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12 marzo 2008
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E’ morto Torchia, il consigliere dei due Statuti (di Romano Pitaro)
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E’ morto l’ex consigliere regionale Giuseppe Torchia. Nella scorsa legislatura il consigliere ha partecipato ai lavori della Commissione per lo Statuto, avendo, nel 1971, partecipato ai lavori per l’elaborazione della prima Carta costituzionale della Regione. Era un abitudinario il professore. I suoi itinerari ingessati, difficile fargli cambiare idea, stessi luoghi di ritrovo, stessi ristoranti, percorsi uguali. Ricordava Kant, per la sua meticolosa puntualità, a Konigsberg la gente rimetteva l’orologio quando passava il filosofo della ragion pura. Perciò in Consiglio regionale, ogni qual volta le sedute d’aula o di commissione iniziavano tardi, lui ne faceva un caso. Non si spiegava perché non si fosse puntuali. I tempi per sbrigare le incombenze d’ogni tipo dovevano essere assolutamente regolari. Guai a sgarrare. Il suo staff lo sapeva bene e si uniformava alle sue esigenze con il rispetto che si porta non al politico, ma al professore di lettere che s’impone per la sua autorevolezza umana piuttosto che per i 2 segnati sul registro. Era, quel che si dice, una persona seria il professore Torchia. Pochi lo chiamavano onorevole o assessore, lui era, semplicemente, il professore. Abitudinario; perciò detestava le persone imprecise, superficiali o, peggio, quelli che non onoravano la parola data. Detestava la politica chiacchierona. Quand’ è stato assessore alla sanità non era del genere di chi usa, in quella poltrona che in Calabria è stata sempre difficile, galleggiare senza risolvere nessun problema. Ascoltava tutti, con pazienza, fino in fondo, saturando i posacenere di cicche. Si ficcava in ogni vicenda intricata col proposito di andare al quaglio. Buone letture, apprezzava l’intelligenza umana il professore e non sopportava gli stupidi. Di antiche virtù e, naturalmente, vizi. Liberale, all’inizio della sua carriera politica, poi socialista e laico irriducibile, ha attraversato la politica, anche nei momenti cupi, tenendo bene a mente che i rapporti umani sono da salvaguardare in ogni circostanza. Parlare con lui non era mai superfluo. Alla fine d’ ogni conversazione ti restava sempre qualcosa. Sapeva ascoltare. E con gli occhi morbidamente adagiati sul volto della persona che gli stava di fronte, con in mano l’immancabile sigaretta, squadrava l’interlocutore da cima a fondo e alla fine di lui sapeva tutto. Gli aveva scavato nell’animo profondamente e l’aveva incluso nella sua banca-dati mentale per sempre, cosi diventava un amico, un quasi amico, un conoscente o uno pericoloso per sé e per gli altri da non ricevere mai più. Non credeva, ostinatamente, in due cose il professore: nel Presidenzialismo e nella comunicazione pubblica, quella dai toni enfatici e chiassosa gli creava persino un disagio fisico. Per la prima, quando si rese conto, nella VII legislatura, dell’impossibilità di riformare dal basso l’elezione diretta del Presidente della Regione (partecipando alla commissione per l’elaborazione del nuovo Statuto lui che aveva preso parte ai lavori per la Magna Charta della Regione nel 1971), stentava a comprendere cosa stesse accadendo nel Paese. Non capacitandosi che si sorvolasse sui rischi insiti in una scelta legislativa (la legge costituzionale n 1 del 1999 ha introdotto l’elezione diretta del Presidente della Regione) che, a suo avviso, mutava la stessa idea di democrazia partecipata. Aborriva l’idea dell’Uomo solo al comando, anche di quello platonicamente migliore. Ricordava i suoi trascorsi durante la stesura del primo Statuto della Regione che conosceva a menadito, cosi com’era ferrato su ogni piega della legislazione regionale, e definiva “una sciagura” l’elezione diretta del Presidente della Regione. Per lui, fermo sulle virtù del sistema proporzionale, la politica era la depositaria unica della volontà popolare, e la risultante della dialettica tra i partiti e tra i politici, anche se controversa e virulenta, era l’unico metodo per costruire la decisione. Per la seconda, il professore era proprio il politico con cui un giornalista non vorrebbe mai avere a che fare. A volte, il suo atteggiamento di chiusura risultava scostante. Proprio non condivideva l’utilità della stragrande maggioranza delle informazioni politiche immesse nel circuito mediatico da chi svolge funzioni istituzionali. Anche quando era assessore regionale e produceva atti da cui la sua immagine poteva giovarsi, era restìo a battere la grancassa. Un po’ era nella sua natura vivere l’esercizio politico, che per lui ha avuto gran parte nella sua esistenza, in maniera discreta; lo stesso tono basso della sua conversazione sembrava volesse preservarlo dai rumori di una modernità incattivita e fracassona. Un po’ perché, uomo di un’altra stagione politica, come si riteneva, riconosceva all’atto politico ed amministrativo un’autosufficienza pressoché completa. La politica, specie quella distillata nelle Istituzioni, non ha altro da aggiungere agli atti formali che emana e l’unica sua maniera per incontrare i cittadini è attraverso il risultato prodotto. Questo il suo credo. Temeva anche, il professore, che esasperando l’aspetto della comunicazione, in una società fragile come la nostra, si creassero attese spasmodiche e incontrollate e che l’overdose di comunicazione, oltre che disinformare, fosse un alibi per la politica inconcludente.
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