Pubblicato il 25/02/2019

N. 01321/2019REG.PROV.COLL. N. 04018/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4018 del 2018, proposto da: XXXXXX, rappresentata e difesa dall’avvocato XXXX XXXXX, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, xxxxxxxx;

contro MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza breve del T.a.r. Lazio – Roma - sez. III n. 4283 del 2018;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 ottobre 2018 il Cons. Dario Simeoli e udito per le parti l’avvocato XXXX XXXXX;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.– La professoressa XXXXXX – premesso di rivestire dal 1 novembre 2001, la qualifica di professore associato di Diritto del lavoro (SSD IUS/07) presso l’Università degli Studi di xxxx, Dipartimento di Giurisprudenza – deduce che: - aveva presentato domanda di ammissione alla procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale (di seguito: “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia indetta dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, per l’anno 2012, con decreto direttoriale n. 222 del 20 luglio 2012; - in data 11 febbraio 2014, all’esito delle operazioni di valutazione, venivano pubblicati on line – nella sezione del sito web ministeriale appositamente dedicata all’ASN – i verbali e i giudizi espressi dalla Commissione valutatrice che, quanto alla prof.ssa XXXXX, deliberava la non attribuzione dell’ASN; - tale primo giudizio negativo, pertanto, veniva annullato dal T.a.r. del Lazio, Roma che, con la sentenza n. 11423 del 13 novembre 2014, accoglieva il ricorso ordinando il riesame della candidata ad opera di una nuova Commissione; - con Decreto Direttoriale n. 4687 del 30 dicembre 2014 il Ministero appellato, in esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, nominava la nuova Commissione per il settore concorsuale 12/B2, la quale in data 10 settembre 2015 dava avvio all’iter di rivalutazione dei candidati ricorrenti vittoriosi; - all’esito delle operazioni di rivalutazione, in data 7 marzo 2016 venivano pubblicati i giudizi resi con riguardo alla prof.ssa XXXXX, alla quale veniva nuovamente negata l’ASN; - anche avverso detta rivalutazione negativa la professoressa XXXXXX adiva il T.a.r. Lazio che, con la sentenza 4 luglio 2017 n. 7695, accoglieva nuovamente il ricorso; - poiché, a distanza di oltre cinque mesi dal conseguimento della sentenza n. 7695 del 2017, ormai passata in giudicato, il Ministero e la Commissione di rivalutazione nominata in data 3 febbraio 2017, con D.D. n. 317 non davano esecuzione al citato provvedimento giurisdizionale e, pertanto, la prof.ssa XXXXX adiva adire il giudice dell’ottemperanza mediante la proposizione di apposito ricorso (n. 12794 del 2017), la cui camera di consiglio era fissata per il giorno 26 giugno 2018; - dopo oltre sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, in data 31 gennaio 2018 venivano pubblicati online i giudizi resi con riguardo all’appellante, alla quale la Commissione di rivalutazione, ancora una volta, negava l’ASN; - anche l’ultimo diniego veniva impugnato innanzi al T.a.r. del Lazio, il quale, con la sentenza n. 4283 del 18 aprile 2018 respingeva il ricorso, rilevando quanto segue: «Il ricorso è infondato, e va respinto. Non può, innanzitutto essere condiviso il primo motivo, là dove lamenta la violazione del giudicato formatosi sulla sentenza n. 7965\2017 di questo TAR. Al riguardo si deve osservare che, come ripetutamente e costantemente affermato dalla Sezione in materia di abilitazione scientifica nazionale (anche per le valutazione svolte in ottemperanza a sentenza di annullamento: sentenze n. 11583/2016 e 6861/2017), il giudizio della Commissione costituisce tipica valutazione tecnico-discrezionale, sindacabile e dunque censurabile solo in ipotesi di evidenti e macroscopici vizi di illogicità, incongruenza, contraddittorietà, irragionevolezza. Tanto comporta che, anche in sede di ottemperanza al giudicato, l’effetto conformativo della sentenza (che abbia pronunziato l’annullamento per un data omissione della precedente commissione) non possa espandersi al punto di elidere del tutto tale discrezionalità. Al contrario, il contenuto precettivo (ossia dotato di stringente effetto conformativo) delle pronunzie azionate deve ritenersi limitato all’ivi espresso ordine di riesame della posizione del candidato mediante una Commissione in composizione del tutto diversa da quella che ha operato: prescrizione, quest’ultima, che trova la propria ragion d’essere proprio nella necessità che il candidato sia sottoposto ad una valutazione realmente “nuova”, ovvero priva degli inevitabili condizionamenti che deriverebbero ai precedenti Commissari dall’avere già valutato in senso negativo il candidato. Per raggiungere tale fine, pertanto, la nuova Commissione non solo può, ma, anzi, deve, procedere ad un completo esercizio della propria discrezionalità, valutando ex novo il candidato. Tuttavia, come già affermato nei precedenti su citati, tale discrezionalità trova un limite intrinseco nella statuizione del Giudice Amministrativo, in quanto la valutazione della nuova Commissione non può prescindere dalle risultanze di fatto su cui le sentenze azionate si fondano. Nel caso in esame ne deriva quanto segue. Quanto, innanzitutto, alle