17 ottobre 2005    

Monongah/ West Virginia: è esplosa la miniera… (di Romano Pitaro)




Quel che rimane di una tragedia di cent’anni fa è, come dire?, molto cerebrale.
Il mostro una mattina s’è ridestato ed ha inghiottito novecentocinquantasei vite. Ma il 1907 è da un pezzo, ormai, un suono senza più eco. Succedeva non di rado a quei tempi che il grisù facesse brutti scherzi. Emile Zola, nella seconda metà dell’800, descriveva le miniere come draghi sotterranei: “La miniera è una bestia in agguato il cui respiro è appesantito da tutta quella carne umana da smaltire”.
Scaldarsi, oggi, per un disastro del 1907 in cui, secondo i dati ufficiali, sono morte 362 persone di cui 172 italiani (ma i morti sono stati il triplo, perché ciascun minatore si portava con sé altri due o tre aiutanti che non venivano registrati e una corrispondenza da Washington del 9 marzo 1908, alla fine dell’inchiesta, riferisce di 956 morti), è alquanto arduo.
Miniere e cave. Giornate cupe riempite dal grisù che rende irrespirabile l’aria. Uomini sdraiati sul fianco con la piccozza maneggiata di sbieco e con le palpebre appesantite dal carbone. Mani abili che riempiono nervosamente il carrello. Camicie sporche di polvere nera e sudore, corpi seminudi smagriti dalle privazioni, uomini di statura bassa e con le gamba a roncola, sputi che lasciano chiazze nere sul terreno. Il paesaggio ancestrale tipico delle viscere della montagna, ha appassionato la letteratura di tutti i tempi e provoca, ancora oggi, quel pathos che è un misto di paura dell’ignoto e, in questo caso, rabbia per le molte ingiustizie subite dai derelitti della storia. Anzi, dai dannati senza storia del Mezzogiorno italiano sparsi per il mondo.
Di solito il tempo raffredda i bollori delle reazioni più sdegnate. Non così per Monongah, che offre ancora immagini raccapriccianti: una donna in nero che scava con le mani, ogni giorno, per trent’anni, nella vana speranza di trovare il marito ed il figlio uccisi dal gas.
La tragedia di quei calabresi, campani, molisani e abruzzesi, che sono rimasti ammassati nelle tenebre del sottosuolo a causa di un’esplosione che si è avvertita da 12 chilometri di distanza e poi dimenticati dal mondo, è come se fosse accaduta ieri. E non c’è bisogno di scomodare la luna, né il Germinale dello scrittore francese, o Ciàula (“E che poteva importane a Ciàula, che in cielo ci fosse la luna”) e Pirandello, per rivivere la rabbia e la sofferenza di quel flusso di miseri emigrati dal Mezzogiorno di un’Italia spenta e affogata nel latifondo dei primi del Novecento che, per non soccombere all’inedia, furono costretti a cercare pane oltre Oceano e, anziché far fortuna, persero anche gli occhi, la speranza e la vita.
 Croci sparse qua e là sulla collinetta verde di Monongah è ciò che resta di quei miseri uomini abbandonati dallo Stato italiano e giunti in America con una nave che partiva da Genova o da Napoli, città dove i derelitti del Sud arrivavano dopo aver subito le angherie dei mezzi di trasporto più vari e le truffe di scaltri intermediari. Un villaggio americano, Monongah, dentro la West Virginia e a un salto dalla Pennsylvania, dove il 19 dicembre dello stesso anno, nella miniera di Jacob Creek, muoiono 250 persone tra cui molti italiani.
In indiano Monongah significa lupo. Chissà se loro lo sapevano. Ce lo dice, visitando, due anni fa,  con noi il cimitero  di Monongah, il governatore  dello Stato della  West Virginia, Joe Manchin.  Ci dice anche che i suoi nonni arrivarono in America da San Giovanni in Fiore. E’ alto un metro e novanta, Manchin, e non ricorda in nulla i minatori calabresi di una volta, ma è avido di notizie sulla Calabria. Sussurra: “A San Giovanni in Fiore non sono mai andato, ma in tutti questi anni ho sempre sognato le montagne calabresi. Mio nonno mi parlava del suo paese continuamente”. Chissà se loro ci crederebbero.
