonese erano intervenuti numerosi.
Quell’incontro registrò un serrato confronto sulla concessione delle terre incolte e sul “Decreto Visocchi”, emanato alla fine della prima guerra mondiale “per placare la fame di terra dei contadini”, ma anche sull’esosità degli affitti, lamentato da molti contadini, i quali reclamavano un altro decreto simile. Gullo sostenne che la difficoltà stava nel mettere d’accordo tutti i componenti del governo, tra i quali c’erano grossi proprietari terrieri».
Ricorda ancora, «a quel punto qualcuno gridò: “ma se non la fai tu una legge simile che sei un ministro comunista, chi la può fare?”. L’interrogativo lanciato nell’aria sorprese tutti e fu subito coperto da un lungo, fragoroso battimani che neppure il caldo afoso e l’aria pesante del teatro affollato ebbero la forza di spegnere».
Proprio da quell’incontro partì da Casabona la prima iniziativa, nel settembre del 1944, di occupare le terre incolte: il feudo dei Caputi, mille ettari, sulla sponda destra del fiume Vitravo. «Ricordo una fiumara di persone, di carri, di animali. Non avevo mai visto prima tanti contadini messi insieme», dice quasi se quelle figure gli fossero davanti. «Gli alleati si misero paura. Quella prima occupazione poteva accendere la miccia di chissà quante altre. Decisero di far sgomberare subito le terre occupate. Mandarono le truppe marocchine. Ricordo la lunga interminabile fila di cingolati che risaliva il corso del Vitravo, mentre i contadini ignari di tutto stavano preparando il terreno per la semina autunnale. Molti ebbero paura che sarebbe avvenuta una carneficina. Invece, i contadini calabresi e i soldati marocchini fraternizzarono. Capirono di essere entrambi gente povera, che lottava per sopravvivere. Le donne tirarono dalle sporte quello che avevano da mangiare, il pane, le sarde salate, il vino, lo distribuirono a tutti», racconta Poerio, sottolineando che gli inglesi non si spinsero oltre e che i contadini rimasero sulle terre occupate.
Da questo primo episodio di occupazione nacque il rapporto organizzato tra contadini e partiti della sinistra, comunisti e socialisti, che poi diede l’avvio al movimento per l’occupazione delle terre, che rivendicava l’utilizzo delle terre incolte nel crotonese, dove più di un terzo della superficie agricola apparteneva al latifondo: 1 6mila ettari erano dei Berlingieri e 30mila quelli dei Barracco.
Il 28 novembre 1946, per mano del fattore di un agrario, cadeva ferita mortalmente a Calabricata, frazione di Cropani, Giuditta Levato. Era la prima vittima del movimento contadino calabrese del dopoguerra. Il segno di una resistenza sociale e politica ancora forte nel mondo agrario che si faceva violenta di fronte ai successi contadini. Esso indicava emblematicamente il nuovo livello e l’aspro terreno di classe cui era approdata la lotta delle masse popolari nelle campagne calabresi.
In questo clima di tensione, nel quale la pressione padronale sulle autorità pubbliche era andata crescendo di giorno in giorno, il 29 ottobre 1949, mentre era in corso un’occupazione nel fondo Fragalà dei Berlingeri, a Melissa, la polizia sparò sulla folla. Caddero uccisi due contadini. Un terzo, ferito, morì poco dopo in ospedale. Oltre quattordici furono i feriti. Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, braccianti senza terra, furono le vittime dello zelo repressivo del reparto della Celere denominato “Pugile”, inviato espressamente da Bari nel Crotonese. Gli avvenimenti di Melissa sono abbastanza noti per essere qui nuovamente raccontati. Essi sono stati oggetto più volte di richiamo e rievocazione tanto da costituire ormai nella memoria pubblica il simbolo drammatico delle lotte contadine calabresi.

Nel paese la reazione a quei fatti fu enorme. La CGIL proclamò per il 31 ottobre uno sciopero generale di protesta. Organismi e associazioni democratiche espressero il loro sdegno in
tutto il territorio nazionale. E gran parte della stampa d’informazione su posizioni notoriamente distanti da quelle della sinistra non mancò, con vari toni, di fare eco agli avvenimenti e di Il quadro di Myke Arruzza dedicato alla vicenda di Giuditta Levato
condannare l’eccidio. Si può anzi senz’altro dire che furono proprio gli avvenimenti di Melissa, in quello scorcio del 1949, a rendere di colpo popolare in tutto il paese l’immagine sociale del latifondo calabrese e a trarla fuori dai limiti ancora così angusti in cui essa era nota e conosciuta. La protesta degli intellettuali progressisti si fa sentire alta. Grandi pittori come Ernesto Treccani si recano a Melissa per studiare da vicino le condizioni di quel popolo e per fissare sulle tele l’aspirazione a un mondo migliore.