conseguenze che scaturiscono dalla pronunzia che precede direttamente il giudizio impugnato (ossia la sentenza n. 7965\2017), la quale si è limitata a riscontrare l’illegittima interpolazione di un nuovo parametro di valutazione “quantitativo” da parte della seconda Commissione (la seconda monografia), la “terza” Commissione non avrebbe potuto riferirsi ad altri criteri e parametri di valutazione che quelli dettati dalla “prima” Commissione, come –inevitabilmente- l’Organo nella sua ultima composizione si era determinato a fare in sede di fissazione dei propri criteri. Quanto, inoltre, all’effetto conformativo della precedente sentenza (la n. 11423\2014), esso si limita ad inibire una valutazione di non abilitazione in caso di giudizio di “accettabile” conferito alle opere della ricorrente (se, ovviamente, non accompagnato da valutazioni negative). Ma, di converso, non può fondatamente sostenersi –alla luce della richiamata giurisprudenza della Sezione- che la “terza” commissione fosse tenuta a fare proprio il giudizio di merito della “prima” Commissione; il cui annullamento, come detto, aveva riguardato soltanto –ripetesi- il travisamento del significato attribuito dal D.M. n. 76\2012 alla valutazione di “accettabile” conferita ad alcun opere della ricorrente. Ciò a cui era (ed è) tenuta la Commissione che si accinga a rivalutare la ricorrente, dunque, consiste esclusivamente al rispetto dei limiti (come sopra indicati) derivanti dai due giudicati intervenuti, ferma, per il resto, la discrezionalità che connota l’operato dell’Organo tecnico. 2. – Neppure il secondo motivo può trovare accoglimento. Non possono essere condivise le censure che tendono alla critica di merito delle valutazioni operate dalla “terza” Commissione, che, come ripetuto, costituiscono espressione insindacabile di discrezionalità. Vanno altresì respinte le doglianze che si appellano alla mancanza di analiticità e, in generale, all’insufficienza della motivazione. Invero, come ripetuto dalla Sezione, “tale prescritta analiticità deve tenere conto dell’elevato numero di candidati partecipanti alla procedura e, inoltre, del numero di pubblicazioni e titoli che ogni Commissione deve valutare per ciascuno di essi (attesa la prescrizione di produrre le pubblicazioni rilevanti per esteso); è altresì necessario che ciascuno dei candidati possa avere sicura contezza dell’avvenuta valutazione delle sue opere e della ragione per cui esse non sono state ritenute degne di giudizio positivo (per tutte, sentenza n. 5910/2015 del 22 aprile 2015)”. Tale contezza è stata assicurata alla ricorrente nel caso in esame. Infatti, ciascuno dei giudizi individuali e quello collegiale hanno dato conto del contenuto e della valutazione delle opere maggiore e, in buona parte, anche di quelle minori. Né si deve ritenere che, attesa la peculiarità del caso di specie (che aveva già visto due valutazioni della ricorrente nella medesima tornata) sarebbe stato necessario, a fini motivazionali, che la Commissione da ultimo intervenuta non si fosse limitata ad esporre il proprio pensiero in linea –per così dire- assoluta; bensì, avesse esposto le ragioni per cui, da un giudizio sostanzialmente positivo riportato nella prima valutazione (che aveva condotto alla mancata abilitazione per un error juris nella interpretazione del D.M. n. 76\2012), essa è passata a valutazioni talvolta marcatamente negative (in cui volte ricorre il voto di “limitato”). Ed invero, se così si ritenesse, si finirebbe per elidere la più volte ricordata discrezionalità della “nuova” Commissione, la quale, per quanto detto in precedenza sui limiti dei due giudicati intervenuti, non poteva dirsi condizionata da effetti conformativi differenti da quelli sopra indicati (accezione in senso positivo di eventuale nuovo giudizio di “accettabile” e cristallizzazione dei criteri posti dalla “prima” Commissione); né, proprio perché di rinnovata composizione, avrebeb dovuto attenersi ai precedenti giudizi. A fronte di ciò non può rilevare in senso contrario (a fronte di svariate notazioni negative) la ricorrenza di sporadici apprezzamenti positivi da parte di uno solo dei Commissari, che ha valutato “buono” l’impatto della monografia». 2.– La professoressa XXXXX ha quindi proposto appello, riproponendo sostanzialmente le censure svolte in primo grado, sia pure adattate all’impianto motivazionale della sentenza gravata. 3.– L’amministrazione intimata non si è costituita in giudizio. 5.– All’udienza del 4 ottobre 2018, la causa è stata discussa e trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1.– Il giudice di primo grado ha respinto il ricorso sostenendo che la “terza” Commissione di riesame non era tenuta, nell’esercizio della propria discrezionalità ed entro i limiti indicati nella sentenza oggetto di esecuzione, a far propri i giudizi di merito della “prima” Commissione. Ha aggiunto che, tenuto conto dell’elevato numero di candidati che partecipano alla procedura e del gran numero di pubblicazioni sottoposte a valutazione, i giudizi non risultavano viziati sotto il profilo motivazionale, avendo la Commissione dato conto del contenuto e della valutazione delle opere maggiori e, in parte, di quelle minori, a nulla rilevando i positivi apprezzamenti rinvenibili nei giudizi stessi.