Loro con gli occhi incavati nelle orbite e lo sguardo di chi, scappato dalla miseria del latifondo, non teme più nulla. Hanno fatto un viaggio tormentato, che di per sé meriterebbe una trattazione scientifica, per giungere in America (”Merica”). E forse quando chiuderanno gli occhi, sotto le pareti della miniera, prima di perdersi nelle braccia della morte, per un istante godranno della possibilità di far riposare le loro stanche membra.
Il cimitero di Monongah, visto così, con un sole pallido nel cielo di un celeste compatto, è un luogo quasi gradevole, che fa parte del resto. Non è estraneo alle vicende della vita, quasi naturale come un parco giochi per bambini. Ci si può fermare, entrare senza attraversare soglie, senza saltare ostacoli. Visitare i tumuli informi dei defunti.
Nel villaggio del West Virginia, 400 famiglie 900 persone, fa freddo nel mese di novembre del 2003.
Devi coprirti bene, altrimenti il vento ti penetra nel sangue. è il vento che spira dai monti Appalachi. Gelido e perfido. “Di questi tempi non conviene esporsi al vento” dice padre Everett Briggs, novantenne e tosto nell’esigere che la tragedia sia commemorata. Lui che avrebbe voluto che il presidente della Repubblica italiana, Ciampi, venisse a rendere onore ai morti al cimitero del villaggio minerario: “Lo invito a venire qui a depositare una corona sui morti italiani senza nome”. Per mezzo secolo è stato il parroco della Chiesa cattolica di Nostra Signora di Pompei a Monongah e quando pensa alle vedove ed ai figli dei minatori morti ancora si commuove.
Chissà cosa pensavano del vento ghiaccio del 1907, loro. Quei contadini che arrivavano dalla Calabria proprio quando il New York Times assegnava a John Rockefeller il primato di uomo più ricco del mondo grazie ai suoi 300 milioni di dollari. Loro che a dicembre, prima di Natale e dopo aver festeggiato San Nicola il giorno prima nella chiesa cattolica, ci hanno rimesso la pelle. E dopo non li ha ricordati più nessuno. Per quasi cent’anni sono stati sepolti e scordati, neanche una preghiera per le loro anime, neppure una pagina di un’antologia scolastica, né un ricordo pubblico. Sofferenza, morte e oblio: c’è ogni ingrediente utile per confermare le teorie di quelle scuole di pensiero per le quali la vita, superata la soglia di una decente tollerabilità, non vale la pena di essere vissuta.
Cerchi i nomi sulle croci, nel cimitero di Monongah, mentre ringrazi un filo di sole che t’incita a resistere al freddo. I nomi di quei disgraziati calabresi, abruzzesi, campani, molisani. Finiti quassù per scampare alla fame italiana del 1900. Cerchi i nomi, per esempio di Francesco Abruzzini che aveva 23 anni quando arrivò a Monongah e che da qualche anno s’era sposato nella chiesa del villaggio americano, con una compaesana, ma non trovi neanche la croce. Cerchi i nomi di Antonio e Rosario Bitonti, anche loro calabresi sposati da poco nella chiesa della Madonna di Pompei a Monongah e mai usciti dalla miniera dopo il 6 dicembre del 1907, ma non s’intravede neanche una parvenza di croce. Anzi neanche i dossi di terra.
Di quella ciurma di uomini cacciata dalla storia dalle proprie case nell’Italia del Sud, neanche l’ombra di una croce. Di quei cafoni dalle mani ruvide e dal viso intagliato nella pietra, neppure una candela sbriciolata. Di quei contadini diventati minatori neanche un nome, una croce, una tomba. C’è stato un demone feroce, che s’è scagliato contro l’intera esistenza di uomini e donne di cui la storia non ha voluto occuparsi neppure da morti.
Così è andata circa un secolo fa.
C’è voluto il presidente della Repubblica, Ciampi, per grattare l’oblìo da quel lembo di terra in cui i loro corpi sono stati ammassati.
Loro sono arrivati a Monongah, dopo aver superato gli sberleffi dei controllori di Ellis Island, l’Isola delle lacrime, a New York. Gli hanno indicato una baracca dove dormire la notte. Gli hanno fatto comprare gli utensili indispensabili per andare nelle viscere della terra e spalare carbone nella miniera della Fairmont Coal Company sussidiaria della Consolidation Coal Company.
