7 dicembre 2007    

Cos’è accaduto in quel villaggio


Il mostro ( la miniera )  una mattina s’è ridestato ed ha inghiottito novecentocinquantasei vite. Era il 6 dicembre 1907.  Succedeva non di rado a quei tempi che il grisù facesse brutti scherzi. Secondo i dati ufficiali, sono morte 362 persone di cui 172 italiani (ma i morti sono stati il triplo, perché ciascun minatore si portava con sé altri due o tre aiutanti che non venivano registrati e una corrispondenza da Washington del 9 marzo 1908, alla fine dell’inchiesta, riferisce di 956 morti).L'inaugurazione del monumento alle vedove a Monongah
La tragedia di quei calabresi, campani, molisani e abruzzesi, che sono rimasti ammassati nelle tenebre del sottosuolo a causa di un’esplosione che si è avvertita da 12 chilometri di distanza e poi dimenticati dal mondo, è come se fosse accaduta ieri.  Croci sparse qua e là sulla collinetta verde di Monongah è ciò che resta di quei miseri uomini  giunti in America con una nave che partiva da Genova o da Napoli, città dove i derelitti del Sud arrivavano dopo aver subito le angherie dei mezzi di trasporto più vari e le truffe di scaltri intermediari.  Un villaggio americano, Monongah, dentro la West Virginia e a un salto dalla Pennsylvania, dove il 19 dicembre dello stesso anno, nella miniera di Jacob Creek, muoiono 250 persone tra cui molti italiani.

Tra quei morti molti contadini  arrivavano dalla Calabria, proprio quando il New York Times assegnava a John Rockefeller il primato di uomo più ricco del mondo grazie ai suoi 300 milioni di dollari. I nomi di quei disgraziati calabresi, abruzzesi, campani, molisani neanche appaiono sulle croci del cimitero di Monongah.  Finiti in America  per scampare alla fame italiana del 1900. Cerchi i nomi, per esempio di Francesco Abruzzini che aveva 23 anni quando arrivò a Monongah e che da qualche anno s’era sposato nella chiesa del villaggio americano, con una compaesana, ma non trovi neanche la croce. Cerchi i nomi di Antonio e Rosario Bitonti, anche loro calabresi sposati da poco nella chiesa della Madonna di Pompei a Monongah e mai usciti dalla miniera dopo il 6 dicembre del 1907, ma non s’intravede neanche una parvenza di croce. Anzi neanche i dossi di terra. Di quella ciurma di uomini cacciata dalla storia dalle proprie case nell’Italia del Sud, neanche l’ombra di una croce. Di quei cafoni dalle mani ruvide e dal viso intagliato nella pietra, neppure una candela sbriciolata. Di quei contadini diventati minatori neanche un nome, una croce, una tomba. C’è stato un demone feroce, che s’è scagliato contro l’intera esistenza di uomini e donne di cui la storia non ha voluto occuparsi neppure da morti. Così è andata circa un secolo fa.
C’è voluto il presidente della Repubblica, Ciampi, per grattare l’oblìo da quel lembo di terra in cui i loro corpi sono stati ammassati. Loro sono arrivati a Monongah, dopo aver superato gli sberleffi dei controllori di Ellis Island, l’Isola delle lacrime, a New York. Gli hanno indicato una baracca dove dormire la notte. Gli hanno fatto comprare gli utensili indispensabili per andare nelle viscere della terra e spalare carbone nella miniera della Fairmont Coal Company sussidiaria della Consolidation Coal Company. Si sono ritrovati alle 5 del mattino del 6 dicembre sulle rive del fiume West Fork, con addosso il fiato tagliente dei monti Appalachi ricoperti di neve, loro che conoscevano soltanto i monti della Sila. Assieme ad una moltitudine di clandestini, italiani, polacchi, slavi e turchi e moltissimi ragazzi chiamati “raccoglitori di ardesia” o “i ragazzi dell’interruttore”. Forse non gli è parso vero di cacciarsi rapidamente nei due tunnel per ripararsi dal gelo. Il direttore della miniera, Leo Malone, dirà che hanno firmato i registri 478 persone più 100 operai addetti ai muli ed alle pompe. Tra le 10 e le 10 e 30, si scatenò l’inferno. La miniera, come hanno documentato bene i giornali dell’epoca (le ricostruzioni immediate del giornale italo-americano Il Bollettino della Sera, quelle del Fairmont Times e del West Virginia Times firmate da Thomas Koon) è esplosa. La terra fu scossa fino a 12 chilometri di distanza. Morirono di una morte orribile.
I loro corpi sono stati in parte tirati fuori da quell’inferno, in parte sono ancora laggiù. è stata detta una messa per tutti, qualche giorno dopo. Ci fu una raccolta fondi e alle vedove sono andati più o meno 200 dollari. “Gente d’Italia” ha rintracciato, in una biblioteca america, il libro su cui sono registrate le offerte volontarie che arrivarono da tutto il mondo. Tranne che dall’Italia. C’è un altro lato della sciagura su cui riflettere: quegli uomini sono morti soli, abbandonati, prima della morte, durante e dopo dallo Stato italiano. Forse non sono stati ricordati finora perché lo Stato italiano sa di averla fatta veramente grossa e non sa come scusarsi con quell’umanità dispersa per il mondo. Natale quell’anno a Monongah non se lo ricorda nessuno. Nel Mezzogiorno italiano lacrime, lutti e tristezza. Poi il silenzio calato sulla strage in cui perirono molti calabresi ( i cognomi più ricorrenti:  Basile, Belcastro, Cimino, D’Alessandro, Ferrara, Legnetti, La Rosa, Todaro, Zampi, Oliverio, Urso, Veltri, Iaconis, Gallo, Scalise)  di San Giovanni in Fiore, Carfizi, Falerna, Guardia Piemontese, Strangoli, Castrovillari, Caccuri, Gioiosa Ionica e San Nicola dell’Alto.

La delegazione del Consiglio regionale in visita al cimitero di Monongah nel 2006A quei tempi Monongah era una grossa cittadina mineraria e tutti i suoi abitanti erano o minatori o legati comunque alle miniere. Le aziende per l’estrazione del carbone costruivano i villaggi badando bene di dividerli in zone per bianchi e per immigrati. Gli italiani, l’80 per cento della popolazione locale,  non eravamo considerati alla stregua dei bianchi, ma come i neri. Per lavorare dovevamo comperare gli utensili nei negozi delle stesse aziende minerarie, erano pagati spesso con buoni utilizzabili solo presso i negozi di proprietà delle aziende minerarie.
Resta tutta da chiarire la vicenda degli indennizzi alle famiglie. Si è detto che  i fondi stanziati non siano mai arrivati, o quasi mai, a destinazione. Alcune donne ricevettero pochi spiccioli, altre dovettero accontentarsi di una mucca o di suppellettili. Una miseria: “Il vero indennizzo, se mai le aziende lo hanno veramente sborsato – ha più volte ribadito il professor Joseph Tropea della Washington University – forse è finito nelle tasche di faccendieri dell’epoca”. Secondo il preziosissimo padre Briggs: “La Compagnia, dopo l’incidente, si riunì in commissione, e decise di stanziare un fondo di 150mila dollari da destinare alle vedove, ma molti minatori, soprattutto italiani, erano a Monongah da soli. Ed alle loro famiglie, in Italia, non giunge nessun risarcimento. Molti furono dati per dispersi dalle famiglie d’origine“


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