2.– Secondo l’appellante la sentenza sarebbe erronea per i seguenti motivi.

2.1.– In primo luogo, viene riproposta la censura con cui si era contestata l’assoluta contraddittorietà tra il giudizio della “terza” Commissione e quello delle precedenti due Commissioni, dal momento che la stessa domanda di abilitazione, in applicazione degli stessi criteri e parametri, era stata valutata in senso diametralmente opposto rispetto alle valutazioni precedenti, frutto della medesima comunità scientifica. A ciò si aggiunge che l’organo di riesame, una volta insediatosi si era auto-vincolato stabilendo, nel verbale n. 2, che «la propria funzione si debba limitare ed esaurire nel determinare l’esito della procedura, tenendo fermi i criteri e i giudizi già formulati dalla prima Commissione». In applicazione della summenzionato auto-vincolo, il detto organo, con riferimento ai primi tre candidati sottoposti a riesame (xxxxx, xxxxx e xxxxx), aveva confermato i giudizi (di accettabile e buono) resi dalla “prima” Commissione. Sarebbe ravvisabile poi dalla disamina dei giudizi impugnati anche una chiara violazione del [secondo] giudicato. L’assenza, nell’ambito della [seconda] sentenza, di una esplicita rimessione della candidata alla rivalutazione ad opera di una nuova Commissione avrebbe legittimato il MIUR all’inserimento del nominativo della prof.ssa XXXXX nell’elenco degli abilitati alla prima fascia di docenza della tornata 2012 per il SC 12/B2 “Diritto del lavoro”, tenuto conto del fatto che il [secondo] ricorso era stato accolto, con valore assorbente, in ragione della fondatezza della censura inerente alla mancata produzione della seconda monografia (unico motivo della mancata attribuzione dell’ASN) di cui, invece, il T.a.r. aveva appurato l’esistenza.

2.2.– Con il secondo ordine di motivi, si censura nuovamente l’assenza di analiticità dei giudizi negativi, non avendo la Commissione, in spregio alle previsioni di cui all’art. 3, comma 1, del decreto ministeriale n. 76 del 2012, formulato «un motivato giudizio di merito sulla qualificazione scientifica del candidato basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni presentate», limitandosi ad esprimere giudizi generici, talvolta non privi di apprezzamenti, nessuno dei quali individuava con adeguata chiarezza i limiti delle pubblicazioni sottoposte a valutazione.

3.– L’appellante adombra – nel primo ordine di motivi – la violazione ed elusione del giudicato. 3.1.– Va premesso che, secondo un consolidato indirizzo del Consiglio di Stato (a partire dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013), è ben ammissibile la proposizione di un solo ricorso – in luogo dei due che l’interessato in passato, per ragioni di cautela processuale, era costretto ad esperire – avverso tutti i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di un precedente provvedimento, davanti al giudice dell’ottemperanza. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso in sede di cognizione avverso il medesimo nuovo provvedimento. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione. Ciò posto (e assorbita ogni valutazione sulla questione di rito, essendo il giudizio stato incardinato nelle forme del processo ordinario di cognizione), ritiene il Collego che la censura di violazione del giudicato non possa essere accolta.

3.1.– L’appellante sostiene che, in attuazione dei precedenti giudicati, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca avrebbe dovuto direttamente procedere all’inserimento del nominativo della professoressa La Macchia nell’elenco degli abilitati alla prima fascia di docenza, in quanto avrebbe dovuto ritenersi oramai cristallizzato e non più rivedibile il giudizio (espresso in sede di prima valutazione) di «accettabile» e «buono», di per sé non ostativo (in forza di quanto statuito dal primo giudicato) al conseguimento della abilitazione.

3.2.– Il dibattito sulle forme di tutela azionabili nel caso in cui l’amministrazione reiteri con uguale risultato negativo gli esiti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo è risalente. Senza alcuna pretesa di esaustività, possono così sintetizzarsi i termini del dibattito. Secondo un impostazione teorica che ha avuto ampio seguito, il giudicato cristallizza solo un segmento del “flusso” amministrativo continuativo ed inesauribile. La validità del provvedimento impugnato non viene scrutinata dal giudice nel suo complesso – ovvero per qualsiasi ipotetico vizio, anche non apertamente sollevato nel processo – bensì solo in relazione agli specifici vizi motivi esposti nel ricorso. In ragione del carattere «ristretto» e «frammentario» della cognizione, l’azione amministrativa si ri-espande su tutti gli spazi non coperti dalla parentesi giurisdizionale. Su queste basi, si fronteggiano tuttavia due letture divergenti del giudizio di ottemperanza. L’indirizzo maggioritario assume che le regole fissate in sede di cognizione – aventi carattere «implicito», «elastico», «condizionato», e «incompleto» – possano essere integrate nel giudizio di ottemperanza, con la conseguenza che il giudicato sostanziale (ovvero la definizione dell’assetto di interessi controverso) si forma soltanto «in via progressiva». Tale impostazione, che identifica nell’ottemperanza la «chiave della giurisdizione amministrativa», non ha però mai chiarito in quali specifici termini il giudizio di ottemperanza possa completare l’accertamento giudiziale che ha avuto il suo esito nel giudizio di cognizione, manifestandosi opinioni divergenti circa natura, oggetto, poteri e vincoli di una questa peculiare «cognizione esecutiva». Un opposto orientamento ritiene invece che la sentenza amministrativa sia titolo esclusivamente per l’azione esecutiva e non per la “prosecuzione” del giudizio di cognizione, cosicché il giudizio di ottemperanza dovrebbe limitarsi a tradurre in atto le statuizioni contenute nella sentenza definitiva senza possibilità di integrarle. In tempi recenti sono state formulate – in giurisprudenza come in dottrina – svariate proposte “operative” ispirate ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo (i quali imporrebbero di rimeditare la tesi del giudicato a formazione progressiva). Al fine di riconoscere al giudicato amministrativo l’effetto di cristallizzare situazioni giuridiche resistenti alla riedizione del potere amministrativo: - una tesi “radicale” suggerisce di rafforzare la capacità stabilizzante del giudicato amministrativo, ritenendo che esso copra non solo il dedotto ma anche il deducibile, con la conseguenza che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi vizi, integra una violazione del giudicato ogniqualvolta i nuovi vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione (secondo una variante, analogo vincolo deriverebbe, prima ancora che dal giudicato, dalla preclusione maturata nel corso del procedimento amministrativo); - una tesi “mediana” sostiene invece che, dopo la formazione del giudicato, la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale possa sì individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola. Sennonché, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013 – chiamata a giudicare proprio sulla rinnovazione di un concorso universitario in cui la medesima commissione aveva reiterato con motivazioni diverse il suo giudizio negativo già oggetto di annullamento giurisdizionale – non ha accolto le predette istanze evolutive, in quanto ritenute contrastanti con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione. La peculiarità del giudizio amministrativo – si è detto – impedisce la piena espansione del principio del dedotto e del deducibile, poiché il giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso. La sede per sindacare la legittimità dell’atto in sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni della sentenza (andando a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato) non può che essere il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza. La successiva sentenza dell’Adunanza plenaria n. 11 del 9 giugno 2016, in continuità con la citata statuizione del 2013, afferma che «[l]a dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale» (mette conto precisare che, in tale caso, la riedizione del potere viene giustificata sulla scorta di una sopravvenienza giuridica, cui viene equiparata la sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia, mentre la precedente sentenza dell’Adunanza plenaria del 2013 si pronunciava sulla deduzione di fatti pregressi ma non dedotti nel precedente giudizio). L’impostazione di fondo – secondo cui l’efficacia oggettiva del giudicato amministrativo non esclude in assoluto la possibilità di riedizione sfavorevole del potere, anche in assenza di sopravvenienze – è presupposta anche dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 9 febbraio 2016, relativa ad una fattispecie di inerzia dell’amministrazione, in cui viene riconosciuto il potere del commissario ad acta di emanare un provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del Testo unico sull’edilizia n. 327/2001).

