13 maggio 2008    

Intervista al prof. Roberto Bin (di Romano Pitaro)


L'elezione diretta?  E' fuori discussione...
 
Il “caso Calabria” - esattamente questo è i titolo del VI capitolo dedicato a Regioni e governo locale -    finisce nel testo di diritto costituzionale adottato dalla facoltà di giurisprudenza della Bocconi.  Il prof. Roberto Bin ordinario di Diritto Costituzionale all'Università degli Studi di Ferrara
L’ingegnosa ipotesi per cui la Calabria è menzionata, respinta dalla Corte costituzionale nel 2004 per violazione dell’articolo 122 della Magna Charta, consisteva nell’ accostare al  presidente della Regione eletto direttamente, un vicepresidente in grado,  nel caso di dimissioni  volontarie, incompatibilità sopravvenuta, rimozione, impedimento permanente o morte del presidente della giunta,  di evitare l’interruzione della legislatura.
Pur guardando, all’epoca dei fatti,  tutti i consiglieri regionali d’Italia, con espressa condivisione all’iniziativa calabrese, infine si dovette prendere atto che quella vicenda  consentì alla Corte di consolidare la riforma della forma di governo regionale basata sull’elezione diretta del presidente della giunta, “ponendo un consistente ostacolo all’adozione di soluzioni dirette a limitare o temperare il ruolo del presidente eletto”.
Autori del testo giuridico sono Roberto Bin e Giovanni Pitruzzella. Due noti e autorevoli costituzionalisti.  Col  professore Bin, che  insegna diritto costituzionale all’Università di Ferrara, dirige    la rivista "Le istituzioni del federalismo" ed è nel comitato di direzione delle riviste "Quaderni costituzionali", "Le Regioni" e “Rivista di Diritto costituzionale”, abbiamo fatto un primo bilancio sulla fase costituente avviata nelle Regioni la scorsa legislatura e il punto su alcuni dei nodi irrisolti nel funzionamento del sistema delle Regioni.
 “Non inseguite le regioni del Nord”. E’ quanto suggeriva lei nel  2000,  dopo l’introduzione dell’elezione diretta del presidente e la riforma costituzionale che  consentiva alle Regioni di dotarsi di nuovi Statuti. Sono trascorsi 8 anni: quel suggerimento è stato accolto dalle Regioni del Sud?
“A dire il vero, non vedo grandi fermenti al Sud, e forse neppure al Nord. Certo non mi sembra che i nuovi Statuti abbiano segnato una svolta. La svolta l’ha segnata semmai la riforma costituzionale che ha imposto, in via transitoria, l’elezione diretta del Presidente. Ma è una svolta che non sempre ha rianimato le Regioni”.
Qual è il suo giudizio sull’epilogo della stagione costituente nelle Regioni?
“Francamente mi sembra molto deludente. Gli Statuti sono stati lasciati in balia di assemblee non molto attrezzate ad affrontare il compito, decisamente miopi nel vedere i problemi e condizionate dalla stessa prassi politica che aveva generato il bisogno di cambiamento In molte Regioni la stagione degli Statuti non è finita in gloria. Troppo tempo e troppa attenzione sono stati dedicati all’inutile dibattito attorno alle “norme di principio”: l’equivoco per cui gli Statuti sarebbero delle “piccole costituzioni” è stato chiarito dalla Corte costituzionale, la quale ha fatto bene a dire con tutta chiarezza che non è così, che le Regioni sono libere di assumere tutti i programmi che ritengono politicamente importanti per la propria collettività ma che, giuridicamente, queste norme non possono avere alcun effetto giuridico. Tanta è stata l’attenzione per il sistema di elezione del presidente della giunta e per la distribuzione dei compiti tra esecutivo e consiglio regionale, quanto poca è stata quella prestata all’effettiva ristrutturazione del consiglio regionale, al potenziamento delle sue capacità effettive di decidere (cosa ben diversa dalle competenze formali, da troppo tempo ben poco esercitate), all’allargamento delle sue capacità di acquisire conoscenze circa le decisioni che assume, al rafforzamento della sua possibilità di attrarre l’attenzione degli interessi organizzati e dei cittadini (quello che con termine che odora ormai d’antico si chiama la partecipazione).Forse non molto potevano fare gli Statuti per risolvere questi problemi complessi, ma certo assai poco hanno inventato per avviare un processo tendente alla loro soluzione. Ora, però, questo compito si ripropone, ineludibile”.
Riscontra  diversità di atteggiamento, nell’adozione degli Statuti, fra Regioni del Nord, del Centro e del Sud?
“Direi proprio di no”.
I consigli regionali sono stati i più colpiti dall’elezione diretta del presidente. Non a caso,  in tutte le regioni si tifò per la soluzione proposta dallo Statuto calabrese che prevedeva la  prosecuzione della legislatura, attraverso il vicepresidente anch’egli eletto contestualmente al presidente ( la formula del ticket).  Non trova che la crisi  delle assemblee legislative regionali meriterebbe più  attenzione da parte del legislatore nazionale?
“Le rispondo con una provocazione: se davvero l’elezione diretta del presidente ha svuotato di funzioni le assemblee, allora l’unico auspicabile intervento del legislatore nazionale dovrebbe essere nel segno di ridurre il numero dei consiglieri regionali.  Ma io penso che la perdita di ruolo dei consigli regionali – che corrisponde del resto ad una perdita di ruolo delle stesse assemblee parlamentari nazionali – non c’entri affatto con l’elezione diretta, ma risalga a ben prima. La causa è una pessima considerazione che gli eletti hanno del compito che devono affrontare: che non è affatto quello di insidiare l’esecutivo (nella speranza di prenderne il posto: bella dimostrazione di consapevolezza del ruolo dell’assemblea, vero?), ma quello di “rappresentare” la collettività, conoscerne i problemi e studiarne la soluzione, per poi trasformarla in legge e seguirne l’applicazione per capire che cosa sia riuscita a produrre. Che c’entra tutto questo con l’elezione diretta del presidente? I consigli regionali sono inutili se non sanno fare bene il loro lavoro, che è legiferare. E legiferare non è votare il testo che l’esecutivo propone, magari peggiorandolo un po’”.