“Fuoco su chi ha fame”, titola «l’Avanti» dell’1 novembre e Fernando Santi firma l’editoriale “Sangue sul latifondo”, che recita «In Calabria i contadini guadagnano non più di trecento lire al giorno, tutto compreso, e per meno di cento giorni all’anno. Il resto è fame. Una fame disperata che il figlio eredita dal padre maledicendo e che lascia maledicendo ai figli ed ai figli dei figli.
In questa vigilia d’inverno la fame è uscita dalle case sporche, senz’acqua, senza igiene, senza luce e si è messa in cammino verso le terre dei Baroni Berlingieri nell’agro di Crotone, località Melissa.
Le condizioni della Calabria sono spaventose e costituiscono per la nazione italiana una vergogna senza nome. Paesi interi senza strade, senza luce, senza acqua, senza igiene, senza cimiteri, senza medici, senza scuole. Oltre il quaranta per cento della gente non sa leggere e scrivere. Una disoccupazione permanente condanna alla miseria operai contadini e giovani intellettuali. Una volta c’era la “Merica” che salvava con “Broccolino” e la California. Ora l’America amica spranga le sue porte a questi miserabili che muoiono di fame sulle terre e sulle coste dove pure ricca fiorì la civiltà della Magna Grecia.

Alla Camera e al Senato forte e sdegnata è la denuncia che fanno i parlamentari di sinistra. Pietro Mancini, che insieme a Gennaro Miceli, Francesco Francesco Spezzano, Silvio Messinetti, Mario Alicata è stato presente a Melissa subito l’eccidio, al Senato il 23 novembre 1949, pronuncia un memorabile discorso che il repubblicano Conti definì “musicale”: «Già basta ricordare come furono trovati coperti i morti di Melissa per avere la prova della infinita miseria di quei lavoratori. Senza camicia, con la giacca e i calzoni pieni di rattoppi e, al posto delle scarpe, dei pezzi di gomma di ruota di automobile. Io v’invito a pensare alla situazione delle lavoratrici che hanno perduto le fattezze della donna e le tracce della giovinezza. Giovani non furono mai, a trent’anni sono vecchie, afflosciate; senza attrattive di sesso, sporche e a piedi nudi. Qnorevoli colleghi io vorrei domandare all’europeista onorevole De Gasperi in quale in quale plaga della sua Europa ha mai visto delle donne scalze [...].
[...] Il popolo di Calabria saprà da solo conquistare l’esercizio di tutte le sue attività, che distinguono i popoli più progrediti: agricoltura, industria, commercio. Non sarà medico e neanche professore di lettere, ora ha altri maestri e, con la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo e la ripresa della vita democratica, Poerio cede al fascino della politica e alla pressione di Gennaro Miceli, l’allora segretario della Federazione Comunista; abbandona gli studi universitari e si trasferisce a Catanzaro dove inizia l’avventura “rivoluzionaria”, provocando, in tal modo, la reazione dei familiari - ci volle davvero del tempo prima che le ire del padre si placassero - segnalandosi tra i costruttori di coscienze, Fausto Gullo, Eugenio Musolino, Paolo Surace, don Ciccio Malgeri, Gennaro Miceli, Paolo Cinanni, Cesarino Curcio, Gigino Tropeano, Enzo Misefari, Gino Picciotto, Gigino Silipo, Ciccio Spezzano, Silvio Messinetti, Giovanni Lamanna e tanti altri ancora, alla testa della Federterra, dell’Alleanza dei contadini, della Camera del lavoro, del Partito, sempre a diffondere tra i lavoratori il verbo dell’organizzazione e della lotta, come voce tonante e sicura delle classi meno abbienti. Nel corso della sua attività parlamentare, Poerio, fu molto attivo per via dei numerosi interventi svolti sia in aula che nelle commissioni, delle tante proposte di legge presentate e delle centinaia di interrogazioni sempre rivolte ad evidenziare le grandi condizioni di abbandono nelle quali versavano varie realtà della regione come nel caso, per esempio, dell’abitato di Pietracupa di Guardavalle e delle inammissibili violazioni dei diritti e delle libertà sindacali perpetrati in provincia di Catanzaro a danno delle raccoglitrici di olive.
Pasquale Poerio non ha mai detto no e questa è, forse, l’immagine più forte di un uomo che è vissuto portandosi dentro il segno del riscatto e del cambiamento.
Siamo in presenza, pertanto, di una esperienza umana e politica rilevante, segnata da episodi di grande significato e di grande che valore, sempre scevra dall’alterigia e dall’enfasi eccessiva, tipica
dei potenti e caratterizzata, invece, da grande umiltà e anche da estenuanti ed incomprensibili “silenzi”. La “fama” del ragazzo, cresciuto ad immagine e somiglianza della politica, aveva varcato
i confini della Calabria. Ruggero Grieco, Giorgio Amendola, Emilio Sereni, Mario Alicata, Pietro Ingrao, Giancarlo Pajetta, Gerardo Chiaromonte, Abdon Alinovi, Emanuele Macaluso, Giorgio Napolitano, oggi presidente della Repubblica, e tanti altri compagni della Direzione del PCI apprezzavano quel giovane compagno calabrese, educato e di poche parole, quasi impacciato con l’espressione di quei poveri cristi di contadini che un tempo avevano ostentato la loro vita tra lunghi periodi di rassegnazione e improvvise esplosioni di collera e che ora, invece, guardano avanti con animo sereno perché sanno di non essere più soli.


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