3.3.– Alla stregua di tali statuizioni – che il Collegio reputa di non potere mettere in discussione, salvo darvi ulteriore svolgimento nei termini che saranno precisati nel proseguo della motivazione – va preliminarmente circoscritto l’ambito delle preclusioni, discendenti dal giudicato formatosi sui precedenti dinieghi di abilitazione. La dimensione oggettiva del giudicato amministrativo è correlata all’oggetto del processo e alla struttura del giudizio. Quando, come accade nella specie, è impugnato un provvedimento discrezionale, i limiti oggettivi del giudicato amministrativo sono saldamente ancorati agli specifici argomenti di fatto e di diritto che integrano la violazione accertata dal giudice. Occorre quindi isolare il «dispositivo sostanziale» della motivazione, che nel processo amministrativo oltrepassa la funzione meramente giustificativa della decisione, in quanto può conformare la successiva attività amministrativa.

3.4.– Il primo giudicato (discendente dalla sentenza del T.a.r. del Lazio n. 11423 del 13 novembre 2014) riteneva fondato il vizio consistente nella manifesta incoerenza tra il tenore sostanzialmente positivo della valutazione effettuata dalla commissione (i cui giudizi di merito si erano attestati tra il livello di «buono» e quello di «accettabile») ed il diniego di abilitazione. La sentenza precisava che, in via conformativa, una nuova commissione («in composizione del tutto differente da quella che ha operato»), avrebbe dovuto procedere ad una rinnovata valutazione della candidata. Il secondo giudicato (di cui alla sentenza del T.a.r. del Lazio n. 7695 del 4 luglio 2017) annullava le operazioni di rivalutazione – che avevano nuovamente negato all’odierna appellante l’abilitazione scientifica nazionale alla funzione di professore di prima fascia – rilevando come il diniego rinvenisse la propria ragione nella mancata produzione di una seconda monografia, invece sussistente (la candidata, infatti, pur avendo allegato una sola monografia, aveva in realtà indicato di avere presentato ben tre monografie), in violazione dell’art. 3, comma 3, del decreto-ministeriale n. 76 del 2012, che non consentiva alla Commissione di introdurre, ex post, un requisito preliminare di ammissibilità della valutazione delle pubblicazioni medesime, a pena di esclusione (non venivano dettate prescrizioni in ordine alle modalità di rivalutazione).

3.5.– Con tutta evidenza, il contenuto di accertamento delle predette decisioni passate in giudicato era alquanto ristretto, difettando qualsivoglia statuizione sulla fondatezza della pretesa. L’inesistenza di qualunque vincolo di apprezzamento positivo era del resto implicita nell’investitura di una diversa commissione per le operazioni di rivalutazione. L’alternarsi di tre diverse Commissioni non consente neppure di ravvisare, nella reiterazione delle statuizioni annullate, una pervicace volontà degli organi amministrativi di eludere il giudicato. Il tratto confermativo dell’azione amministrativa era dunque vincolato esclusivamente dal seguente duplice divieto: di non incorrere nel vizio motivazionale in cui era incorsa la “prima” commissione (limite qualitativo); di non ricollegare effetti preclusivi alla mera omessa “allegazione” della seconda monografia, ove comunque esistente (limite quantitativo). In definitiva – posto che l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione resistente era stato censurato sotto i profili della logicità e coerenza di una valutazione che restava ancora connotata da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa – il decisum della terza operazione di rivalutazione non avrebbe potuto costituire “esecuzione” dei dettati conformativi del “dispositivo sostanziale”, dovendosi invece ricondurre ad una decisione autonoma dell’organo valutativo, collocata al di fuori dello spazio coperto dalla sentenza e quindi soggetta all’ordinario regime di impugnazione.