Si sono ritrovati alle 5 del mattino del 6 dicembre sulle rive del fiume West Fork, con addosso il fiato tagliente dei monti Appalachi ricoperti di neve, loro che conoscevano soltanto i monti della Sila. Assieme ad una moltitudine di clandestini, italiani, polacchi, slavi e turchi e moltissimi ragazzi chiamati “raccoglitori di ardesia” o “i ragazzi dell’interruttore”. Forse non gli è parso vero di cacciarsi rapidamente nei due tunnel per ripararsi dal gelo. Il direttore della miniera, Leo Malone, dirà che hanno firmato i registri 478 persone più 100 operai addetti ai muli ed alle pompe. Tra le 10 e le 10 e 30, si scatenò l’inferno. La miniera, come hanno documentato bene i giornali dell’epoca (le ricostruzioni immediate del giornale italo-americano Il Bollettino della Sera, quelle del Fairmont Times e del West Virginia Times firmate da Thomas Koon) è esplosa. La terra fu scossa fino a 12 chilometri di distanza. Morirono di una morte orribile.
I loro corpi sono stati in parte tirati fuori da quell’inferno, in parte sono ancora laggiù. è stata detta una messa per tutti, qualche giorno dopo. Ci fu una raccolta fondi e alle vedove sono andati più o meno 200 dollari. “Gente d’Italia” ha rintracciato, in una biblioteca america, il libro su cui sono registrate le offerte volontarie che arrivarono da tutto il mondo. Tranne che dall’Italia. C’è un altro lato della sciagura su cui riflettere: quegli uomini sono morti soli, abbandonati, prima della morte, durante e dopo dallo Stato italiano. Forse non sono stati ricordati finora perché lo Stato italiano sa di averla fatta veramente grossa e non sa come scusarsi con quell’umanità dispersa per il mondo.
Natale quell’anno a Monongah non se lo ricorda nessuno. Nel Mezzogiorno italiano lacrime, lutti e tristezza. Poi il silenzio. Non sono stati mai definiti eroi della patria. Quegli uomini incupiti dalle privazioni e di poche parole, mai sono stati indicati come esempio, per le nuove generazioni. Addirittura di quei cafoni sporchi, analfabeti e senza occhi per piangere, ci siamo scordati. Per tutto questo tempo.
Fino a quando un giornale, “Gente d’Italia”, grazie a una parente di una vittima, ha ridato voce ai morti ripescando la tragedia dal dimenticatoio. Il presidente Ciampi li ha commemorati a New York ( 2003)  nella sede del Consolato. E’ scattato così il momento dei ricordi. L’ansia di riguadagnare il tempo perduto, di rimettere a posto la storia.
A quegli “eroi dalla faccia sporca” è stato dedicato un monumento collocato a San Giovanni in Fiore a cura del Consiglio regionale calabrese. Il primo monumento a memoria della immane tragedia che vide morire 956 persone. Forse di loro, d’ora in avanti, si occuperà anche il cinema, la letteratura, i media nazionali (l’ha già fatto il Corriere della Sera collocando la notizia in prima pagina, i tg nazionali, Panorama). Si parlerà della corsa che ci fu ai primi del ‘900 di emigrati italiani pieni di speranza che approdarono nella regione mineraria della West Virginia per spalare carbone utile all’espansione industriale americana, magari anche nelle scuole.
La tragedia è rimasta per troppo tempo ibernata e cose da capire o da capire meglio, ce ne sono a iosa.
Dal colloquio ideale che quegli eroi del lavoro terranno con noi, calabresi di cent’anni dopo, avremo senz’altro modo di apprendere una miriade di dettagli sulla tragedia che li ha inghiottiti. Casualità o colpa?, tanto per incominciare.
Colpa della società mineraria che non ha attivato i sistemi di sicurezza allora in voga? Gli undici componenti della famiglia Di Salvo di San Giovanni in Fiore morti in quella che Ciampi, nella sede del Consolato italiano a New York, ha definito “una vera e propria strage” ci spiegheranno che quando sono giunti in America, nel West Virginia erano in corso veri e propri episodi di guerra“ i cui responsabili – come ha spiegato Charles Stafford, premio Pulitzer – furono il carbone e la rapacità di coloro che fecero la propria fortuna con la sua estrazione, il pregiato combustibile ha fatto la fortuna di pochi ed ha provocato una vita miserevole a molti”.