Se dovesse essere istituita una Camera delle Regioni (al posto dell’attuale Senato)  appena il nuovo Parlamento, dopo il voto,  potrà discutere di riforme istituzionali,  a parteciparvi dovrebbero essere gli esecutivi o le assemblee legislative?
La cartina dell'italia federalista“Questo è un problema a cui non si può rispondere ideologicamente, come di regola si fa in Italia. Il problema non è chi siede nel Senato, ma come può funzionare l’intero sistema istituzionale. Un Senato composto dai soli presidenti di giunta (il modello tedesco) può funzionare benissimo, ma cessa di essere un ramo del Parlamento; anche un Senato composto da consiglieri regionali può andare benissimo, ma allora bisogna rafforzare parallelamente il collegamento tra gli esecutivi, la Conferenza Stato-Regioni per intendersi. E’ quello che succede in tutti i paesi, del resto. Non si possono affrontare questioni così delicate e rilevanti pensando solo all’estetica, alla coerenza con qualche strano principio teorico, alla rilevanza – anch’essa del tutto astratta – del proprio ruolo. Anche la questione delle ineleggibilità o incompatibilità tra i ruoli politici locali, regionali e nazionali dovrebbe essere seriamente ripensata: non siamo in grado di esprimere (e mantenere) una classe politica così estesa né di sopportare gli scollamenti e le concorrenze “in casa” che queste sovrapposizioni inevitabilmente creano. Si dovrebbe pensare a queste questioni con prudenza e intelligenza: e soprattutto con una necessaria attenzione agli aspetti tecnici che condizionano il funzionamento degli assetti istituzionali”.
Quando si dice che l’elezione diretta ha favorito la stabilità ma non la governance, lei cosa risponde?
“Che non capisco di cosa si parli. Senza stabilità non si può fare nulla, ma la stabilità deve avere basi politiche, e non solo giuridiche. Con coalizioni litigiose non si può fare nulla: il matrimonio funziona se c’è amore e concordia, non perché è vietato il divorzio. Il che significa che è la politica che deve cambiare, non le regole costituzionali: la politica può essere virtuosa anche se le regole non lo sono, ma le regole, anche le migliori, non possono operare virtuosamente con una politica che virtuosa non lo sia”.
Qual è il suo giudizio sullo Statuto calabrese?
“Non diverso dagli altri: non favorisce la soluzione dei problemi veri. In fondo, cosa cambierebbe se non ci fosse?”
Non trova contraddittorio assegnare pieni poteri al presidente che può, secondo l’articolo 122 della Costituzione, nominare e revocare gli assessori e poi invece, come fa lo Statuto calabrese, limitare la possibilità del presidente  di scegliersi gli assessori esterni? 
“Sì, mi sembrerebbe una sciocchezza se non fossero evidenti i suoi poco nobili motivi. Però anche i presidenti dovrebbero seguire un corso di buona educazione istituzionale e favorire il rilancio del ruolo delle assemblee, invece di comportarsi da “governatori”. Il sistema istituzionale funziona a dovere se tutte le sue parti funzionano bene, e questo chiunque guidi l’esecutivo lo capisce presto: senza un’assemblea efficiente non si può governare bene”.
Pensa sia possibile riflettere su un mutamento della forma di governo nelle Regioni  che elimini l’elezione diretta o questa ipotesi  è del tutto fumosa?
“Francamente mi sembra una perdita di tempo, almeno fino a quando non venga eliminata la possibilità di sottoporre lo Statuto a referendum: chi glielo va a spiegare agli elettori che è meglio che il presidente lo scelgano i consiglieri regionali anziché gli elettori stessi”?
Con gli Stati a sovranità ridotta, addirittura con la sovranità monetaria trasferita ad un’istituzione federale e  con la politica di bilancio limitata da un trattato internazionale, quale politica e soprattutto quale politica economica possono svolgere le Regioni, specie quelle svantaggiate come la Calabria? Non è forse un’illusione conferire ai governi locali molti poteri,  se poi le Regioni  non hanno i mezzi finanziari per ridare ossigeno all’economia, difendere le famiglie dalla povertà, costruire prospettive per i giovani?
“Ho l’impressione che la perdita di sovranità sia un alibi all’inefficienza. Non considero la Calabria una Regione svantaggiata: se formassimo un bilancio patrimoniale della Calabria, inserendovi il valore di beni come le coste, il mare, la montagna, la qualità dell’aria e delle acque, i beni culturali ecc. avremmo ancora una Regione svantaggiata? Il suo svantaggio è in larga parte causato dalla gestione della cosa pubblica. Le risorse saranno anche poche, ma in Europa esistono regioni ben più “svantaggiate” che hanno saputo fare passi da gigante. Incolpare cause remote serve solo ad un obiettivo: offuscare le vere cause e nascondere il nesso elementare che collega la responsabilità dell’eletto alla responsabilità dell’elettore. La perdita di quel nesso è la causa del vero svantaggio”.

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