4.– L’appello deve invece accogliersi in relazione alle sollevate censure di legittimità. 4.1.– Un primo profilo di eccesso di potere va ravvisato nella marcata ed immotivata divaricazione tra la valutazione oggetto del presente giudizio e quelle rese dalle due precedenti commissioni. Non è dato comprendere come la medesima comunità scientifica – sia pure a mezzo di studiosi differenti – abbia potuto valutare, applicando i medesimi parametri di giudizio, in modo così divaricato le pubblicazioni dell’appellante, formulando: le prime due volte i giudizi «buono» ed «accettabile»; la terza volta una valutazione di segno assolutamente negativo, con l’utilizzo del livello di classificazione «limitato». Il sovvertimento della portata dei giudizi precedenti, senza alcuna trasparente costatazione della erroneità del giudizio precedente, appare sintomatico di un andamento perplesso e contraddittorio della pubblica amministrazione. L’equivocità dell’operato di quest’ultima è resa ancora più manifesta dal fatto che lo stesso organo di riesame aveva prestabilito, come risulta dalla lettura del verbale n. 2, che «la propria funzione si debba limitare ed esaurire nel determinare l’esito della procedura, tenendo fermi i criteri e i giudizi già formulati dalla prima Commissione».

4.2.– La motivazione formulata dalla Commissione di rivalutazione appare poi sfornita di un adeguato supporto motivazionale, in violazione dell’art. 4, comma 4, del decreto di indizione della procedura (d.P.R. n. 222 del 2011) che prescriveva una valutazione “analitica” delle pubblicazioni scientifiche e dei titoli presentati. Tenuto conto che si trattava del riesame di un numero esiguo di candidati, non può neppure invocarsi quale esimente – contrariamente a quanto invece ritenuto dal giudice di primo grado – la necessità di dover contemperare l’obbligo di analiticità della motivazione con l’esigenza di far fronte ad un consistente numero di domande. 4.3.– Con riguardo alla negativa valutazione della produzione scientifica minore (complessivamente valutata, senza alcun richiamo ad alcuna delle singole pubblicazioni della candidata) la Commissione ha ritenuto non valutabili “le curatele” dei volumi. Sennonché, alcuni di detti lavori non costituivano affatto attività di mera organizzazione di una pubblicazione a carattere scientifico (si tratta, in particolare, delle pubblicazioni n. 2 e n. 9 allegate alla domanda di partecipazione). Sul punto l’appellante produce documentazione da cui si desume che, relativamente a taluni altri candidati abilitati, la “prima” Commissione aveva ritenuto suscettibili di valutazione anche le curatele (cfr. allegato n. 11). 4.4.– Concorre a corroborare il deficit motivazionale la circostanza che uno dei cinque giudizi che pure conclude per la non attribuzione dell’abilitazione scientifica alla candidata (quello formulato dal commissario professor Ferraro) appare formulato in termini sostanzialmente positivi, senza che questa macroscopica divergenza rispetto alle valutazioni degli altri commissari abbia trovato una qualsivoglia “sintesi” nel giudizio finale. In particolare, detto commissario: - precisava che le prime due monografie risultano «positivamente considerate dalla comunità scientifica» e che la terza, sottoposta a valutazione, «si fa apprezzare per l’accurata documentazione e il taglio originale dell’indagine essendo concentrata sulle delibere della Commissione di garanzia che avrebbe esorbitato dalle sue funzioni istituzionali favorendo una dilatazione dei settori coinvolti in una regolamentazione restrittiva del diritto di sciopero»; - valutava positivamente l’impatto, qualificandolo di livello «buono»; - affermava che «[l]a candidata ha svolto un’apprezzabile attività di coordinamento di importanti ricerche scientifiche di livello internazionale (finanziate dall’Unione europea attraverso bandi pubblici), con la partecipazione di studiosi stranieri di elevata qualificazione, nell’ambito delle quali ha pubblicato Saggi introduttivi e di sintesi di notevole interesse, segnatamente sui temi dello Sciopero e della Rappresentanza sindacale che si fanno apprezzare anche sotto il profilo della comparazione degli ordinamenti europei»; - valutava positivamente la produzione minore, ritenendo che «[d]ue corposi volumi sui temi indicati pubblicati in lingua inglese sono stati ampiamente divulgati in ambito europeo. Buona la produzione minore in particolare sulla tutela della disabilità e sulle riforme del lavoro pubblico»; - su queste basi, concludeva nel negare l’abilitazione, adducendo in modo laconico «qualche discontinuità nell’impegno scientifico» e «qualche incertezza metodologica». 4.5.– Per tutti i motivi suesposti, anche per il “terzo” diniego di abilitazione va annullato.

