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29 aprile 2008
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Morto Sharo Gambino, scrittore e giornalista (di Romano Pitaro)
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Da tempo resisteva nella sua casa, non al fluire del tempo ma all’ozio cui era costretto dagli acciacchi inesorabili. Le cose importanti non si fanno con la forza e l’agilità, dice Cicerone, ma col senno, il prestigio e le idee. Perciò lo scrittore- giornalista delle Serre per antonomasia, continuava, a dispetto della malattia, a essere curioso di tutto. Gli frullavano in mente cento idee. Come se non fosse giunto all’ultimo atto della sua rappresentazione. Ogni volta che lo sentivo mi chiedeva notizie su ogni cosa. Si piccava: “Non si parla più della Calabria interna con passione, neanche la politica, da anni ho l’ impressione che è diventato difficile persino dialogare”. Mi aspettava a pranzo per farmi vedere il malloppo delle sue “terze pagine” pubblicate su decine di testate regionali e nazionali nel corso di una militanza giornalistica di oltre mezzo secolo, intrisa di sacrifici e ricerche letterarie. A quel pranzo non ci sono andato. Imperdonabile. Ma l’avevo fatto felice un mese fa. Io e Pietro De Leo, professore di storia medioevale e paleografia latina ad Arcavacata, gli abbiamo riattizzato, seppure per poco tempo, la sua incoercibile vis polemica. Dopo averlo intervistato, per chiarire il mistero del certosino americano, in cerca di pace nella maestosa Certosa di San Bruno, che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima e diventato uno dei più grandi falsi scoop giornalistici della storia, ci fu una simpatica e intrigante divergenza di vedute col professore De Leo sull’esistenza o meno di una lettera di Boccaccio a un monaco fedifrago. Gambino, che dell’esistenza di quella lettera aveva già scritto, intervenne con un articolo pubblicato dal Quotidiano e scritto grazie all’aiuto della figlia Cinzia, la “mia eccezionale assistente”. Con lo stile asciutto e avvincente che l’ha sempre contraddistinto, spiegò la rabbia dell’autore del Decamerone appena scoprì l’improvvisa fuga del monaco bugiardo. In quei giorni al telefono Sharo era un giovanotto di 30 anni pronto a buttarsi nella mischia. Quando l’ informavo sullo scambio di opinioni con il prof De Leo, mi raccomandava, come un maestro con l’allievo: “Meglio sarebbe non rispondere, quello che doveva essere detto noi l’abbiamo detto nell’intervista, ma se proprio vuoi rispondere, sì breve.” Breve, purtroppo, è stato anche il tempo intercorso fra la pubblicazione di quell’ articolo sul “poeta dell’intelligenza” e la sua morte, ma in quei giorni Sharo era come ritemprato; si fece persino portare d’urgenza all’ospedale di Vibo Valentia per tentare in extremis un rimedio oculistico che gli consentisse almeno di leggere. Insomma, la morte non la temeva e la vecchiaia la viveva se non con gioia non come un peso. Però una cosa, in questo caso, si può dire con certezza, ossia che la morte non è giunta al momento giusto. Questo vivido testimone di una Calabria senza interpreti, poteva ancora catturare l’attenzione di grandi giornalisti (come aveva fatto con Enzo Biagi ed Ettore Mo) e di grandi scrittori. Poteva ancora ostinarsi a raccontala. Oggi la Calabria profonda, che avverti in tutta la sua magnificenza appena gratti la corteccia su cui danzano sofisti d’ogni impudenza, è più sola. Ora che Gambino è uscito di scena, è come se una delle sue radici più remote le sia stata strappata. Chi mai oserà, per esempio, nell’universo delle notizie di cui sconosciamo persino la fonte e non esigono più alcun nesso con la realtà, tantomeno con le realtà più miserande del Mezzogiorno, scrivere sugli ultimi della società versi drammatici come questi: “Il cane ha la bocca maledetta,/ la capra ha maledetta pure la bocca./ Nella piazza disselciata e deserta/ un tubo di grondaia ai piedi nudi/ d’un bimbo scarica l’ultima pioggia./ La nebbia va./ C’è fame anche di Cristo". Sharo a quei tempi (1958) faceva il maestro nelle contrade più derelitte del Sud del Sud. Ricordava cosi quell’epoca: “ C’era gente che credeva nel diavolo che appariva sotto forma di capra o di cane”. Era diventato socialista in quelle frequentazioni e neanche l’età l’aveva fatto desistere dall’idea che l’immortalità dell’anima fosse un’illusione. Ma forse a dargli speranza, quando sentiva il buio avanzare, possono essere state le parole di San Paolo secondo cui “la follia di Dio è più sapiente degli uomini”.
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