Se interrogheremo i calabresi Basile, Belcastro, Cimino, D’Alessandro, Ferrara, Legnetti, La Rosa, Todaro, Zampi, Oliverio, Urso, Veltri, Iaconis, Gallo, Scalise ci diranno che proprio nel West Virginia si trova Matewan, passata alla storia per il “massacro di Matewan”, quando un treno che trasportava minatori neri ed italiani fu assalito da minatori bianchi in sciopero. Quell’anno, il 1907, ci spiegheranno i calabresi di San Giovanni in Fiore, Carfizi, Falerna, Guardia Piemontese, Strangoli, Castrovillari, Caccuri, Gioiosa Ionica e San Nicola dell’Alto, in tutti gli Stati Uniti morirono 3mila minatori (lo stesso numero di vittime subìto dall’America l’11 settembre) che, pur di sbarcare il lunario, accettavano di vivere in un clima di asservimento e di ricatti, in ambienti privi di garanzie ed in cui la vita di una persona umana valeva ben poco.
A quei tempi Monongah era una grossa cittadina mineraria e tutti i suoi abitanti erano o minatori o legati comunque alle miniere. Le aziende per l’estrazione del carbone costruivano i villaggi badando bene di dividerli in zone per bianchi e per immigrati. Noi italiani, l’80 per cento della popolazione locale, ci diranno ancora i minatori sbucati dall’oltretomba in cui sono stati cacciati, non eravamo considerati alla stregua dei bianchi, ma come i neri. Per lavorare dovevamo comperare gli utensili nei negozi delle stesse aziende minerarie, eravamo pagati spesso con buoni utilizzabili solo presso i negozi di proprietà delle aziende minerarie.
Poi ci diranno di tutta la stranissima vicenda del risarcimento consegnato ai loro parenti. Glielo chiederemo per capire com’è andata. Perché è corsa voce, nei decenni scorsi che i fondi stanziati non siano mai arrivati, o quasi mai, a destinazione. Alcune donne ricevettero pochi spiccioli, altre dovettero accontentarsi di una mucca o di suppellettili. Una miseria: “Il vero indennizzo, se mai le aziende lo hanno veramente sborsato – ha più volte ribadito il professor Joseph Tropea della Washington University – forse è finito nelle tasche di faccendieri dell’epoca”. Secondo il preziosissimo padre Briggs: “La Compagnia, dopo l’incidente, si riunì in commissione, e decise di stanziare un fondo di 150mila dollari da destinare alle vedove, ma molti minatori, soprattutto italiani, erano a Monongah da soli. Ed alle loro famiglie, in Italia, non giunge nessun risarcimento. Molti furono dati per dispersi dalle famiglie d’origine“.
Insomma tutta le sequela di perplessità, che rendono ancora oscura l’intera sciagura di Monongah, potrà d’ora innanzi essere affrontata. Dopo che non hanno parlato per cent’anni, sono certo che quegli uomini, pur essendo abituati ad esprimersi più a gesti che con le parole, avranno una voglia di parlare e, soprattutto, di sentir parlare di sé.
Resta da vedere cosa sapremo dirgli noi. A quei morti, che sono talmente vivi da farci rabbrividire, tant’è attuale la loro vicenda di senzaStato, di derelitti in cerca di patria, di uomini soli, di gente giudicata riprovevole da chi viveva in case  confortevoli e trinciava salmoni e offese. Noi italiani, noi calabresi, noi Stato, noi istituzioni italiane ai vari livelli.
Forse, dell’intero dramma dei minatori di Monongah, questa parte del colloquio è la più complessa. La più difficile.
Certe volte, è un bene l’impossibilità di recuperare il dialogo perduto. Le parole non dette. Nelle frasi smozzicate di una lettera ingiallita, i ritagli di giornale, le foto sbiadite di uomini esili come un chiodo, nel registro pesante di una biblioteca americana dove sono annotate le somme giunte dai soccorritori in favore delle vedove, fluisce il dolore profondo di quei miserabili cancellati per circa un secolo dalla memoria.

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