5.– Occorre a questo punto precisare le conseguenze del dispositivo di annullamento. A tale riguardo, il Collegio ritiene necessario tornare ancora una volta sulla questione se, dopo l’accertamento giurisdizionale della illegittimità di un diniego su di una istanza, l’amministrazione possa negare nuovamente al ricorrente il bene della vita a cui il ricorrente aspira in base ad accertamenti o valutazioni che sarebbero potuti essere già compiuti nell’originario procedimento amministrativo, ovvero se ne consegua il vincolo conformativo di accordare la richiesta del cittadino. Le recenti statuizioni dell’Adunanza plenaria – di cui si è dato sopra conto – devono trovare ulteriore svolgimento ad avviso del collegio, il quale ritiene che non sia accettabile che la crisi di cooperazione tra amministrazione e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo, senza che sia possibile addivenire ad una definizione positiva del conflitto, con grave dispendio di risorse pubbliche e private. 5.1.– Il discorso – evidentemente molto ampio, in quanto involge svariati aspetti di teoria generale: la struttura impugnatoria del processo su ricorso, il suo oggetto, i rapporti tra atto e processo, tra processo e procedimento, tra cognizione ed esecuzione, nonché la consistenza della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo – va opportunamente circoscritto. Il giudicato amministrativo si presenta infatti in modo proteiforme, a seconda del modello di azione in contestazione (in particolare, a seconda del tipo e grado di discrezionalità amministrativa), delle situazioni giuridiche coinvolte (diritti e interessi legittimi, oppositivi e pretensivi), e della tipologia di vizio posto a fondamento della pronuncia costitutiva. La fattispecie presa in considerazione è quella in cui il vizio accertato con l’autorità del giudicato consiste nella violazione di una norma che assicura all’istante soltanto la possibilità di conseguire il bene finale. L’illegittimità – relativa, nella specie, al dovere di logica e corretta motivazione – non ha determinato la privazione di un’utilità che il diritto assicurava con certezza all’istante, ben potendo non avere avuto alcun ruolo eziologico nel determinare il dispositivo del provvedimento che si assume pregiudizievole. Nel sistema di tutela amministrativa ben possono darsi disposizioni protettive la cui violazione priva gli interessati non del risultato finale, bensì di una utilità intermedia, consistente nella mera possibilità di un risultato vantaggioso. In tali casi, la sentenza non si pone quale fonte diretta del «rapporto amministrativo» in sostituzione di un «atto amministrativo», semplicemente perché non può contenere l’accertamento sostanziale dei presupposti per ottenere il risultato della vita. In definitiva, quando l’eliminazione dell’atto impugnato avviene sulla base dell’accertamento di uno o più vizi che attengono a elementi discrezionali dell’esercizio del potere, la sentenza limita il potere nella sua fase di rinnovo ma senza segnarne l’esito. Va subito precisato che tale limitatezza dell’oggetto del decisum si spiega, per l’appunto, in ragione delle specifiche caratteristiche del “bene intermedio” tutelato – segnatamente: il valore distinto ed autonomo costituito dalla perdita della possibilità di conseguire il risultato sperato – e non a cagione di una presunta inadeguatezza del sistema di giustizia amministrativa. È vero semmai il contrario: il processo amministrativo garantisce una (specifica) tutela costitutiva rispetto a posizioni giuridiche che, nell’ambito dei rapporti civili soggetti alla giurisdizione ordinaria – dove pure possono aversi conflitti prettamente “modali”, aventi cioè ad oggetto posizioni strumentali e non finali –, ricevono una tutela (ex post) meramente risarcitoria (danno alla chance), e talora restano addirittura privi di uno sbocco di tutela (si pensi, per citare un caso emblematico, al licenziamento giustificato da ragioni inerenti all’attività produttiva, rispetto al quale l’art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, prevede che «l’inosservanza delle disposizioni in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto»). Nei casi in cui l’interesse legittimo attiene – come nel caso di specie – a tale “bene intermedio”, l’ordinamento amministrativo, sovente, non predetermina alcuna gerarchia degli interessi in conflitto, demandando tale compito all’azione amministrativa, sia pure sottoponendola a condizioni. La protezione di questo “bene intermedio”, allora, si proietta nel procedimento decisionale attraverso congegni limitativi e conformativi del potere amministrativo. Quando tali limitazioni – nel caso di specie, il vincolo di motivazione coerente ed esaustiva – non ricomprendono nel loro raggio di protezione l’interesse materiale, la tutela processuale di annullamento finisce per incidere sulle manifestazioni del potere amministrativo in termini essenzialmente negativi. Resta da capire se questa “possibilità attuativa” debba necessariamente scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta, oppure se il sistema di giustizia amministrativa sia in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali. La necessità di dimostrare nei fatti tale evoluzione appare anche coerente con la recente affermazione – che il collegio condivide pienamente – secondo la quale, avendo riguardo alla concezione soggettiva della tutela e alla centralità processuale della situazione soggettiva rispetto all’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, sembra ormai potersi «capovolgere definitivamente l’allocazione tradizionale delle due situazioni soggettive, entrambe attive, che si muovono nel processo, e ci si può forse spingere ad affermare che è l’interesse alla mera legittimità ad essere divenuto un interesse occasionalmente protetto, cioè protetto di riflesso in sede di tutela della situazione di interesse legittimo». A tal fine, non è utilmente invocabile il principio del dedotto e del deducibile, quale espediente per ampliare i confini di estensione dell’area coperta dalla forza del giudicato amministrativo. Al di là delle svariate ricostruzioni dottrinali, l’anzidetto principio giurisprudenziale – il quale, come avverte la dottrina, non influisce in modo alcuno nel senso di restringere o ampliare i limiti oggettivi del giudicato – sta ad indicare che non è ammesso al giudice di un futuro processo di disconoscere o diminuire il bene riconosciuto nel precedente giudizio: ma tale bene, nella ipotesi in esame, è rappresentato dalla sola possibilità di vedere realizzato il risultato sperato. Per gli stessi motivi è del pari infruttuoso richiamare gli esiti del dibattito civilistico sull’oggetto del processo e del giudicato nelle impugnative c.d. negoziali, in quanto trattasi di profili che evidentemente per nulla sono in grado di proiettare verso la «spettanza» la tipologia di contenzioso in esame. 5.2.– All’esito dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa culminata con il nuovo codice del processo amministrativo, il sistema delle tutele è stato segnato dai seguenti principali sviluppi, che si pongono tutti in direzione di una maggiore “effettività” del sindacato del giudice amministrativo, sia nei casi in cui il provvedimento viene confermato, sia nei casi in cui l’interesse legittimo viene ritenuto leso. Quanto al primo di tali profili, mentre lo schema classico della giustizia amministrativa era contrassegnato dalla equivalenza di tutte le norme violate, nel contesto attuale le risultanze del processo devono essere invece commisurate alla consistenza dell’interesse materiale: ciò accade, sia nell’azione costitutiva – dove, per effetto dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, la difformità dal diritto obiettivo che non abbia inciso sulla adeguata sistemazione degli interessi in gioco non può comportare l’annullamento dell’atto –, sia nell’azione di condanna, dove pure non può accordarsi protezione al portatore di rimostranze meramente “formalistiche”. Quanto al secondo di tali profili, anche (rectius, soprattutto) la protezione dell’interesse legittimo ha nel contempo guadagnato in «effettività», sotto i seguenti aspetti: - il c.p.a. prefigura un sistema aperto di tutele e non di azioni tipiche, il quale riflette l’esigenza di una tutela conformata non alla situazioni giuridiche sostantive (secondo la tradizione romanistica) bensì al bisogno differenziato di tutela dell’interesse protetto, il cui grado e la cui intensità sono spesso definiti ex post dal giudice e non ex ante; - per quanto permanga la centralità della struttura impugnatoria, il c.p.a. valorizza al massimo grado le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita; - è oramai acclarata la possibilità per il giudice di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento (l’art. 64 del c.p.a. contiene una traccia, sia pure incompiuta, degli oneri di contestazione, di allegazione, di prova necessari ad ordinare in forma sequenziale un giudizio esteso al rapporto), in quanto al giudice compete l’accertamento del fatto senza essere vincolato a quanto rappresentato nel provvedimento; - al giudice della cognizione è stato attribuito il potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34 comma 1 lettera e), consentendo di esplicitare a priori, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più a posteriori, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento; - in definitiva, la giurisdizione è piena, nel senso che il giudice ha il potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall’autorità amministrativa. 5.3.– Sennonché, sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza amministrativa l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale. Ciò accade proprio nell’ipotesi in discussione di “discrezionalità tecnica”, in cui il fatto presupposto del potere di abilitazione (segnatamente: il livello di maturazione scientifica dei candidati) viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di “fatto storico” (accertabile in via diretta dal Giudice), bensì di fatto “mediato” e “valutato” dalla pubblica amministrazione. In questi casi, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto. Per ampliare i margini di tutela, l’interessato resta libero di far valere, non solo la pretesa ad un provvedimento (specifico) satisfattivo, ma anche la pretesa (minore) ad un provvedimento legittimo. L’accoglimento dell’interesse strumentale qui non è altro che un modo di proteggere l’interesse finale, nei casi in cui (per l’atteggiarsi concreto della singola fattispecie normativa e amministrativa) non sia possibile dedurre in giudizio la titolarità di una posizione sostantiva finale, bensì soltanto il rispetto di un sistema di regole. L’anfibologia del c.p.a. – che riflette la flessibilità che lo strumento processuale deve assicurare, in vista della eterogeneità della situazioni che possono realizzarsi nel concreto dispiegarsi dell’azione amministrativo – risulta evidente dalla trama normativa: - mentre l’ampia formulazione dell’art. 114 c.p.a. riflette la tradizionale tesi della riedizione della funzione amministrativa dopo la sentenza di annullamento del giudice amministrativo, sindacabile in una fase processuale di “esecuzione a cognizione integrata”, l’art. 34 c.p.a., introducendo una inedita modalità di “cognizione ad esecuzione integrata”, sembra postulare che non sia riservata alla funzione esecutiva la traduzione in concreto dei precetti; - mentre gli artt. 7, commi 1 e 4, 30 e 108 chiamano in causa l’interesse legittimo, gli artt. 31, comma 3, 34 comma 5, e 40, riferendosi rispettivamente alla pretesa e all’oggetto della domanda, richiamano l’aspettativa di conseguire il bene della vita.

6.– Lo stesso codice del processo amministrativo, pur non tratteggiando un modello compiuto, consente di delineare in via interpretativa un dispositivo di chiusura del sistema, volto a scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria di una vicenda sostanzialmente unitaria. Ad avviso del collegio tale dispositivo può essere indentificato, su più ampie basi argomentative, nella “riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa”, in via sostanziale o processuale. 6.1.– In primo luogo, viene in rilievo il richiamo, effettuato in esordio, all’esigenza di una tutela piena ed effettiva «secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» (art. 1). Il principio del rimedio effettivo (frutto della convergenza sinergica, in tema di garanzie della tutela giudiziaria, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo con le previsioni della Carta costituzionale) ha reso oramai recessiva l’idea che la garanzia delle posizioni sostanziali possano restringersi al mero accesso a un giudice e a una procedura regolata dalla legge, implicando invece anche la possibilità di ottenere un provvedimento di tutela adeguato e omogeneo al bisogno di protezione di chi agisce. L’enfasi sulla strumentalità delle regole del processo rispetto alle ragioni della giustizia sostanziale ed il necessario riscontro di adeguatezza tra il mezzo di tutela e la posizione sostanziale segnano il passaggio dal principio di atipicità dell’azione, al principio di atipicità delle forme di tutela. Se l’effettività della tutela giurisdizionale è la capacità del processo di far conseguire i medesimi risultati garantiti dalla sfera sostanziale, l’interesse legittimo abbisogna della predisposizione dei rimedi idonei a garantire il conseguimento dell’utilità “primaria” specificatamente oggetto dell’aspettativa riconosciuta dall’ordinamento. 6.2.– Su queste basi assiologiche, il codice del processo amministrativo affida poi a due disposizioni il compito di esplicitare (per la prima volta) il punto di contemperamento tra il principio di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela (24, 103 e 113 Cost., artt. 6 e 13 della Convenzione europea) ed il principio di separazione dei poteri (art. 1 e 97 Cost., con il quale tradizionalmente viene giustificata la riserva di valutazione in capo alla pubblica amministrazione). L’art. 31, comma 3, del c.p.a. – avente applicazione generale, sia che l’amministrazione rimanga inerte sia che emani un provvedimento espresso di diniego – dispone che: «[i]l giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione». Quindi, per la definizione dell’intero rapporto sostanziale, vengono dettati i seguenti limiti: soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità, il giudice potrà spingersi sino alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto. Dall’art. 34, comma 2, del c.p.a. – alla cui stregua il giudice non può pronunciarsi che «con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati» (art. 34, comma 2) – si desume invece che non sono consentite domande di tutela preventiva dell’interesse legittimo, dirette cioè ad orientare l’azione futura dell’amministrazione, prima che questa abbia ancora provveduto. Ebbene, la “riduzione” della discrezionalità amministrativa (anche tecnica) può essere l’effetto: a) sul piano “sostanziale”, degli auto-vincoli discendenti dal dipanarsi dell’azione amministrativa, contrassegnata dal crescente impiego di fonti secondarie e terziarie che si pongono spesso come parametri rigidi per sindacare l’esercizio della funzione amministrativa concreta (anche se originariamente connotata in termini discrezionali); b) sul piano “processuale” dei meccanismi giudiziari che, sollecitando l’amministrazione resistente a compiere ogni valutazione rimanente sulla materia controversa, consentono di focalizzare l’accertamento, attraverso successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere (si pensi alla combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere, ma anche alle preclusioni istruttorie e alla regola di giudizio fondata sull’onere della prova), concentrando in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza. La consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati. In alcuni casi, può accadere che la pervicacia degli organi amministrativi a reiterare le statuizioni annullate integri una elusione (palese o occulta) del giudicato: in tal caso deve ammettersi la possibilità, per il giudice dell’ottemperanza, di sindacare anche su aspetti non pregiudicati dalla sentenza. Ma anche in una vicenda come quella in esame – in cui, per le ragioni anzidette, l’alternarsi di tre diverse Commissioni non consente di ravvisare nel nuovo vizio di illegittimità un palese sintomo dell’intento di non attuare il giudicato –, il susseguirsi di tre giudicati di annullamento ha comunque l’effetto di «svuotare» l’amministrazione del proprio potere discrezionale. Con la precisazione che il giudicato costituisce, in tale ipotesi, un vincolo alla discrezionalità amministrativa operante come “fatto” e non come “atto”. 6.3.– Pur con tutte le inevitabili esigenze di assestamento, il rimedio appena tratteggiato – i cui contorni ed i cui limiti saranno precisati dalla casistica giurisprudenziale (che dovrà specificare, ad esempio, cosa accade quando vengano in rilievo decisioni pubbliche di elevata discrezionalità e valore politico) – appare in grado di contemperare la regola per cui il processo amministrativo non può attribuire un bene della vita prima di una determinazione della pubblica amministrazione, con l’esigenza di assicurare, sin dove possibile, una tutela piena anche all’interesse pretensivo (per il quale la pronuncia di annullamento raramente si presenta autonomamente satisfattiva), tenuto conto delle specificità correlate al sindacato sul potere pubblico. È compito precipuo della giustizia amministrativa approntare i mezzi che consentono di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività delle tutele. La tutela piena, del resto, risponde anche ad un obiettivo di efficienza complessiva del sistema, dal momento che lo sviluppo economico e sociale del Paese passa anche attraverso una risposta rapida e “conclusiva” delle ragioni di contrasto tra le Amministrazioni ed i cittadini. Alla luce delle svolte considerazioni, deve ritenersi che, nella vicenda in esame, l’ambito di discrezionalità tecnica rimessa all’Amministrazione si sia progressivamente ridotto sino a “svuotarsi” del tutto.

7.– In conclusione, l’appello deve essere accolto. Nel dare esecuzione alla presente sentenza, il Ministero appellato dovrà rilasciare l’abilitazione per cui è causa in favore dell’appellante. 7.1.– Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza come di norma.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 4018 del 2018, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado: - annulla gli atti impugnati; - ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera e), del c.p.a., dispone che, in attuazione del giudicato, il Ministero appellato rilasci l’abilitazione per cui è causa in favore dell’appellante.

Condanna l’Amministrazione intimata al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio, che si liquida in € 6.500,00, oltre IVA e CPA come per legge Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 ottobre 2018 con l’intervento dei magistrati: Luigi Carbone, Presidente Francesco Mele, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Italo Volpe, Consigliere L'ESTENSORE Dario Simeoli

IL PRESIDENTE Luigi Carbone

IL SEGRETARIO